Con la domenica delle Palme entriamo nel cuore dell’anno liturgico: la Settimana Santa. In questo tempo santo siamo chiamati a rivivere, con animo raccolto e contemplativo, i misteri centrali della nostra fede: l’istituzione della Santa Messa, il dono del Sacerdozio, la Passione-Morte-Risurrezione del Signore nostro Gesù Cristo. In questa domenica, la seconda lettura -  tratta dalla Lettera di San Paolo ai Filippesi - ci offre uno dei passi più significativi e commoventi della Scrittura. In poche, ma luminose parole, san Paolo raccoglie il mistero della vita di Cristo, così come ci è narrata nei Vangeli. Il brano si apre con una dichiarazione straordinaria: «Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non considerò un privilegio lessere come Dio (Filippesi 2,6). Ci viene rivelato, senza ambiguità, che Cristo è Dio: possiede la natura divina, condivide la stessa esistenza gloriosa e immortale del Padre.

Tuttavia, Cristo, non considerò un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso. Il  verbo “svuotò se stesso”, costituisce il centro pulsante del testo. Cristo, vero Dio, non ha fatto trattenuto per sé la sua gloria, la sua potenza, la sua eterna bellezza. Non ha fatto della sua divinità un privilegio da esibire, né uno strumento di dominio. Al contrario, in un atto di assoluta libertà e di puro amore, rinunciando a tutto ciò che comportava il suo essere Dio, ha scelto di assumere la condizione umana. "Fu uomo tra gli uomini e visse conosciuto come uno di loro”. Non solo è divenuto uno di noi, ma si è abbassato alla condizione di servo e, privandosi di ogni dignità, si è lasciato condurre alla morte, e alla morte di croce- una morte ignominiosa, riservata ai malfattori, scandalo per i Giudei e follia per i pagani. Dio, per amore nostro ha rinunciato alla sua gloria, alla sua forza, alla sua bellezza. Ed è stato Lui stesso a farlo. Come ci ricorda Soren Kierkegaard: ”È stato Cristo ad abbassarsi, non è stato abbassato: nessuno, né in cielo, né sulla terra, né negli abissi poteva abbassarlo”. Fermiamoci a pensare! Chi mai avrebbe potuto concepire un Dio così? Un Dio che si piega per salvarci, che si svuota per arricchirci, che si fa debole per renderci forti.  Questo è il Dio che contempliamo nella Settimana Santa.

Il cammino percorso da Cristo non si conclude con l’umiliazione della croce, né si spegne nel silenzio della tomba. Il Padre interviene in suo favore: lo solleva dalla morte, lo strappa dalle tenebre del sepolcro e lo innalza nella gloria. Ma non si limita a restituirGli ciò che Cristo aveva liberamente lasciato- la forma divina, la gloria eterna - bensì lo esalta oltre misura, conferendoGli il Nome che è al di sopra ogni nome (cf. Fil 2,9). Questo nome è Kurios, Signore. Il nome stesso di Dio. Il Padre, dunque, dona al suo Figlio umiliato e trafitto — respinto dagli uomini, inchiodato come un verme alla croce — la pienezza della Sua Signoria divina e lo proclama Signore dell’universo. Davanti al Cristo risorto e glorificato ogni ginocchio si piega: nei cieli, sulla terra e negli abissi (Fil 2,10) e da ogni angolo della creazione si leva un’unica voce, una sola proclamazione di fede: Gesù Cristo è il Signore . Anche san Pietro, nel giorno di Pentecoste, dichiara al popolo: «Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (At 2,36). Sono parole che risuonano come promessa e speranza. Ci dicono che verrà il giorno — e già ne vediamo l’alba — in cui tutta l’umanità riconoscerà in Cristo il suo Signore, e allora il disegno d’amore di Dio sarà compiuto.

Questa è la meta luminosa verso cui ci conduce l’antico inno cristologico che la Chiesa, da secoli,  medita, canta e considera guida di vita. In questa Settimana Santa che si apre davanti a noi siamo chiamati ad accogliere l’invito di san Paolo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5). Entrare  nei sentimenti del Cristo significa abitare il suo sguardo, respirare il suo amore, conformare a Lui il nostro modo di pensare, di scegliere, di amare. Non si tratta solo di imitare Gesù esternamente, ma di lasciarlo vivere in noi, fino a poter dire, con san Paolo: Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (Gal 2,20). San Gregorio Nazianzeno, uno dei grandi maestri della Chiesa del IV secolo, contemplando questo mistero, afferma con parole semplici e solenni: Il Figlio immortale ha assunto la forma terrena, perché ci vuole bene (Carmina arcana, 2). E’ questo bene che sta alla radice della nostra fede e della nostra vita e che ci permette di guardare al futuro con speranza e fiducia.