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Come salvare il patrimonio cristiano in Nagorno Karabakh?

L’Angelicum ha ospitato una conferenza internazionale che ha affrontato il tema del patrimonio cristiano nel Nagorno Karabakh. Come preservarlo? E perché?

Dadivank | Il monastero di Dadivank, in Artsakh, ora sotto controllo azerbaijano | da X Dadivank | Il monastero di Dadivank, in Artsakh, ora sotto controllo azerbaijano | da X

Lo conoscono tutti come Nagorno Karabakh, ma il suo antico nome è Artsakh, a testimonianza della presenza armena in quel territorio sin dall’antichità. E gli armeni, membri della prima nazione cristiana, hanno forgiato quel territorio, lo hanno riempito di kachkar e chiese, vi hanno venerato reliquie come quelle di San Dadi, il discepolo di San Giuda Taddeo che fu l’iniziatore di quella che oggi è la Chiesa Apostolica Armena. Oggi, quel territorio è sotto gli occhi della comunità internazionale per il rischio che si perda quel patrimonio cristiano nella regione.

Non è un timore nuovo, per gli armeni, che a più riprese hanno parlato di “genocidio culturale”. Da quando, perlomeno, la regione fu messa da Stalin sotto il controllo dell’Azerbaijan, e si è registrata la scomparsa progressiva di varie vestigia cristiane nella regione.

Nel 1994, alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, la regione proclamò l’indipendenza, e si costituì in uno Stato con capitale Stepanakert. Da allora, i conflitti, caldi e freddi, si sono succeduti nella zona, fino all’ultimo del 2020, durato 40 giorni, che si è risolto in un accordo “doloroso” per l’Armenia, costretta a cedere territori e ad arrendersi di fronte al ben equipaggiato esercito azero, supportato dalla Turchia e, è stato denunciato, anche rimpolpato da mercenari Daesh.

E poi, ci sono stati i blocchi al corridoio di Lachin, denunciati anche da Papa Francesco. Gli azerbaijani lamentano che, in fondo, anche gli armeni, una volta preso il controllo del territorio, hanno distrutto le moschee. Hanno sottolineato che c’era una comunità cristiana di una presunta Chiesa albaniana nel territorio, precedente all’eredità armena, rivendicando la presenza di un cristianesimo autoctono nella regione. Hanno ribadito di applicare la tolleranza religiosa, e lo dimostra il fatto – sostengono – che le chiese distrutte dalla guerra sono state ricostruite, come la cattedrale di Shushi, che era stata colpita da razzi. Da parte armena, però, si avverte il senso di una pressione indebita e forte, e di un rischio ben presente e tutto da decifrare, tanto che anche la Santa Sede di Etchmiadzin (il “Vaticano” armeno) ha stabilito un dipartimento che si occupa solo del patrimonio cristiano in Artsakh.

Sono tutte premesse doverose per introdurre il tema della Conferenza internazionale che si è tenuta alla Pontificia Università Angelicum lo scorso 18 e 19 novembre, sul tema: “Terreni Sacri, visione condivisa: preservare i Luoghi Santi per un Ministero Cristiano Congiunto nei Siti Religiosi e Culturali dell’Artsakh”.

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La conferenza è stata organizzata dalla Rappresentanza della Chiesa Apostolica Armena presso la Santa Sede, in collaborazione con l’Istituto di Studi Ecumenici dell’Angelicum e sotto gli auspici del Catholicos della Chiesa Apostolica Armena Karekin II e dei dicasteri per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e per la Cultura e l’Educazione.

Padre Hyacinthe Destivelle, officiale del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e Direttore dell’Istituto di Studi Ecumenici all’Angelicum, ha rimarcato l’importanza degli sforzi collaborativi nel proteggere l’eredità religiosa e culturale, mentre l’arcivescovo Khajag Barsamian, rappresentante della Chiesa Apostolica Armena presso la Santa Sede, ha sottolineato il significato dell’incontro, che ha avuto messaggi di supporto dal Catholicos Karekin II, dai Cardinali Kurt Koch, Claudio Gugerotti, e Josè Tolentino de Mendonça.

Nella prima sezione della conferenza, si è parlato di come la preservazione dell’eredità culturale e dei siti religiosi è strettamente connessa con i diritti umani. Mark Vlasic, dall’Università Georgetown, lo ha messo in luce parlando del suo percorso da procuratore che portava alla giustizia criminali di guerra al lavoro di protezione dell’eredità culturale, e ha sottolineato che la conservazione culturale è intrinsecamente collegata alla dignità umana e ha sottolineato che c’è bisogno di salvaguardare questa eredità nelle zone di guerra.

Pierre D’Argent, dell’Università di Lovanio, ha invece descritto il ruolo della Corte Internazionale di Giustizia nell’affrontare casi riguardanti l’eredità culturale. L’attuale conflitto tra Armenia e Azerbaijan, ha notato, va incluso in una cornice legale più ampia.

Armine Aleksanyan, membro del Consiglio Diocesano dell’Artsakh, ha parlato invece dell’esperienza del popolo dell’Artsakh, di come si sente di fronte a quello che viene considerata una “pulizia etnica”, del significato dell’eredità religiosa della regione, e ha proposto strategie per prevenire ulteriori perdite e salvaguardare l’eredità culturale dell’Artaskh.

Si è poi affrontato il tema della relazione tra conflitto, eredità culturale e rappresentazione dei media. Come i media hanno risposto alla distruzione dell’eredità culturale e religiosa nel mondo? Il professor Vasco La Salvia, dell’Università di Chieti, ne ha parlato, mettendo in luce come i media sia stati sia testimoni che catalizzatori nella narrativa di preservazione culturale.

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Arsen Saparov, dall’Accademia Randal, ha mostrato come alcuni che si auto-identificano come esperti creano spesso una illusione di neutralità nei loro racconti, nei quali si nascondono dei pregiudizi che possono cambiare la prospettiva del pubblico.

Si è parlato poi di come preservare i siti religiosi e culturali nelle zone del conflitto. Ne ha parlato l’arcivescovo Mikaheel Moussa Najeeb, domenicano, arcivescovo caldeo di Mosul, che fu colui che, quando l’ISIS arrivò alle porte di Mosul, caricò la sua auto di antichi manoscritti per salvarli dalla furia islamista. Ha parlato proprio di questo, sottolineando come il salvataggio di quei manoscritti anche anche il salvataggio di “una parte vitale dell’eredità culturale irachena”, e che ora servono come un testamento per la responsabilità ecumenica di tutti gli individui.

Peter Petkoff, dell’Università di Oxford, ha invece guardato alla militarizzazione dell’eredità culturale, e ha sottolineato l’insufficienza di alcune cornici legali per proteggere l’eredità culturale nel mezzo dei conflitti.

Tasoula Hadjitofi , attivista culturale e imprenditrice, ha mostrato una strategia che gli è derivata dalle lezioni apprese in cinquanta anni di lavoro a Cipro.

C’è poi stata una sessione dedicata tutta ai monumenti armeni danneggiati, con particolare focus sull’Artsakh. Ne ha parlato il professor Hegnar Watenpaugh dall’Università della California, guardando alla distruzione dei monumenti armeni in Nakhichevan, mentre Jasmin Dum-Tragut, dall’Università di Salisburgo, ha guardato alla complessità delle eredità culturali che si trovano in zone di confine, in particolare nella regione di Tavush.

Alain Navvarra de Borgia ha, da parte sua, ha sottolineato che l’idea di “protezione” è soprattutto occidentale, eppure è diventata sempre più rilevante in contesti post-guerra, e in particolare nelle narrative azerbaijane.

Marco Bais, del Pontificio Istituto Orientale, ha invece guardato a come la propaganda utilizza i testi storici per eliminare (o diluire) l’eredità armena nella zona dell’Artsakh, mentre Jost Gippert è entrato più nel concreto, esaminando le iscrizioni albaniane trovate in Artsakh che l’Azerbaijan utilizza per affermare la presenza di una civiltà non armena. Si tratta – ha detto – di “due pagine a palinsesto e alcune concise istruzioni”, ma questo non giustifica il tentativo azerbaijan di classificare le chiese nella regione come albaniane.

Annegret Plontke-Lüning, dell’università di Jena, ha ripercorso le tracce dell’eredità culturale architettonica dell’Artsakh tra le epoche, e Hamlet Petrosyan, della Yerevan State University, ha portato attenzione sul significato archeologico dell’Artsakh alla luce delle attuali tensioni geopolitiche.