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Processo Palazzo di Londra, la sentenza inglese apre a delle conseguenze per la Santa Sede

Ci sono due punti di vista della sentenza che a Londra ha visto il broker Raffaele Mincione denunciare la Segreteria di Stato. Di fatto, però, il processo apre comunque a scenari tutti da decifrare

Commercial Court | L'ingresso della Commercial Court di Londra | Commercial Court Commercial Court | L'ingresso della Commercial Court di Londra | Commercial Court

Raffaele Mincione, il broker che aveva gestito l’ormai famoso fondo dell’immobile su cui la Segreteria di Stato aveva investito a Londra, aveva chiesto alla Commercial Court londinese di pronunciarsi in merito alla sua buona fede, alla sua presunta condotta fraudolenta, alla sua presunta truffa. E la Corte ha accettato le tesi di Mincione in 29 dichiarazioni su 31, lamentando solo una mancanza di trasparenza nella comunicazione e quindi rifiutando di dichiarare la buona fede, sostenendo però che non si trattava di una dichiarazione sul merito dell’operazione in sé, ma solo sulla base della discussione.

La sentenza di Londra cala come uno scossone sull’appello del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, che comincerà – è notizia delle ultime ore – il prossimo 22 settembre. Perché, di fatto, Mincione ottiene dal tribunale inglese una patente giuridica internazionale che testimonia che no, non c’è stata frode. Anzi.

Ovviamente, ci sono due modi di vedere la sentenza. Da parte della Santa Sede, si rimarca che la Commercial Court di Londra abbia riconosciuto che Mincione non abbia agito in buona fede. Il fondo di Mincione WRM invece enfatizza come la sentenza abbia rigettato le accuse di frode e di disonestà.

Ma prima di entrare nel merito delle due dichiarazioni, vale la pena ricapitolare un po’ le vicende del processo di Londra.

Il processo vaticano si divide in tre tronconi principali. Il primo, che è poi quello in gioco in questo momento, riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, nelle quote di un palazzo di lusso a Londra. Dopo aver deciso di non dare seguito alla possibilità di partecipare ad una piattaforma petrolifere in Angola, la Segreteria di Stato diede in gestione al broker Raffaele Mincione un fondo utilizzato per comprare le quote di un palazzo da sviluppare. Poi, diede le stesse quote in gestione al broker Gianluigi Torzi, che – inizialmente all’oscuro della Segreteria di Stato – mantenne per sé le uniche azioni con diritto di voto, e di conseguenza il pieno controllo del palazzo. Infine, rilevò l’intero palazzo, che è stato recentemente rivenduto.

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Secondo la Segreteria di Stato, il prezzo dell’immobile era stato sovrastimato, e tra l’altro il passaggio delle quote dalla gestione di Mincione a quella di Torzi nascondeva un intento fraudolento, perché Mincione e Torzi sarebbero stati in combutta per ottenere il massimo possibile dalla gestione dell’immobile e dalla Santa Sede.

Fu l’arcivescovo Edgar Pena Parra a prendere in mano la situazione come sostituto, già a partire dal 2018, superando quello che nel suo memoriale ha definito “metodo Perlasca”, cioè un modus operandi nella sezione amministrativa della Segreteria di Stato che portava ai superiori solo i fatti compiuti. Alberto Perlasca è stato capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato per 13 anni. Testimone al processo, è stato ora reintegrato in Vaticano.

Pena Parra decise di rilevare l’intero immobile, di uscire dall’affare con Torzi e di superare la questione in maniera definitiva.

II processo alla Commercial Court è stato avviato lo scorso 24 giugno a seguito di una denuncia civile presentata nel 2020 in Inghilterra da Raffaele Mincione, il broker che aveva avuto in gestione le quote dell’ormai famoso (o famigerato) immobile di Londra. Mincione è stato condannato in primo grado in Vaticano a 5 anni e 6 mesi, più 8 mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per riciclaggio, appropriazione indebita e corruzione.

Di fatto, Mincione -  la cui denuncia parte durante le indagini e prima del processo vaticano -voleva che fosse dimostrata la sua buona fede nel gestire l’investimento di Londra, e che non c’era stata alcuna condotta fraudolenta da parte sua.

La sentenza dà sostanzialmente ragione a Mincione su tutti i punti, tranne su quello della buona fede. Ed è qui che le due interpretazioni della sentenza divergono.

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Il comunicato di WRM si sofferma in particolare sul rigetto delle accuse di frode e disonestà, mentre l’articolo di Vatican News sottolinea piuttosto le osservazioni critiche verso la condotta di Mincione e dei ricorrenti.

Ma Vatican News non distingue nemmeno tra le criticità contrattuali e le accuse penali, mentre interpreta i rilievi del giudice in modo severo in senso assoluto, cosa che invece la sentenza non sottolinea. Inoltre, la Corte ha rigettato le accuse di frode e cospirazione, e questo non viene specificato nel comunicato di Vatican News.

È il tipico caso del “visto da destra” o “visto da sinistra”, di guareschiana memoria, che si ripresenta oggi. Da parte vaticana, la sentenza è presentata come un totale sostegno alla sua posizione in ambito penale, ma la Corte inglese non si è espressa in tal senso.

Che cosa dice allora realmente la sentenza del 21 febbraio?

La Corte di Londra non ha riscontrato prove sufficienti per sostenere le accuse di frode, cospirazione o disonestà nei confronti di Mincione e delle società a lui riconducibili; ha respinto le accuse di collusione con Gianluigi Torzi, perché la Corte ha stabilito che non era dimostrabile che Mincione fosse consapevole delle intenzioni fraudolente di Torzi.

La sentenza ha tuttavia criticato Mincione per una sorta di carenza di comunicazione nei confronti della Segreteria di Stato, giudicando fuorviante la modalità con cui aveva presentato la valutazione dell’immobile di 275 milioni di sterline. Tuttavia, queste accuse non evidenziano dolo o mala fede rilevante.

È una sentenza che getta comunque pesanti ombre sulla sentenza vaticana, dove tra l’altro si descrive una presunta orchestrazione ai danni della Santa Sede da parte di Torzi e Mincione al momento in cui Mincione cederà le sue quote e queste passeranno alla gestione di Torzi nel 2018.

Insomma, al momento dell’appello, non si potrà non tener conto di questa sentenza.

Dove si legge, tra l’altro: “Gli Attori … beneficiano anche di una serie di conclusioni in questa sentenza, non oggetto delle dichiarazioni richieste, che respingono accuse molto gravi mosse contro di loro. In questa sede ho potuto e colto l'opportunità di trattare particolari accuse, tra cui quelle di disonestà e di cospirazione. Gli Attori hanno diritto a tali conclusioni in relazione a tali accuse”.

Il processo, durato 17 giorni al termine di un iter giudiziario di quattro anni, crea anche un problema alla Santa Sede in quanto stato sovrano.

La Santa Sede ha accettato di sedersi sul banco dei testimoni, inviando l’arcivescovo Edgar Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato, e prima ancora un officiale della prima sezione della Segreteria di Stato che ha seguito tutto l’iter giudiziario in Vaticano. Ma da quando la Santa Sede, che è uno Stato sovrano, può accettare di essere trattata come una semplice parte civile in un processo? Quali sono, dunque, i limiti della sovranità della Santa Sede?

Mincione, da parte sua, canta vittoria. “La sentenza emessa dalla Commercial Court – ha detto - mi ha restituito la fiducia nella giustizia. Spero che questo riconoscimento mi restituisca la possibilità di essere ascoltato in maniera imparziale e senza pregiudizi dalle autorità e dagli organi di stampa. Sono molto orgoglioso di essere un cittadino britannico e di far parte di un Paese in cui prevalgono la giustizia e il giusto processo. È un sollievo che, dopo anni in cui sono stato ingiustamente accusato dal Vaticano di aver rubato il suo denaro, la Commercial Court inglese abbia respinto in toto la tesi del Vaticano secondo cui io, il fondo Athena Capital o WRM Group siamo stati disonesti pe perpetrare una frode o abbiamo fatto parte di una cospirazione in relazione alla trattativa e alla vendita dell'edificio 60 Sloane Avenue nel 2018”.

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