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Con la Piccola Casa di san Giuseppe Cottolengo verso il Giubileo degli ammalati

A colloquio con Padre Carmine Arice, padre generale della ‘Piccola Casa della Divina Provvidenza – Cottolengo’ di Torino

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Si terrà sabato 5 e domenica 6 aprile il Giubileo degli ammalati e del mondo della salute con questo programma: sabato 5 il programma prevede, tra le ore 8.00 e le ore 17.00, il pellegrinaggio alla Porta Santa; dalle ore 16.00 alle ore 18:30 un ‘Dialogo con la città’ ci saranno attività di carattere culturale, artistico e spirituale in alcune piazze di Roma; mentre domenica 6 la messa è alle ore alle 10:30 in piazza san Pietro.

Mentre in occasione dell’Angelus di domenica 23 marzo papa Francesco dal Policlinico ‘Gemelli’ papa Francesco aveva scritto di aver sperimentato la ‘pazienza’ di Dio: “​In questo lungo tempo di ricovero, ho avuto modo di sperimentare la pazienza del Signore, che vedo anche riflessa nella premura instancabile dei medici e degli operatori sanitari, così come nelle attenzioni e nelle speranze dei familiari degli ammalati. Questa pazienza fiduciosa, ancorata all’amore di Dio che non viene meno, è davvero necessaria alla nostra vita, soprattutto per affrontare le situazioni più difficili e dolorose”.

Partendo da queste parole abbiamo chiesto a p. Carmine Arice, padre generale della ‘Piccola Casa della Divina Provvidenza – Cottolengo’ di Torino di raccontare il motivo per cui la speranza ‘ci rende forti nella tribolazione’: “In primo luogo dobbiamo riflettere sulla distinzione tra ottimismo e speranza: l’ottimismo consiste nel confidare che alcuni fatti della vita possano evolvere verso il meglio; la speranza, invece, che è una virtù teologale, è la certezza che ogni realtà ha un senso e che la storia è il cammino verso un compimento, verso la Salvezza. La speranza ci rende, dunque, capaci di vivere nella tribolazione con la fiducia che stiamo  camminando verso la Salvezza. Ed è proprio questo che ci rende «forti», in quanto dietro le  situazioni più faticose e tribolate siamo certi di camminare verso una direzione”.

 Come è possibile fare esperienza di Dio nella malattia?

“In primo luogo bisogna fermarsi a riflettere su come si arriva al momento della malattia, perché se  Dio è sempre stato assente nella vita, diventa difficile sperimentare la Sua presenza nella prova. Il  tempo della sofferenza, però, per chi non ha percorso un cammino di fede nella propria vita può  essere un’occasione per far emergere la domanda di senso. A questo proposito è molto bella la lettera che papa Francesco ha scritto al Corriere della Sera durante il tempo della malattia nel lungo ricovero al Policlinico Gemelli: ‘La fragilità umana ha il potere di renderci più lucidi rispetto a ciò che dura e a ciò che passa, a ciò che fa vivere e a ciò che uccide. Forse per questo tendiamo così spesso a negare i limiti e a sfuggire le persone fragili e ferite: hanno il potere di mettere in discussione la direzione che abbiamo scelto, come singoli e come comunità’.

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 Il Papa ci invita a prendere coscienza della nostra fragilità e del bisogno che ciascuno di noi ha di  una guarigione non solo fisica, ma soprattutto spirituale. Chi vive il tempo della malattia fa poi esperienza di Dio attraverso la consolazione di coloro che, in nome di Dio, si fanno compagni di viaggio. E poi si può sperimentare la forza della preghiera, riconoscendo, quindi, che Dio è nostro alleato”. 

In quale modo la malattia può diventare occasione di un incontro che cambia?

“La malattia e la sofferenza sono una forte domanda di senso che costringe a rimettere in ordine i  propri valori e a riflettere su quali sono le priorità. Per esempio si può magari iniziare un percorso  di riconciliazione con qualcuno. Si comprende insomma cosa è veramente importante nella vita e  cosa no. Nel Cottolengo Hospice di Chieri gli ospiti ci dicono che da quando il tempo si è fatto breve ogni giornata diventa più importante. In quest’ottica tutte le giornate della nostra vita  dovrebbero essere importanti, e non sprecate”.

 Cosa significa per un malato fare ‘Giubileo’?

“Significa avere la certezza che la malattia e la morte non sono l'ultima parola. E questo è  certamente motivo di consolazione. Quindi ‘fare Giubileo’ significa ringraziare il buon Dio perchè  non ci lascia soli neanche nel tempo della sofferenza e, soprattutto, porta ogni cosa verso la  Salvezza”. 

‘200 anni di grazia e di vita... nella Speranza’, primo anno del cammino del bicentenario verso l’ispirazione carismatica cottolenghina: in quale modo ci si può aprire alla speranza nella malattia?

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​“Nel cammino che la Piccola Casa sta compiendo verso il bicentenario dell’ispirazione carismatica  (2 settembre 2027) possiamo riflettere sul fatto che il santo Cottolengo aprì il Monastero del  Suffragio proprio per pregare per le persone che morivano nella Piccola Casa. Le persone che  hanno avuto l’occasione di essere accolte e vivere in questa Casa sono dunque morte  generalmente nella pace. In questi 200 anni di vita della ‘Piccola Casa’ possiamo contare su un  insegnamento prezioso: quando la persona non è lasciata sola nella malattia e nella sofferenza  ritrova la fiducia e anche la volontà di continuare a vivere pur nella fatica, perché sa di non essere sola. Questa è stata ed è l’esperienza della Piccola Casa”. 

 

Perchè san Giuseppe Benedetto Cottolengo chiamò ‘Piccola Casa della Divina Provvidenza’?

“Per tre motivi richiamati dal santo stesso. In primo luogo è ‘Piccola’ in confronto ai bisogni 

che ci sono, una piccola risposta. ‘Piccola’, perché siamo chiamati a mantenerci piccoli in 

confronto a Dio, l’autore della Provvidenza, in modo che il Signora possa servirsi di noi come 

suoi strumenti. Il motivo primario, però, fa riferimento al primo nucleo della Piccola Casa, di sei stanze, che il santo Cottolengo avviò in Borgo Dora il 27 aprile 1832, dopo che fu costretto a chiudere l’ ‘Ospedaletto della Volta Rossa’ in via Palazzo di Città a causa del colera che dilagava a 

Torino. Aprì dunque la ‘Piccola Casa della Divina Provvidenza’ per ricoverare le persone malate

che non trovavano accoglienza negli ospedali cittadini. Il Cottolengo ha iniziato la sua Opera in sei stanze, da una Casa piccola, la Piccola Casa appunto”.