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A cento anni dal Primum Concilium Sinense quali prospettive per la Chiesa cattolica in Cina?

Il direttore di Fides racconta la storia della terra dove Matteo Ricci portò il cristianesimo

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“Il Concilio di Shanghai è il primo Sinodo del genere che si tiene in quelle che allora erano chiamate terre o Paesi di missione. Un Paese dove nonostante il grande impegno delle congregazioni missionarie i battezzati sono ancora una minoranza, e non esiste ancora una Chiesa locale strutturata. In quegli anni arrivano proprio dal Papato e dalla Santa sede le spinte a promuovere  Concili generali, nazionali o regionali, nelle terre di missione. Per cogliere la rilevanza del Concilium Sinense occorre tener conto proprio del passaggio chiave in atto in quei decenni riguardo all’opera missionaria della Chiesa”: così ha iniziato l’intervento del direttore dell’Agenzia Fides, Gianni Valente, al convegno di studi internazionali, ‘Appunti di viaggio: Marco Polo ed i Francescani in Oriente’, svoltosi a Tolentino, sul ‘Primum Concilium Sinense’, svoltosi a Shanghai nel 1924.

Inizialmente il relatore ha messo in evidenza la situazione storica in cui la fede cattolica era vista dai cinesi come un’invasione degli Stati europei: “In Cina, dopo il tramonto dell’avventura iniziata dal Gesuita Matteo Ricci di Macerata nel Seicento, a partire dal XVIII Secolo le attività missionarie si sono fatalmente intrecciate con gli interessi e le strategie delle potenze occidentali in territorio cinese. I missionari a volte arrivano in Cina con le navi da guerra: i cosiddetti Trattati ineguali con cui le potenze occidentali avevano imposto alla Cina la loro supremazia coloniale includevano anche privilegi protezioni e garanzie per l’attività missionaria.

Era successo che chiese e centri missionari fossero costruiti coi soldi estorti al Celeste Impero come bottini di guerra. In quella fase storica si era creato un intreccio perverso tra l’opera apostolica e le strategie imperialistiche occidentali, e i primi a pagarne le conseguenze erano i missionari stessi. L’endemico risentimento popolare contro gli stranieri si rivolgeva facilmente contro le persone inermi dei missionari o dei cinesi convertiti al cattolicesimo. Si pensi ai massacri xenofobi compiuti all’inizio del XX Secolo dalla setta dei Boxer, dove in pochi mesi morirono 30.000 missionari cristiani coi loro fedeli”.

Al termine dell’incontro gli abbiamo chiesto di raccontarci l’importanza dei viaggi dei francescani in terra d’Oriente?

“In terra d’Oriente i viaggi dei francescani sono stati le prime esperienze di incontro del cristianesimo con le popolazioni della Cina e della Mongolia. Sono andati nelle terre d’Oriente con il desiderio di annunciare il Vangelo. Erano i primi tentativi del cristianesimo ‘europeo’ di uscire dai confini per raggiungere terre inesplorate in un momento in cui si iniziavano ad  attraversare questi enormi spazi. In precedenza c’erano state alcune esperienze, come quella dell’antica Chiesa di Oriente, che era arrivata in Persia ed in India. Esiste un filo conduttore che unisce questi approcci di incontri positivi tra cristianesimo e le grandi nazioni dell’Oriente. Per i francescani il viaggio diventa anche un’esperienza di incontro tra culture e popoli diversi”.

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Ritornando alla storia contemporanea, quale era la ‘posizione’ della Santa Sede ad inizio dello scorso secolo?

“LA Santa Sede aveva da tempo avvertito quanto era pericoloso l’intreccio tra apostolato e colonialismo occidentale. A Roma hanno trovato ascolto gli allarmi lanciati da alcuni missionari lungimiranti come Vincent Lebbe e Antonio Cotta, che denunciavano gli effetti negativi del soffocante protettorato imposto dalle potenze occidentali all’opera della Chiesa. A Roma vedevano bene che l’opera missionaria doveva assolutamente emanciparsi dal connubio con il colonialismo, se non voleva rimanere sepolta dal crollo delle politiche colonialiste che cominciavano a scricchiolare. E non era solo questione di opportunismo storico: cresceva la percezione che fare affidamento  su protezioni di potenze geopolitiche o militari non era la strada giusta, e tradiva le dinamiche gratuite con cui si diffonde il Vangelo.

Nel 1919, questa sollecitudine della Sede Apostolica è stata espressa come magistero pontificio. Papa Benedetto XV pubblicava la lettera apostolica ‘Maximum Illud’ sulle attività dei missionari nel mondo, in cui definiva come un ‘tremendo flagello’ lo ‘zelo indiscreto per lo sviluppo della potenza del proprio Paese’ che sembra animare molti missionari occidentali, ripetendo che i missionari «devono curare gli interessi di Cristo’, e non gli interessi del proprio Paese”.

Una storia che trovò una prima manifestazione nel 1924 con il Primum Concilium Sinensem: quali furono gli sviluppi?

“Dopo il periodo del colonialismo europeo, in cui i fu un grande impegno missionario delle congregazioni cattoliche in Cina, che a volte in maniera negativa si era intrecciato con le dinamiche del colonialismo, iniziò una nuova percezione da parte della Santa Sede e dei missionari più avveduti, accorgendosi che la strada dell’impegno missionario in commistione con il colonialismo è sbagliata, per cui il cristianesimo non diventa mai ‘cinese’; è sempre qualcosa di esterno, che rischia di essere identificato con l’imperialismo occidentale. Quindi da parte della Chiesa è percepita l’urgenza di mettere in atto processi che favoriscano il fiorire di una Chiesa autoctona cinese.

Il Concilium Sinense è voluto dalla Santa Sede ed è affidato al card. Celso Costantini con la prospettiva di porre le condizioni per far fiorire la nascita di una Chiesa cattolica cinese, in modo da liberare la presenza dei cristiani dal sospetto di essere un correlato religioso degli Stati europei con un intento di espansione neocoloniale.

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A mio giudizio, quel cammino che è partito dal concilio di Shangai, attraverso vie impreviste e persecuzioni, è in piena continuità con la presenza e la realtà della Chiesa cattolica in Cina attualmente. Essa ha attraversato momenti difficili, ma ora, pur essendo una piccola realtà rispetto alla moltitudine del popolo cinese, è una Chiesa totalmente immersa in quella realtà. Nello stesso tempo è una Chiesa in piena comunione con il vescovo di Roma, riuscendo a vivere tutta l’ampiezza della vita cristiana dentro l’attuale situazione cinese.

Secondo me, ciò è un elemento positivo, perché in una struttura politica come quella della Repubblica popolare cinese c’è una realtà, che sottostando alle regole del vivere civile e politico di quello Stato, riesce a vivere l’essenzialità della presenza cattolica in quel contesto. Quindi testimonia l’errore di prospettiva, che coincide con lo schema ideologico prevalente. A partire dal Concilio di Shangai è avvenuto un cammino, pur faticoso e lento, che ha portato ad una Chiesa, che è pienamente cattolica e pienamente cinese”.

Quindi i rinnovati accordi sino-vaticani vanno in questa direzione?

“Gli accordi sino vaticani non sono certo una risoluzione a tutti i problemi in maniera immediata, ma indicano una prospettiva di lavoro con una progressione di risoluzione dei problemi che hanno accompagnato la cattolicità cinese per decenni e si situano in piena continuità con quell’intuizione profetica che è iniziata con il Concilio del 1924. Certamente sono accordi che riguardano la Santa Sede ed il governo cinese, ma la loro sorgente profonda attinge a questa percezione reale della vita della cattolicità in Cina. Il criterio con cui si è mossa la Santa Sede, nella totale continuità degli ultimi pontefici, in quanto la prospettiva di un accordo della nomina dei vescovi era già presente nel papato di san Giovanni Paolo II ed anche in papa Benedetto XVI, realizzata con papa Francesco. La linea è questa e il punto di partenza che si vuole tutelare è il bene della comunità cattolica cinese nelle condizioni date”.