La conferenza è stata organizzata dalla Rappresentanza della Chiesa Apostolica Armena presso la Santa Sede, in collaborazione con l’Istituto di Studi Ecumenici dell’Angelicum e sotto gli auspici del Catholicos della Chiesa Apostolica Armena Karekin II e dei dicasteri per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e per la Cultura e l’Educazione.
Padre Hyacinthe Destivelle, officiale del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e Direttore dell’Istituto di Studi Ecumenici all’Angelicum, ha rimarcato l’importanza degli sforzi collaborativi nel proteggere l’eredità religiosa e culturale, mentre l’arcivescovo Khajag Barsamian, rappresentante della Chiesa Apostolica Armena presso la Santa Sede, ha sottolineato il significato dell’incontro, che ha avuto messaggi di supporto dal Catholicos Karekin II, dai Cardinali Kurt Koch, Claudio Gugerotti, e Josè Tolentino de Mendonça.
Nella prima sezione della conferenza, si è parlato di come la preservazione dell’eredità culturale e dei siti religiosi è strettamente connessa con i diritti umani. Mark Vlasic, dall’Università Georgetown, lo ha messo in luce parlando del suo percorso da procuratore che portava alla giustizia criminali di guerra al lavoro di protezione dell’eredità culturale, e ha sottolineato che la conservazione culturale è intrinsecamente collegata alla dignità umana e ha sottolineato che c’è bisogno di salvaguardare questa eredità nelle zone di guerra.
Pierre D’Argent, dell’Università di Lovanio, ha invece descritto il ruolo della Corte Internazionale di Giustizia nell’affrontare casi riguardanti l’eredità culturale. L’attuale conflitto tra Armenia e Azerbaijan, ha notato, va incluso in una cornice legale più ampia.
Armine Aleksanyan, membro del Consiglio Diocesano dell’Artsakh, ha parlato invece dell’esperienza del popolo dell’Artsakh, di come si sente di fronte a quello che viene considerata una “pulizia etnica”, del significato dell’eredità religiosa della regione, e ha proposto strategie per prevenire ulteriori perdite e salvaguardare l’eredità culturale dell’Artaskh.
Si è poi affrontato il tema della relazione tra conflitto, eredità culturale e rappresentazione dei media. Come i media hanno risposto alla distruzione dell’eredità culturale e religiosa nel mondo? Il professor Vasco La Salvia, dell’Università di Chieti, ne ha parlato, mettendo in luce come i media sia stati sia testimoni che catalizzatori nella narrativa di preservazione culturale.
Arsen Saparov, dall’Accademia Randal, ha mostrato come alcuni che si auto-identificano come esperti creano spesso una illusione di neutralità nei loro racconti, nei quali si nascondono dei pregiudizi che possono cambiare la prospettiva del pubblico.
Si è parlato poi di come preservare i siti religiosi e culturali nelle zone del conflitto. Ne ha parlato l’arcivescovo Mikaheel Moussa Najeeb, domenicano, arcivescovo caldeo di Mosul, che fu colui che, quando l’ISIS arrivò alle porte di Mosul, caricò la sua auto di antichi manoscritti per salvarli dalla furia islamista. Ha parlato proprio di questo, sottolineando come il salvataggio di quei manoscritti anche anche il salvataggio di “una parte vitale dell’eredità culturale irachena”, e che ora servono come un testamento per la responsabilità ecumenica di tutti gli individui.
Peter Petkoff, dell’Università di Oxford, ha invece guardato alla militarizzazione dell’eredità culturale, e ha sottolineato l’insufficienza di alcune cornici legali per proteggere l’eredità culturale nel mezzo dei conflitti.
Tasoula Hadjitofi , attivista culturale e imprenditrice, ha mostrato una strategia che gli è derivata dalle lezioni apprese in cinquanta anni di lavoro a Cipro.
C’è poi stata una sessione dedicata tutta ai monumenti armeni danneggiati, con particolare focus sull’Artsakh. Ne ha parlato il professor Hegnar Watenpaugh dall’Università della California, guardando alla distruzione dei monumenti armeni in Nakhichevan, mentre Jasmin Dum-Tragut, dall’Università di Salisburgo, ha guardato alla complessità delle eredità culturali che si trovano in zone di confine, in particolare nella regione di Tavush.
Alain Navvarra de Borgia ha, da parte sua, ha sottolineato che l’idea di “protezione” è soprattutto occidentale, eppure è diventata sempre più rilevante in contesti post-guerra, e in particolare nelle narrative azerbaijane.
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Marco Bais, del Pontificio Istituto Orientale, ha invece guardato a come la propaganda utilizza i testi storici per eliminare (o diluire) l’eredità armena nella zona dell’Artsakh, mentre Jost Gippert è entrato più nel concreto, esaminando le iscrizioni albaniane trovate in Artsakh che l’Azerbaijan utilizza per affermare la presenza di una civiltà non armena. Si tratta – ha detto – di “due pagine a palinsesto e alcune concise istruzioni”, ma questo non giustifica il tentativo azerbaijan di classificare le chiese nella regione come albaniane.
Annegret Plontke-Lüning, dell’università di Jena, ha ripercorso le tracce dell’eredità culturale architettonica dell’Artsakh tra le epoche, e Hamlet Petrosyan, della Yerevan State University, ha portato attenzione sul significato archeologico dell’Artsakh alla luce delle attuali tensioni geopolitiche.