Nella sua introduzione, il Cardinale ha affermato che “l'onestà scientifica e l'autocritica professionale devono tutelarci dalle unilateralità e dalle ingiustizie dell'approccio ideologico, e da ogni altra schematica semplificazione. Soprattutto dall’idea inaccettabile della responsabilità morale collettiva, che fu una delle idee che causò la persecuzione degli ebrei”.
E ha aggiunto: “Molte tensioni sociali, molti antecedenti ideologici hanno avuto un ruolo nella creazione della costellazione dell'orrore. Sarebbe un errore metodologico incolpare il cristianesimo in quanto tale per quanto accaduto in un'epoca in cui la funzione di controllo dell'insegnamento del cristianesimo sull'amore umano e sulla fede in Dio difficilmente poteva prevalere in una società neopagana. D'altronde anche gli ambienti cristiani e le tradizioni popolari cristiane portarono avanti idee che certamente contribuirono agli avvenimenti che oggi tristemente ricordiamo. L’obiettivo non è quindi quello di ricercare la responsabilità morale del gruppo, soprattutto allo scopo di sostenere ideologicamente situazioni non sociali. La vera scienza cerca le cause piuttosto che la responsabilità collettiva. Naturalmente c'è sempre il motivo della responsabilità umana tra i colpevoli e gli inattivi per paura. Questo però è personale, non può essere trasferito o esteso a nessuna comunità”.
Nelle sue parole introduttive della giornata di studio, Kristzina Tóth ha ricordato che “gli storici lavorano per dare un volto e un nome” a quanti furono deportati nella Shoah e a quanti sono stati costretti a lasciare le abitazioni, e allo stesso tempo ricordano “come la Chiesa cattolica ha cercato di soccorrerli e cosa ha fatto in concreto per loro”.
La conferenza prendeva spunto dalla persecuzione degli Ebrei ungheresi e dall’azione della Santa Sede per salvarli, oggetto del lavoro del gruppo di ricerca coordinato proprio da Tóth. Ma guardava anche più in là, all’opera di soccorso della Chiesa agli Ebrei sia nell’Europa Centrale e Orientale, che in quella Occidentale e nel resto del mondo.
“Il gruppo di ricerca – ha raccontato Tóth - è stato costituito con la partecipazione dell’Archivio Nazionale Ungherese, del Centro Memoriale dell'Olocausto, di HUN-REN Centro di ricerca delle scienze umane, Istituto delle Scienze Storiche, e di HUN-REN Centro di Ricerca delle Scienze Sociali, Istituto per gli studi sulle minoranze, ciascuno con un ricercatore”.
Ognuno di questi istituti ha uno straordinario archivio, così come lo ha la Santa Sede, e per ora sono stati esplorati a fondo l’Archivio Storico della Segreteria di Stato, l’Archivio Apostolico Vaticano e l’Archivio Centrale della Compagnia di Gesù, ma l’obiettivo è di scandagliare anche altri archivi religiosi che si trovano a Roma, dove si trovano ulteriori testimonianze del lavoro della Chiesa per aiutare gli Ebrei durante la Shoah.
Quindi, Tóth ha spiegato che “l'Archivio Storico della Segreteria di Stato conserva il fondo Ebrei, alla cui esplorazione degli aspetti ungheresi hanno partecipato tutti i ricercatori delegati delle istituzioni sopra citate, me compresa. Si tratta di un gruppo di fonti che elenca, in ordine alfabetico, i nomi di coloro che chiesero aiuto alla Santa Sede. La loro nazionalità emerge solo dopo un attento studio dei documenti. Il gruppo di ricerca ha raccolto tutto il materiale ungherese - alla base anche delle mie osservazioni - e lo presenterà presto al pubblico interessato sotto forma di raccolta di fonti con note a margine e regesti. Nei 170 fascicoli del fondo Ebrei, ci sono 186 riferimenti ungheresi, il che potrebbe significare che la persona che chiese aiuto era ungherese o che la richiesta era in qualche modo legata all'Ungheria”.
I casi però sono più numerosi: un nome solo può riguardare l’intera famiglia, un singolo caso può coprire fino a 20-30 fogli. Interessante notare che la maggior parte di coloro che hanno cercato aiuto dalla Santa Sede sono cattolici convertiti o battezzati subito dopo la nascita. Solo in 33 casi, il 17 per cento, persone di religione ebrea si sono rivolte alla Santa Sede per chiedere aiuto.
“Il materiale di Ebrei – ha continuato Tóth - si concentra sugli anni 1938-1941, quando in diversi Paesi vennero approvate leggi antiebraiche e le persone interessate cercarono di sfuggire dalle leggi razziali facendosi dichiarare cristiane ariane o emigrando. Molti chiedevano visti per i Paesi del Sud America, soprattutto per il Brasile, per il quale speravano nell'aiuto della Sede Apostolica, non invano. Il Brasile, infatti, attraverso l'ambasciata della Santa Sede, offrì annualmente 3.000 visti a coloro che erano stati battezzati da almeno tre anni; questa possibilità fu però sospesa nel dicembre 1941”.
C’è poi il grande gruppo dei deportati e internati per i quali si è chiesta intercessione. “Ad esempio – ha ricordato Tóth - nel maggio 1943, il delegato apostolico belga-congolese chiese notizie di Deak Italo Francesco Clemente, deportato da Vágújhely in Polonia. L'11 giugno 1943, l’incaricato d'affari della Santa Sede in Slovacchia rispose che non c'erano notizie dei 50.000 ebrei deportati dalla Slovacchia”.
Si conosce, in sintesi, l’esito di un numero limitato di casi. Tuttavia – ha sottolineato la delegata per la cooperazione archivistica – si può constatare che “la Santa Sede ha affrontato seriamente le richieste ricevute e ha cercato di aiutare sia i richiedenti cattolici che i richiedenti ebrei”, mentre “i perseguitati si nascondevano spesso nei monasteri”, e nelle operazioni di salvataggio venivano coinvolti “sia i nunzi sia i dignitari ecclesiastici, sia le missioni diplomatiche e religiose”.
Di cosa hanno parlato le relazioni al convegn?
László Karsai (Università di Szeged, HUN-REN Centro di ricerca sulle scienze sociali, Istituto per gli studi sulle minoranze) ha parlato dei risultati delle sue ricerche di due mesi tra l’Archivio Storico della Segreteria di Stato e l’Archivio dei Gesuiti. Nel prossimo futuro, pubblicherà almeno i documenti – che sono circa venticinque – che non sono pubblicati dagli editori degli Actes et Documents du Saint Siege, e non sono stati inclusi da Ádám Somorjai nella sua selezione di rapporti politici di Monsignor Angelo Rotta, nunzio a Budapest.
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Karsai ha spiegato che la non pubblicazione è dovuta a vari fattori: dal fatto che si mette in luce come c’erano informazioni riguardo le deportazioni di massa di ebrei europei già nel 1941-42, al fatto che si mostrano i vari argomenti utilizzati dai consiglieri di Pio XII per dissuadere il Papa dal parlare pubblicamente per gli Ebrei perseguitati, e infine perché si nota che Rotta aveva potuto combattere con poco successo i nazisti e i loro collaboratori ungheresi e croati.
Laura Csonka (Archivio Nazionale Ungherese) ha relazionato dei documenti riguardanti il salvataggio diplomatico degli Ebrei ungheresi che si trovano nella collezione degli Archivi Nazionali Ungheresi. Ha sottolineato che i diplomatici di nazioni neutrali in Ungheria e la pressione diplomatica internazionale portarono alla decisione del reggente di Ungheria Miklós Horthy di sospendere le deportazioni nel luglio 1944, cui fece seguito una campagna orchestrata da nazioni neutrali (tra le quali la Santa Sede) e il Comitato Internazionale della Croce Rossa che si rivelò essere “l’operazione di salvataggio più grande e organizzata nella storia della Seconda Guerra Mondiale”.
Matteo Luigi Napolitano (Università degli Studi del Molise) ha parlato de “La diplomazia della salvezza e il ruolo della Nunziatura Apostolica a Budapest”, concentrandosi sulla “piccola storia di Giusti” – dichiarati come tali dallo Yad Vashem, ma anche impliciti, ovvero considerati tali da coloro che li misero in salvo – che ebbe luogo in Ungheria, tra i quali anche diplomatici, e tra i quali due diplomatici della Santa Sede, il già menzionato Angelo Rotta e monsignor Gennaro Verolino, che fu uditore nella nunziatura a Budapest dal 1942 al 1945.
Attila Jakab (Centro Memoriale dell’Olocausto in Ungheria) si è soffermato sulla figura di un altro ecclesiastico Andrea Cassulo, nunzio apostolico a Bucarest, che fu uno degli architetti della diplomazia dietro le quinte della Santa Sede in periodo di guerra. Jakab ha affermato che “i documenti mostrano che la rete diplomatica della Santa Sede, attraverso le nunziature, ha gestito e conservato un gran numero di informazioni”, e che Cassulo “fece tutto ciò che era in suo potere per aiutare gli Ebrei perseguitati”, protestando con le autorità romene e prendendo iniziative, mantenendo tra l’altro una eccellente relazione con il rabbino capo di Romania Alexander Safran e anche gli altri leader ebrei, e “grazie soprattutto a lui, gli ebrei che erano rimasti in Romania non vennero deportati in Transnistria nel 1943”.
Jakab sottolinea che l’attività di Cassulo fu di successo grazie agli ottimi rapporti con gli officiali governativi in Romania, e questa è la differenza con Rotta che “non aveva queste relazioni”.
Peter Slepčan (Università Comenio di Bratislava) ha relazionato sulla persecuzione e deportazione degli ebrei della Slovacchia fra la pressione del Terzo Reich e la resistenza dell’episcopato (1939–1945). Questi ha sottolineato che il “Sillabo contro il razzismo” inviato dalla Santa Sede alle università cattoliche nel 1938 fu “di una grande utilità per le successive proteste dei vescovi”. “In particolare – ha sottolineato - segnaliamo otto proteste dei vescovi negli anni 1941–1944. Di essi, quattro erano rivolte all’attività di governo (7 ottobre 1941, 12 marzo e 13 agosto 1942 e 16 febbraio 1943); uno era un pubblico proclama ai cattolici (26 aprile 1942); uno era una lettera pastorale (8 marzo 1943) e due erano lettere al Presidente della Repubblica (15 aprile e 13 ottobre 1943)”.