È un concetto di pace – sottolinea il “ministro degli Esteri” vaticano – che si trova in tutte le scritture, e che trova una risposta nel magistero dei Papi sulla pace nell’ultimo secolo. Gallagher ricorda la “Nota di Pace” di Benedetto XV nel 1917, i radio messaggi di Pio XII sulla pace nel 1944, e l’enciclica Pacem In Terris di Giovanni XXIII, del 1963, che sottolinea come la pace sia “costruita su quattro pilastri: verità, giustizia, carità e libertà.
Una visione, questa, portata avanti da Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, fino a Papa Francesco che “ha portato una rinnovata enfasi sulla costruzione della pace come un impegno pratico e quotidiano”, delineato nell’enciclica Fratelli Tutti, ma anche nella sua “diplomazia di pace”, con i suoi appelli per il dialogo nel conflitto israelo-palestinese o nella richiesta di riconciliazione in “regioni colpite dalla guerra come Siria e Ucraina”, fino a delineare la necessità di una “ricostruzione di fiducia” tra israeliani e palestinesi con la richiesta di cessate il fuoco a Gaza in occasione del suo discorso di inizio anno al corpo diplomatico del 9 gennaio 2025.
L’arcivescovo Gallagher nota, così, che “la visione cattolica della pace non è semplicemente un accordo diplomatico o una necessità politica”, ma è piuttosto “un dovere morale e un riflesso della volontà di Dio”, che “richiede più di trattati e negoziati”, ma piuttosto “una conversione di cuori, un impegno per la giustizia, un riconoscimento della dignità di ogni essere umano”.
Gallagher ha riflettuto sulla tradizione ungherese, ispirata da Santo Stefano, il re che ha dato alla nazione i principi di unità, giustizia e coesistenza pacifica che sono del Vangelo e si trovano ora nella costituzione.
L’arcivescovo ha sottolineato che “la visione cattolica della pace non è una dottrina isolata confinata nella cornice teologica della Chiesa”, ma “articola principi che sono fondamentalmente universali”, e per questo la Chiesa si può “impegnare nel dialogo con altre religioni, riconoscendo che i valori religiosi, compresi in maniera appropriata, possono essere una fondazione vitale per la pace”.
Il “ministro degli Esteri” vaticano ha affermato che è vero che “la religione nella storia è stata invocata per giustificare conflitti”, ma è anche vero che “la religione è stata anche un potente strumento per la riconciliazione e l’unità”.
La Santa Sede ha messo in luce soprattutto questo secondo aspetto, consapevole che “se la pace deve davvero durare, deve essere fondata su fondamenta che trascendono gli espedienti politici” – un tema cruciale oggi, quando “molti conflitti, indipendentemente dalle loro cause dirette, portano una dimensione religiosa”, come ad esempio la crisi israelo palestinese.
Gallagher ha ricordato che la Santa Sede ha “continuamente cercato di mediare i conflitti, tra le altre cose, promuovendo il dialogo tra le comunità religiose”, e sottolinea che, dalla dichiarazione Nostra Aetate, il lavoro del dialogo interreligioso si è sviluppato sempre di più.
E ancora, ha ribadito che “i principi fondamentali della Dottrina Sociale della Chiesa”, che sono “dignità umana, solidarietà, bene comune”, sono “applicabili a tutta l’umanità”, con una “prospettiva universale che è il motivo per cui la religione, quando propriamente compresa, è indispensabile”, poiché “a differenza delle ideologie politiche, che cambiano con il tempo e le circostanze, i principi morali sostenuti dalla religione – verità, giustizia e riconciliazione – sono durevoli”.
In fondo, ha notato Gallagher, “i trattati politici di pace possono far terminare le guerre, ma senza un fondamento morale, spesso falliscono nel guarire le divisioni”.
Per questo la religione non va considerata un ostacolo, ma “fondamento alla pace”, e dunque “il dialogo interreligioso non è opzionale, ma è uno strumento essenziale per la risoluzione di conflitti che hanno una profonda dimensione storica e morale”.
Gallagher si è chiesto, di fronte allo sviluppo di varie forme di diplomazia (culturale, economica, umanitaria, persino culinaria) si possa parlare oggi di “diplomazia religiosa”, perché diplomazia e religione “possono apparire campi separati”, eppure “si incrociano in molti temi”, rimanendo “fortemente radicata nella natura della persona umana”.
Insomma, la persona umana è al centro della missione della Chiesa, e per questo “la Chiesa non vede il suo ruolo come separato dal mondo politico, ma come intrinsecamente collegato ad esso, specialmente su temi della pace”.
E così, diplomazia e religione, lavorando insieme, ambiscono “a sostenere la dignità umana, a promuovere solidarietà e a creare un mondo dove la pace durevole possa fiorire”.
Gallagher ha sottolineato dunque che la diplomazia religiosa “può essere compresa come una pratica diplomatica che fa leva sule uniche prospettive etiche e morali offerte dalle tradizioni religiosi”, cosa che ha un ruolo particolare nel conflitto.
Nel concreto, il “Ministro degli Esteri vaticano” ha citato la mediazione della Santa Sede per il riavvicinamento tra Stati Uniti e Cuba, o il lavoro di dialogo con l’Islam che ha portato alla firma, nel 2019, del Documento sulla Fraternità Umana ad Abu Dhabi e all’incontro di Papa Francesco con il Grande Ayatollah al Sistani in Iraq nel 2021, e infine alla dichiarazione congiunta tra Papa Francesco e il Grande Imam della moschea Istiqlal a Jakarta nel 2024.
Gallagher ha sottolineato che “il potere della diplomazia religiosa non risiede nella sua forza politica o militare, ma nella sua capacità di rivolgersi ai cuori e alle menti delle persone”, e per questo “la religione non è solo un complemento alla diplomazia”, ma offre “una dimensione aggiuntiva che può portare un cambiamento profondo e durevole”.
In conclusione, Gallagher ha affermato che “la pace non è solo l’assenza di guerra, ma è un attivo e deliberato processo di promuovere la stabilità, la giustizia e la riconciliazione”.
Gallagher in Ungheria, l’incontro con la stampa
Dopo aver avuto un bilaterale con il ministro degli Affari esteri ungherese Péter Szijjártó, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, ministro vaticano per i Rapporti con gli Stati, ha incontrato la stampa.
Nella sua dichiarazione introduttiva, l’arcivescovo Gallagher ha esteso “la sincera gratitudine della Santa Sede con le autorità ungheresi per la loro generosa ospitalità e riconosciuto la dedizione del Corpo Diplomatico ungherese nel coltivare dialogo e amicizia nel nostro mondo sempre più complesso”.
Gallagher ha notato che la Santa Sede si impegna profondamente a “promuovere pace, giustizia e concorda tra le nazioni”, e che le attuali ostilità armate – la guerra tra Russia e Ucraina, il confronto tra Israele e Hamas, la situazione in Medio Oriente che colpisce Siria, Yemen e Libano, le violenze in Africa e in particolare nella Repubblica Democratica del Congo, in Sudan e nel Sahel – “rappresentano non solo sfide geopolitiche, ma anche devastanti crisi umanitarie che richiedono una risposta urgente e globale”.
La Santa Sede – ha aggiunto il presule – “continua a sostenere sforzi diplomatici che pongano la dignità della persona umana al cuore di tutti i negoziati e le soluzioni”.
Gallagher ha notato – rifacendosi al suo intervento della mattina – che “quando è correttamente compresa, la religione non è, e non può essere, fonte di discordia”, ma è piuttosto “un ponte indispensabile che nutre la comprensione, la riconciliazione e la coesione sociale”.
L’arcivescovo Gallagher ha quindi sottolineato che, a livello internazionale, la Santa Sede “resta dedita ad impegnarsi in iniziative diplomatiche che promuovano pace e stabilità”, e questo “include l’impegno per facilitare gli sforzi di mediazione, promuovere lo scambio interreligioso e collaborare con corpi internazionali per sostenere i principi di giustizia e fraternità”.
Il “ministro degli Esteri” vaticano ha anche ribadito l’appello urgente del Papa per “una immediata cessazione delle ostilità e un impegno genuino al dialogo in regioni che vivono la piaga del conflitto”.
La Santa Sede – ha aggiunto – è “anche profondamente preoccupata di sfide globali più ampie che minacciano la pace, incluse le migrazioni forzate, il traffico di esseri umani, e il degrado ambientale”, che richiedono una collaborazione e responsabilità condivisa di tutti gli attori, dai governi alle organizzazioni internazionali alla società civile”.
L'Ungheria e la Santa Sede continueranno a sostenere con coerenza la pace nel prossimo periodo e sosterranno con tutti i mezzi gli sforzi per raggiungerla, ha affermato a sua volta Péter Szijjártó, Ministro degli Affari Esteri e del Commercio di Budapest.
Il ministro ha sottolineato che una delle minacce più gravi a livello mondiale ed europeo è attualmente la guerra in Ucraina, motivo per cui sia l'Ungheria che ila Santa Sede si sono sempre schierati a favore della pace fin dallo scoppio dei combattimenti.
Péter Szijjártó ha espresso apprezzamento per il ruolo svolto dalla Santa Sede nel mantenere i contatti con le parti in conflitto e nel promuovere i negoziati di pace.
"Concordiamo con la precedente valutazione dell'arcivescovo Gallagher secondo cui ci vuole più coraggio per perseguire la pace che la guerra, per scegliere il dialogo rispetto alla violenza e l'onestà rispetto all'ipocrisia - ha affermato - Continueremo a batterci per la pace nel prossimo periodo e a sostenere gli sforzi verso la pace con tutti i mezzi disponibili".
Péter Szijjártó ha accolto con favore i nuovi traguardi raggiunti durante i negoziati di pace, l'accordo sulla sicurezza del Mar Nero e il divieto di attacchi alle infrastrutture energetiche.
Il ministro degli Esteri ha anche ribadito l’impegno del governo per i cristiani perseguitati, notando come “l'anno scorso, 380 milioni di cristiani vivevano in luoghi in cui hanno affrontato persecuzioni, e ci sono stati 4.476 casi documentati in tutto il mondo di cristiani uccisi per la loro fede. Ciò è chiaramente inaccettabile”.
Il governo ungherese ha detto il ministro – continuerà a sostenere i cristiani perseguitati nell'ambito del programma Hungary Helps, che ha portato alla realizzazione di “di 400 progetti umanitari in 64 paesi in tutto il mondo, utilizzando più di 40 miliardi di fiorini.
Szijjártó ha poi affrontato il tema dell’educazione, sottolineando come in Ungheria più del 15 percento dei bambini in età scolare (260 mila in numeri assoluti) frequenta istituti scolastici religiosi, mentre nel 2010 erano solo 112 mila bambini a farlo. “Quindi – ha notato - durante il nostro governo, il numero di bambini che frequentano le scuole ecclesiastiche è più che raddoppiato e il governo ungherese ha contribuito alla ristrutturazione e alla costruzione di 400 istituti di istruzione pubblica ecclesiastici negli ultimi 15 anni".
Il ministro ha infine espresso gioia per l'imminente beatificazione della martire Maria Maddalena Bódi e del vescovo greco-cattolico Péter Pál Orosz, due eventi che “rafforzeranno la comunità cattolica nella sua fede”.
Gallagher in Ungheria, il ricordo dell’arcivescovo Rotta
La missione del nunzio apostolico Angelo Rotta in Ungheria è terminata ottanta anni fa. Giusto tra le nazioni per aver salvato diversi ebrei quando era nunzio in Ungheria, incarico che ha ricoperto dal 1930 al 1945, fino ad essere espulso dal Paese dall’invasore sovietico nel 1945.
Per ricordare, l’anniversario, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher ha deposto una corona di fiori di fronte alla targa commemorativa posta nel 1992 di fronte l’ex palazzo della nunziatura di Budapest insieme al vice-primo ministro Zsolt Semjén.
Hanno partecipato alla cerimonia anche il Cardinale Peter Erdő e rappresentanti delle Comunità Ebraiche e del Corpo Diplomatico.
Nel suo discorso, l’arcivescovo Gallagher ha ricordato “l’infaticabile zelo” dell’arcivescovo Rotta, che si trovo a vivere “un tempo che richiedeva forza incrollabile e carità morale”, la cui missione non si concluse per volontà del Papa, come normale, ma “a causa delle inesorabili maree della storia”, quando l’arcivescovo Rotta si trovò in una di quelle “congiunture della storia” e dunque “fu costretto a lasciare il suo alto ufficio come Decano del Corpo Diplomatico accreditato presso il governo ungherese, dando silenziosa testimonianza a un ordine che era stato sovvertito”.
Guardando al vecchio palazzo della nunziatura, Gallagher ha ricordato che “è stato tra queste mura, all’alba del giugno 1940, in una atmosfera di incertezza, che l’arcivescovo Rotta fece il passo decisivo di trasferire l’archivio della nunziatura alla Segreteria di Stato”, distruggendo i documenti rimasti prima che cadessero in mani ostili – e per provvidenza l’archivio non fu interamente perduto, e i documenti “sono un monumento alle valorosi azioni del prelato”, il quale, insieme a “fidati collaboratori, come monsignor Gennaro Verolino, è diventato strumento di salvezza per migliaia di anime perseguitate, tra le quali erano anche ebrei ungheresi e slovacchi, e altri da diverse nazioni”.
Rotta è stato per 45 anni, fino al ripristino della relazioni diplomatiche nel 1990, l’ultimo nunzio in Ungheria e, tornato nella sua arcidiocesi di Milano, era sovente consultato da Roma. Morì l’1 febbraio 1965.
FOCUS EUROPA
Il discorso di Gallagher a Villa Europa
Nel suo intervento all’inaugurazione di Villa Europa, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati, ha notato che il prossimo novembre si celebreranno i 55 anni dello stabilimento delle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Unione Europea, e che queste celebrazioni non andranno solo a “mettere in luce che c’è una relazione tra noi”, ma rinnoveranno anche “i nostri impegni alla collaborazione nelle molte questioni di comune interesse che condividiamo”.
L’arcivescovo Gallagher ha ricordato che Papa Francesco ha dimostrato in più occasioni la sua vicinanza all’Unione Europea – e ricorda in particolare il discorso al Parlamento Europeo di Strasburgo nel 2014 e quello in Vaticano per il 60esimo anniversario della firma dei trattati di Roma – e ha rimarcato che “il progetto europeo rappresenta una unica opportunità per la pace nella storia del nostro continente”, dato che “affonda le sue radici nel mutuo riconoscimento della dignità di ogni persona, e di ogni Stato”, e nella comune risoluzione a “superare ogni disputa con la forza del diritto internazionale e le armi della diplomazia”.
Ma soprattutto – ha aggiunto il “ministro degli Esteri” vaticano – il progetto europeo ha “preso dalla spiritualità dei popoli per un ridefinito desiderio di fraternità”, invitandoci a “costruire una diplomazia della speranza e andare contro la tentazione di lasciar prevalere la legge del più forte”, facendo piuttosto emergere “la logica dell’incontro”.
L’arcivescovo Gallagher ha notato che gli equilibri sono sempre “precari e cambiabili”, e rischiano di “produrre nuove tensioni piuttosto che di favorire una armonia tra i popoli”.
L’Europa – ha aggiunto – ha origini e valori comuni, che nascono dal cristianesimo, e “lo spirito di iniziativa, di amore e di famiglia, di rispetto della vita e tolleranza e il desiderio di cooperazione sono caratteristiche dell’Europa”.
FOCUS SEGRETERIA DI STATO
Parolin apre i lavori della plenaria della COMECE
Dal 26 al 28 marzo, i membri della Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione Europea si sono riuniti in plenaria a Nemi.
Il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, ha preso la parola in apertura dei lavori, e ha chiesto all’Europa di “prendere maggiormente coscienza del ruolo e della responsabilità che ha nel mondo”, senza “cedere ad una logica difensiva e di mero riarmo che diviene prodromo di chiusure e nuovi conflitti”.
Secondo il capo della diplomazia vaticana, pensare al bene dell’Europa “non esime dal pensare il bene di tutta l’umanità”.
Parolin guarda al piano di “competitività e difesa” del nuovo mandato della Commissione Europea, ma sottolinea che “non si possono tralasciare obblighi morali come l’aiuto umanitario e lo sviluppo dei Paesi più poveri, il rispetto dei diritti umani e la tutela dell’ambiente”.
Nel suo intervento, il cardinale ha anche dettagliato un ruolo politico dell’Europa di fronte ad una politica estera della nuova amministrazione USA, che sta mettendo in discussione “le relazioni atlantiche sviluppatesi dal 1945 e ritenute da tutti solide e durevoli”.
Di fronte alla “crisi dell’ordine mondiale basato sulla collaborazione tra gli Stati e sul multilateralismo”, in Europa – ha denunciato il Cardinale Parolin - “sembra prevalere la tentazione di pensare solo a se stessi, facendo prevalere logiche egemoniche”.
Guardando alla situazione in Ucraina, il Cardinale Parolin ha chiesto la “fine negoziata della guerra, una pace giusta e duratura, il rispetto del diritto internazionale, e lo sforzo comune per la ricostruzione” del Paese invaso. Rivolgendosi ai membri della plenaria provenienti dall’Ucraina, il porporato ha ricordato loro il dovere di “stare vicino al popolo ucraino ingiustamente aggredito” e chiedere “alle parti belligeranti e all’intera Comunità internazionale di adoperarsi per una rapida e giusta soluzione”.
Parolin ha anche guardato al panorama europeo, che, dopo le elezioni del 2024, ha visto molti mutamenti politici. Ha chiesto ai vescovi di mantenere “un dialogo aperto e sincero” con tutte le forze politiche”, senza mai mettere da parte l’impegno per la vita, per la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, per la libertà educativa, per “il rispetto della dignità di ogni persona, specialmente di quelle più fragili: i giovani, gli anziani, i disoccupati, gli immigranti e i richiedenti asilo”.
Temi da promuovere, perché “anche tra i politici di ispirazione cristiana, vi sia una minore consapevolezza dei valori che hanno contribuito a dare vita alle Comunità europee”.
Sul tema delle migrazioni, il Cardinale ha auspicato che la politica comune che l’Unione Europa sta cercando di definire, “sia solidale e rispettosa dei diritti umani e il più possibile generosa”, senza comunque mancare di considerare “le questioni connesse alla sicurezza e di sviluppare adeguati percorsi di integrazione”.
Compito della COMECE, anche in questo campo, è dialogare con le istituzioni perché “non si manchi mai di guardare ai migranti come a persone con le proprie storie, i propri drammi e le proprie attese, e non semplicemente come a numeri”.
Parlando dei rapporti di collaborazione tra la Segreteria di Stato e la Commissione dei vescovi, il cardinale ha citato il caso dell’applicazione del Regolamento generale sulla protezione dei Dati dell’Unione Europea (GDPR). Un tema “delicato” che interessa la vita dell’intera Chiesa “e per certi versi anche la stessa libertas ecclesiae”. Il riferimento è al lavoro “che si sta portando avanti in difesa dei registri di battesimo, allorché sono minacciati da ricorsi pretestuosi presso le Autorità nazionali di protezione dei dati personali e ora anche in un procedimento presso la Corte di Giustizia dell’Unione Europea”.
Il Cardinale ha poi ricordato il Sinodo sulla sinodalità, e il fatto che questo possa essere applicato anche nel lavoro in Europa per “ampliare la tenda” come chiedeva la tappa continentale del Sinodo. E infine, ha fatto riferimento al Giubileo della speranza, perché “il mondo e l’Europa hanno bisogno di aprirsi di nuovo alla speranza”.
Una speranza, ha aggiunto “non mondana, ma trascendente, che possa veramente soddisfare il desidero profondo dell’uomo, che è quello di vedere Dio”,
Parolin alla Cattedra del’Accoglienza
Lo scorso 28 marzo, il Cardinale Parolin ha partecipato alla Cattedra dell’Accoglienza di Sacrofano, in un dibattito sull’attualità con Vincenzo Buonomo, delegato pontificio presso la Pontificia Università Urbaniana.
Parlando con i giornalisti, il Cardinale Parolin ha espresso speranza che “si arrivi a conclusioni positive” nei negoziati per una tregua in Ucraina, sottolineando che “l'importante è che si negozi senza precondizioni – afferma - in modo tale che si trovi un punto di accordo e si possa arrivare alla fine a una tregua, prima e poi, a un negoziato vero e proprio per arrivare a quella pace giusta e duratura che tutti auspichiamo e che penso anche le parti stesse desiderano ottenere”.
Il Cardinale Parolin chiede soluzioni anche per Gaza, si mostra deluso che la tregua temporanea non sia diventata “una tregua permanente”, afferma che “dalle due parti bisogna avere un grande senso di moderazione, forse che non è stato esercitato sia da parte di Hamas, sia da parte degli israeliani. Cercare di trovare una via per risolvere il problema che c’è, senza bisogno di ricorrere alle armi”.
Durante il dibattito con Buonomo, il Cardinale Parolin riprende il tema della pace, e indvidua nel problema di fondo “la visione sempre più individualista dell’uomo”, come pure la mancanza di fiducia reciproca, perché “nessuno si fida più di nessuno. E questo deriva dal non saper coltivare le relazioni e porta al riarmo, ad attaccare prima di essere attaccati e si crea questa situazione di conflitto permanente”.
Infine, il Segretario di Stato ribadisce che “è immorale il possesso delle armi nucleari per le conseguenze che possono provocare”.
Il cardinale mette in luce inoltre che “tutta la vita internazionale si gioca sulla volontà degli Stati di osservare le regole che si sono dati”, mancando la quale “non c’è possibilità di una vita internazionale pacifica e costruttiva”.
C’è, comunque, una crisi nel multilaterale, perché gli organismi internazionali sono nati in un contesto di Guerra Fredda, ma “oggi il mondo è profondamente cambiato, ci sono tanti centri di potere e forse non c’è stato a sufficienza un impegno da parte degli organismi internazionali di adattarsi a queste nuove realtà del mondo”, e c’è bisogno di “adeguare gli organismi internazionali alla realtà che si è prodotta negli ultimi decenni”.
Il dibattito ha portato a parlare della questione migratoria. Il cardinale ha detto che si sta cercando di diminuire “i flussi irregolari” di migranti”, e ha notato che “c’è tanta paura diffusa nella nostra Europa di una invasione, bisognerebbe riuscire a smontare questa visione e avere un approccio più positivo verso questi nostri fratelli e sorelle che fuggono da situazioni di estrema miseria o conflitto. Offrire spazi di accoglienza ai migranti penso sia fondamentale".
Quanto alla fuga dei cristiani dal Medio Oriente si assiste a un impoverimento, secondo il cardinale, ed "è una grande tragedia dal punto di vista religioso, perché questi sono i luoghi in cui è nato il cristianesimo", ma è una tragedia "anche per le comunità stesse" perché esse "sono una presenza di moderazione in tante situazioni e possono contribuire ad attenuare le tensioni". "Una società senza cristiani - chiosa il segretario di Stato - rischia di diventare radicalizzata, estremista".
La decisione di sospendere UsAid ha creato problemi nel mondo
Intervenendo alla presentazione del libro di Matthias Kopp sulla situazione dei cristiani in Iraq (“L’eredità cristiana di Iraq: sopravvivere in Mesopotamia”) lo scorso 25 marzo, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati, ha anche affrontato la situazione derivata dalla decisione dell’amministrazione Trump di sospendere i 60 miliardi di dollari di aiuti inviati attraverso USAid, l’agenzia statale per gli aiuti umanitari.
La decisione, ha detto Gallagher, ha “creato un problema in tutto il mondo”; di cui “sentiamo gli effetti”.
In particolare, Gallagher ha messo in luce che la cancellazione dell’agenzia ha portato alla chiusura dei programmi del Catholic Relief Service (la Caritas USA) che supportano i Rohingya sfollati in Bangladesh e progetti in tutta l’Africa subsahariana, e che la Santa Sede intende affrontare la questione con il nuovo ambasciatore USA presso la Santa Sede, Brian Burch, quando questi prendere il suo posto.
Allo stesso tempo, Gallagher ha elogiato gli sforzi della nuova amministrazione statunitense nel mediare la pace in modo più attivo nelle guerre in corso. Gli sforzi crescenti sono da accogliere con favore, ma la domanda è come verranno realizzati. Per un futuro ordine in Medio Oriente, la pace può essere raggiunta solo se le popolazioni che vivono lì vengono ascoltate e se ci impegniamo affinché i popoli vicini vivano insieme in pace.
Gallagher è intervenuto alla presentazione del suo libro presso l'ambasciata tedesca presso la Santa Sede a Roma. È stato presentato il libro "L'eredità cristiana dell'Iraq - La sopravvivenza in Mesopotamia" di Matthias Kopp. Gallagher ha definito il libro di 870 pagine un’“se” sulla coesistenza religiosa in Iraq e sulla diplomazia della Santa Sede nella regione.
FOCUS NUNZIATURE
Un nuovo nunzio per il Belarus
La conosciamo come Bielorussia, ma il suo nome ufficiale è Belarus. E, mentre il Paese ha visto l’ennesima vittoria elettorale del presidente Lukashenko, l’unico capo dello Stato che Minsk ha visto dalla sua indipendenza da Mosca, la Santa Sede ha nominato un nuovo nunzio, dopo che il precedente, Ante Jozic, era stato trasferito alla sede di Georgia e Armenia qualche mese fa.
A guidare la rappresentanza diplomatica della Santa Sede a Minsk sarà un nunzio di prima nomina, Ignazio Ceffalia, sacerdote di rito bizantino dell’Eparchia di Piana degli Albanesi e di origini siciliane, che negli ultimi tempi ha retto la nunziatura di Caracas, in Venezuela, prima che Papa Francesco nominasse lo scorso anno Alberto Ortega Martín come nunzio nel Paese.
Ceffalia, dunque, viene premiato del lavoro svolto. Sacerdote dal 2003, e nel servizio diplomatico della Santa Sede dal 2006, ha lavorato nelle rappresentanze pontificie di Ecuador, Thailandia, nella Missione Permanente del Consiglio d’Europa a Strasburgo (durante il suo servizio, Papa Francesco ha visitato il Parlamento Europeo), poi nella Sezione per i Rapporti con gli Stati in Segreteria di Stato e quindi in Venezuela.
Il suo primo incarico da “ambasciatore del Papa” sarà, dunque, in una nunziatura europea cruciale, sia perché Minsk è, in qualche modo, un ponte con Mosca, sia perché nel 2019-2020 le proteste di piazza contro il governo portarono anche ad una forte presa di posizione del presidente Lukashenko contro la Chiesa e ad un esilio dell’allora arcivescovo di Minsk Tadeusz Kondrusiewicz, al quale non fu permesso per diverso tempo di rientrare nel Paese dopo che era andato in Polonia per delle celebrazioni. Papa Francesco mediò inviando l’allora nunzio nel Regno Unito Claudio Gugerotti (oggi cardinale e prefetto del Dicastero per le Chiese Orientali), permettendo così il rientro di Kondrusiewicz dall’esilio ma anche accettandone le dimissioni appena compì 75 anni.
FOCUS AMBASCIATORI
L’ambasciatore di Australia presso la Santa Sede presenta copia delle credenziali
Lo scorso 26 marzo, Keith John Pitt, nuovo ambasciatore di Australia presso la Santa Sede, ha presentato copia delle sue lettere credenziali all’arcivescovo Edgar Peña Parra, Sostituto per gli Affari Generali.
Pitt, classe 1969, sposato con tre figli, è stato un politico, membro del National Party, e ha rappresentato la Divisione di Hinkler in Queensland tra il 2013 e il 2025. È stato anche ministro delle Risorse e dell’Acqua nel governo di Morrison ed è stato ministro assistente nel governo Turnbull. Prima della carriera politica, era ingegnere elettronico e imprenditore.
La scelta di Pitt come ambasciatore presso la Santa Sede è interessante. Nel dicembre 2017, Pitt è stato uno dei soli quattro membri della Camera australiana a votare contro il Marriage Amendment (Definition and Religious Freedom) Act 2017, legge che andava a legalizzare il matrimonio omosessuale in Australia.
È un sostenitore dell’uso dell’energia nucleare, e ha criticato gli impegni derivati dall’accordo di Parigi del 2015.
FOCUS MEDIO ORIENTE
L’ambasciata di Israele presso la Santa Sede risponde a Papa Francesco
Da quando è ricoverato in ospedale, e ancora adesso in convalescenza, Papa Francesco non ha pronunciato le preghiere degli Angelus o delle udienze generali, ma ha inviato un testo scritto. Domenica 23 marzo, il Papa si diceva “costernato per il rinnovato e pesante bombardamento israeliano della Striscia di Gaza, che ha causato morti e feriti. Chiedo che le armi tacciano immediatamente e che si ritrovi il coraggio del dialogo affinché tutti gli ostaggi possano essere liberati e si possa raggiungere un cessate il fuoco definitivo”.
In una nota stampa inviata il 24 marzo, l’ambasciata di Israele presso la Santa Sede ha sottolineato che “l’operazione israeliana è stata condotta nel pieno rispetto del diritto internazionale”.
Israele ha ripreso le operazioni 17 dopo la scadenza dell’accordo per il rilascio degli ostaggi, a causa del rifiuto di Hamas di accettare le proposte negoziali degli Stati Uniti.
L’ambasciata di Israele presso la Santa Sede ha affermato che Israele cerca sempre di ridurre al minimo i danni ai civili nelle operazioni militari, mentre Hamas attacca deliberatamente obiettivi civili, che l'organizzazione terroristica ha sfruttato il cessate il fuoco per acquisire nuove armi e lanciare nuovamente razzi contro Israele.
L’ambasciata ricorda che attualmente nella Striscia di Gaza ci sono 59 ostaggi, 24 dei quali si dice siano ancora vivi, e che, in violazione del diritto internazionale, sono soggetti a maltrattamenti, e per questo Israele ritiene che sia “un suo dovere morale ed etico riportarli a casa”.
Riferendosi all’emergenza umanitaria, l’ambasciata ha notato che “non c’è carenza di aiuti”, e che è piuttosto Hamas che sta impadronendosi degli aiuti umanitari e li usa per “sfamare i suoi combattenti mentre i civili muoiono di fame”, e che “Israele resta determinato a fare tutto il possibile per ottenere il rilascio degli ostaggi la distruzione delle strutture di potere e delle capacità militari di Hamas”, con l’obiettivo di “eliminare la minaccia terroristica dalla striscia di Gaza”.
FOCUS AFRICA
Namibia, inaugurata la presidenza di Netumbo Nandi-Naditwah
Il 20 marzo, l’arcivescovo Henryk Jagodziński, nunzio apostolico in Sudafrica, Namibia, Lesotho, Botwsana ed eSwatini, accompagnato da monsignor Dario Paviša si è recato in Namibia per partecipare alla cerimonia inaugurale della presidenza di Netumbo Nandi-Ndaitwah in Namibia, la prima donna presidente del Paese.
La sera stessa del suo arrivo, il nunzio ha partecipato ad una cena di gala per celebrare il 35esimo anniversario dell’indipendenza del Paese su invito del presidente uscente Nangolo Mbumba, al quale aveva consegnato le sue lettere credenziali.
Nel suo discorso, il presidente uscente ha messo in luce come “negli ultimi tre decenni, la Namibia ha compiuto progressi significativi verso l’uguaglianza di genere. Vediamo i risultati di questo impegno in una delle istituzioni più rispettate della nostra democrazia: il Parlamento, dove la rappresentanza di uomini e donne è quasi paritaria”.
L’inaugurazione del mandato presidenziale di Nandi-Naditwah ha avuto luogo il 21 marzo. La cerimonia è iniziata prima con una preghiera guidata dal vescovo anglicano Patrick Djuulume, quindi un breve discorso del presidente uscente Mbumba, che ha poi conferito alla presidente entrante la più alta onorificenza dello Stato, la Welwitschia Mirabilis (dal nome di una pianta desertica endemica).
Quindi, in presenza di Peter Shivute, Chief of Justice, sono state consegnate alla nuova presidente le insegne del potere presidenziale: la Costituzione, la bandiera nazionale, lo stendardo presidenziale, il sigillo ufficiale e un martelletto in legno delle assemblee. Quindi, il giuramento della nuova presidente.
Dopo la cerimonia, ha parlato Samia Suluhu Hassan, presidente della Tanzania, ospite d’onore dell’evento. Successivamente, la presidente Netumbo Nandi-Ndaitwah ha tenuto il suo discorso inaugurale.
“Oggi – ha detto - ci riuniamo come namibiani e, con noi, la comunità internazionale, per assistere al passaggio pacifico del potere da un presidente all’altro. Il cambiamento di amministrazione è diventato una tradizione politica e storica profondamente radicata in Namibia sin dalla nostra indipendenza nel 1990. Mi trovo davanti a voi con profonda gratitudine e con un grande senso di responsabilità verso la nazione che mi ha onorato con la sua fiducia, eleggendomi come quinto presidente della Repubblica della Namibia. È per me un onore e un impegno per i prossimi cinque anni (…).”
Ha aggiunto: “Ogni membro della nostra società ha risposto alla chiamata di contribuire alla costruzione del nostro Stato. Ogni potere – esecutivo, legislativo e giudiziario – ha dato un contributo significativo allo sviluppo politico, sociale ed economico della Namibia. Anche il settore privato, le comunità religiose, le autorità tradizionali e altre organizzazioni non governative hanno svolto un ruolo chiave nel processo di costruzione della nostra nazione. Per questo mi impegno a continuare la collaborazione con queste istituzioni, affinché insieme possiamo lavorare per il successo del nostro paese (…).”
Il nunzio è ripartito dalla Namibia il 22 marzo, dopo aver celebrato la Santa Messa per i seminaristi del Seminario Maggiore di San Carlo Lwanga a Windhoek.
Parlando con ACI Stampa, l’arcivescovo Jagodziński ha sottolineato che “partecipare alle celebrazioni del 35º anniversario dell’indipendenza della Namibia e all’insediamento del quinto presidente è stata un’esperienza straordinaria. È stata una cerimonia toccante e solenne, iniziata con una preghiera comune e la benedizione di un vescovo cristiano”.
E ha concluso: “Molti politici lamentano il crescente degrado morale della vita pubblica. Ma come si può parlare di moralità se si elimina Dio dallo spazio pubblico? La realtà dimostra che basarsi esclusivamente su valori umanistici non è sempre sufficiente per costruire un fondamento etico solido per la società e la politica. In questo senso, la Namibia offre un esempio interessante – e l’Occidente potrebbe imparare molto da essa”.
FOCUS MULTILATERALE
La Santa Sede all’Organizzazione degli Stati Americani, il ricordo delle vittime della tratta delgi schiavi
Il 25 marzo, monsignor Juan Cruz Serrano, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’Organizzazione degli Stati Americani, è intervenuto alla Sessione Straordinaria del Consiglio Permanente convocata per la Giornata Internazionale di Ricordo delle Vittime della Schiavitù e della Tratta Transatlantica degli Schiavi”.
Nel suo intervento, Cruz Serrano ha sottolineato che la Santa Sede “si compiace del fatto che l’Organizzazione degli Stati Americani” favorisca questi momenti di visibilità e dialogo, e che “la celebraizone di questa sessione straordinaria del Consiglio Permanente nel Contesto della VIII Settimana Interamericana degli Afrodiscendenti nelle Americhe “aiuta a riconsocere la gravità dei fatti”, ma che deve anche “dare forza al lavoro di presa di coscienza della nostra società”.
In particolare, la Santa Sede “ritiene che ci debbano essere sforzi unanimi per sradicare questo flagello”, e che per questo è “necessario lanciare processi che sviluppino l’armonia pacifica richiesta tra i popoli, tra i quali occupa un ruolo centrale il riconoscimento della dignità umana”.
Per questo, la Santa Sede “sostiene una educazione morale, sociale e spirituale che incorpori l’esperienza nuova e distinta di quei settori della società che, in molte occasioni, sono stati resi invisibili e silenziati”, e assicura “il suo impegno continuo attraverso le sue istituzioni per garantire le condizioni adeguate all’educazione e formazione per generare una società più giusta”.
FOCUS SPAGNA
Spagna, il cardinale Cobo Cano definisce aborto ed eutanasia come un “ritorno alla barbarie”
Nell’omelia dello scorso 23 marzo, dedicata alle famiglie, il Cardinale José Cobo Cano, arcivescovo di Madrid, ha sottolineato che la Chiesa, “nonostante il suo impegno radicale per la vita, non esprime giudizi sulle situazioni enormemente complesse e difficili in cui si trovano alcune donne”. Vuole sempre aiutare chi soffre. Ma alza la voce contro una cultura dell'indifferenza che normalizza ogni atto invasivo di natura violenta, volto a impedire lo sviluppo di una vita unica, irripetibile e irripetibile.
Il cardinale ha condannato fermamente “l’industria dell’aborto e la facilità con cui si rivolge a questa opzione”, che, ha detto, implica molto meno impegno rispetto all’“accompagnare la vita, dimostrando solidarietà con le donne incinte e offrendo loro un sostentamento e condizioni amichevoli e dignitose in cui possano sperimentare la maternità”.
"La gravidanza non è un problema che può essere risolto eliminandolo. È vita in arrivo, e tutti dobbiamo proteggerla e accoglierla”.
Nell’omelia, l’arcivescovo di Madrid ha citato il messaggio dei membri della sottocomissione episcopale per la famiglia e la tutela della vita, che hanno chiesto politiche pubbliche per proteggere la famiglia e promuovere un ambiente economico e sociale favorevole.
Il cardinale Cobo Cano ha chiesto di essere proattivi nella società, e di chiarire “con tutte le nostre forze che l’aborto è sempre, indipendentemente dalle circostanze, una disgrazia” e una “tragedia che comporta un atto crudele contro una donna e, soprattutto, contro una vita che sta nascendo. L'aborto non è un diritto e non potrà mai esserlo, perché non esiste alcun diritto all'infelicità! Solo una coscienza personale e collettiva insensibile al valore della vita, a cui tutti abbiamo diritto, può pensare in questo modo. Ciò è tanto più vero nel contesto dell’inverno demografico che minaccia il nostro futuro”.
Il cardinale poi ha sottolineato che “né l'eutanasia né la disumanizzazione dei deboli sono la strada giusta”. La legge, infatti – ha detto - esiste per soddisfare, realizzare e garantire i bisogni delle persone, ha spiegato il cardinale Cobo, “ma mai per sradicarli o soffocarli. Per questo motivo, la Chiesa sostiene il diritto alla vita, alla vita in tutta la sua pienezza, dalla sua origine alla sua fine. Non possiamo limitare i diritti umani che siamo stati in grado di proteggere finora. Pertanto, le future generazioni di difensori dei diritti umani non possono sopportare questo ritorno alla barbarie senza pagare un prezzo morale e sociale molto alto”.
La sacralizzazione dell'autonomia e della libertà personale, il culto del possesso totale e illimitato del proprio corpo sono mezzi di commercializzazione e oggettivazione delle relazioni umane, e conducono “verso la solitudine, la separazione e l’abbandono”, ha denunciato il cardinale.