Città del Vaticano , lunedì, 16. maggio, 2016 16:55 (ACI Stampa).
Il rinnovamento del clero. E’ il tema centrale della 69/ma Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana che si è aperta oggi in Vaticano. Ad inaugurare l’assise il discorso di Papa Francesco, nella sua veste di Pastore della Chiesa Universale nonché Primate d’Italia. E anche il Pontefice ha dedicato il suo intervento al tema del rinnovamento clero.
“C’è odore di olio eh?” ha detto il Papa scherzando con i nuovi Vescovi consacrati da poco tempo.
“Senza lo Spirito Santo – è l'incipit del discorso di Francesco – non esiste possibilità di vita buona, né di riforma”. L’intenzione del Papa non è proporre una “una riflessione sistematica sulla figura del sacerdote”. “Proviamo - ha proposto - a capovolgere la prospettiva e a metterci in ascolto. Avviciniamoci, quasi in punta di piedi, a qualcuno dei tanti parroci che si spendono nelle nostre comunità e chiediamoci con semplicità: che cosa ne rende saporita la vita? Per chi e per cosa impegna il suo servizio? Qual è la ragione ultima del suo donarsi?”.
Al primo interrogativo Papa Bergoglio risponde evidenziando come il contesto culturale sia cambiato nel tempo. “Anche in Italia tante tradizioni, abitudini e visioni della vita sono state intaccate da un profondo cambiamento d’epoca. Noi, che spesso ci ritroviamo a deplorare questo tempo con tono amaro e accusatorio, dobbiamo avvertirne anche la durezza: nel nostro ministero, quante persone incontriamo che sono nell’affanno per la mancanza di riferimenti a cui guardare! Quante relazioni ferite! In un mondo in cui ciascuno si pensa come la misura di tutto, non c’è più posto per il fratello”. La vita del sacerdote invece è “diversa, alternativa. Come Mosè, egli è uno che si è avvicinato al fuoco e ha lasciato che le fiamme bruciassero le sue ambizioni di carriera e potere. Ha fatto un rogo anche della tentazione di interpretarsi come un devoto, che si rifugia in un intimismo religioso che di spirituale ha ben poco. È scalzo, il nostro prete, rispetto a una terra che si ostina a credere e considerare santa. Non si scandalizza per le fragilità che scuotono l’animo umano: consapevole di essere lui stesso un paralitico guarito, è distante dalla freddezza del rigorista, come pure dalla superficialità di chi vuole mostrarsi accondiscendente a buon mercato. Dell’altro accetta, invece, di farsi carico, sentendosi partecipe e responsabile del suo destino”.
Usando speranza e consolazione il presbitero “si fa prossimo di ognuno, attento a condividerne l’abbandono e la sofferenza. Avendo accettato di non disporre di sé, non ha un’agenda da difendere, ma consegna ogni mattina al Signore il suo tempo per lasciarsi incontrare dalla gente e farsi incontro. Così, il nostro sacerdote non è un burocrate o un anonimo funzionario dell’istituzione; non è consacrato a un ruolo impiegatizio, né è mosso dai criteri dell’efficienza. Sa che l’Amore è tutto. Non cerca assicurazioni terrene o titoli onorifici, che portano a confidare nell’uomo; nel ministero per sé non domanda nulla che vada oltre il reale bisogno, né è preoccupato di legare a sé le persone che gli sono affidate. Il suo stile di vita semplice ed essenziale, sempre disponibile, lo presenta credibile agli occhi della gente e lo avvicina agli umili, in una carità pastorale che fa liberi e solidali. Servo della vita, cammina con il cuore e il passo dei poveri; è reso ricco dalla loro frequentazione. È un uomo di pace e di riconciliazione, un segno e uno strumento della tenerezza di Dio, attento a diffondere il bene con la stessa passione con cui altri curano i loro interessi”.