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Diplomazia Pontificia, mille giorni di guerra in Ucraina

La visita della first lady ucraina Zelenska. Gli appelli di Parolin e Zuppi. Le parole del nunzio. Mille giorni di guerra in Ucraina. E il rischio di escalation

Papa Francesco, Zelenska | La first lady ucraina Olena Zelenska con Papa Francesco, Auletta Paolo VI, 20 novembre 2024 | Vatican Media / ACI Group Papa Francesco, Zelenska | La first lady ucraina Olena Zelenska con Papa Francesco, Auletta Paolo VI, 20 novembre 2024 | Vatican Media / ACI Group

I mille giorni della guerra in Ucraina sono stati ricordati da una visita a Papa Francesco di Olena Zelenska, la moglie del presidente ucraino Volodyimir Zelensky, da una Messa celebrata in Santa Maria in Trastevere dal Cardinale Matteo Zuppi, inviato speciale del Papa, e da una serie di interviste ai media vaticani, con in primo piano quelle al Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, e all’arcivescovo Visvaldas Kulbokas, nunzio apostolico a Kyiv, e da una lettera del Papa indirizzata proprio a Kulbokas.

Tutto, nelle azioni della Santa Sede, cerca di mostrare la vicinanza all’Ucraina, alla sua popolazione colpita da aggressione, alla situazione complessa che si vive quando si avvicina il terzo inverno di guerra. Ma c’è anche una preoccupazione più generale di una escalation del conflitto, ora che gli Stati Uniti hanno autorizzato Kyiv a utilizzare le armi da loro fornite in territorio russo, e anche di una pace fatta a spese degli ucraini, come potrebbe fare ipotizzare la prossima presidenza Trump.

In questo, la Chiesa cattolica, “testimone di speranza” nelle parole di Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk (lo ha ripetuto più volte, prima nella sua visita a Berlino, poi in quella in Francia) sta con il suo popolo, e aspetta una pace che sia giusta e che permetta di ritornare ad una normalità.

In questa settimana, analizziamo anche l’intervento del Cardinale Pietro Parolin al G20 di Rio de Janeiro. In agenda c’era la fondazione di una grande alleanza contro la fame, ma non la situazione del conflitto in Ucraina. Il Brasile, infatti, è alleato della Russia (sono fondatori dei BRICs), e solo il presidente argentino Millei ha provato a portare il tema della guerra sul tavolo, ma la sua proposta non ha avuto seguito.

L’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati, ha concluso la sua visita in Camerun con una lectio magistralis sulla diplomazia pontificia all’Università Cattolica di Yaoundé, dove ha ricevuto un dottorato honoris causa.                   

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                                   FOCUS MILLE GIORNI DI GUERRA IN UCRAINA

Mille giorni di guerra in Ucraina, la first lady di Ucraina da Papa Francesco

Per ricordare i mille giorni di guerra in Ucraina, Olena Zelenska, moglie del presidente ucraino Volodymir Zelensky, è stata a Roma, dove ha avuto una udienza privata con Papa Francesco, ha partecipato alla successiva udienza generale e poi è stata alla Messa per la pace in Ucraina celebrata dal Cardinale Matteo Zuppi a Santa Maria in Trastevere.

Papa Francesco ha ricevuto Olena Zelenska nell’Auletta Paolo VI, prima dell’udienza generale. In dichiarazioni raccolte dal sito della presidenza ucraina, la first lady ha affermato che “l’Ucraina è grata per il contributo della Santa Sede al rilascio dei nostri prigionieri di guerra. La svalutazione della vita umana chiede di alzare la pressione in Russia. Speriamo che l’autorità della Santa Sede aiuti a salvare più vite innocenti che hanno il diritto di rimanere sicure nella loro madrepatria”.

Olena Zelenska ha – si legge nel comunicato della presidenza – “discusso con Papa Francesco degli sforzi necessari per liberare tutti gli ucraini dalla prigionia russa e di riportare a casa tutti i bambini ucraini deportati dalla Russia”.

La first lady ha portato in dono a Papa Francesco un piatto di San Nicola decorato a mano, e ha poi partecipato anche all’udienza generale.

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Successivamente, ha visitato l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, dove sono stati accolti e curati 2500 bambini ucraini grazie all’azione della Santa Sede.

 

Mille giorni di guerra in Ucraina, la Messa del Cardinale Zuppi

Il cardinale Matteo Zuppi, inviato speciale di Papa Francesco in Russia e Ucraina, ha celebrato il 20 novembre la Messa in Santa Maria in Trastevere per ricordare i mille giorni della guerra in Ucraina.

Nell’omelia, il Cardinale ha sottolineato che “occorre fare di più e con più coraggio” perché “la pace non è mai debolezza ma forza, tanto più se garantita seriamente in un quadro credibile e forte”.

Il cardinale ha anche fatto riferimento all’Unione Europea, ricordando che “l’Europa è nata per immaginare la pace, impensabile tra popoli che si erano combattuti per secoli”.

Alla Messa, era presente anche Olena Zelenska, moglie del presidente Volodymir Zelensky, con la figlia del presidente della Repubblica Sergio Mattarella Laura e le first lady di Lituania, Serbia e Armenia, riunite – ha affermato l’ambasciatore di Ucraina presso la Santa Sede Andriy Yurash – per “condividere gli orrori dell’aggressione russa e dell’oblio cosciente della verità”.

Nella sua omelia, il Cardinale Zuppi ha parlato di una “notte profonda” e ha chiesto di favorire il dialogo che “non è arrendevolezza, ma via per ottenere ciò che altrimenti si misura solo con le armi”, e per questo ci si deve fermare “non per perdere, ma per vincere con il negoziato”.

Il Cardinale ha anche parlato di alcuni esempi di umanità nel mezzo delle bombe e delle battaglie, come “i bambini ucraini accolti questa estate in tante famiglie italiane”, la “solidarietà che ha mobilitato le parrocchie della penisola”, l’accoglienza dei profughi che “va sempre assicurata, anche con corridoi umanitari e di lavoro”.

Intervenendo al termine della celebrazione, Olena Zelenska ha parlato dei “cuori feriti” della nazione a causa delle “perdite quotidiane e dell’ansia nei confronti dei nostri cari”, e ha sottolineato che l’Ucraina “vuole vedere tutti i suoi figli a casa e ambisca a una pace giusta e duratura”.

Mille giorni di guerra in Ucraina, la lettera di Papa Francesco al nunzio Kulbokas

Con una lettera indirizzata all’arcivescovo Visvaldas Kulbokas, nunzio apostolico in Ucraina, Papa Francesco ha ricordato i mille giorni di guerra nel Paese a seguito dell’aggressione su larga scala della Russia.

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Papa Francesco ha sottolineato che “nessuna parola umana è in grado di proteggere” le vite degli ucraini dai bombardamenti, né “consolare chi piange i morti, né curare i feriti, né rimpatriare i bambini, né liberare i prigionieri, né mitigare i crudi effetti dell’inverno, né riportare la giustizia e la pace”.

Il Papa afferma che vorrebbe sentire risuonare nelle piazze dell’Ucraina, la parola pace, e che la sua è una accorata invocazione a Dio che ripete dall’inizio del conflitto perché questi “unica fonte di vita, speranza e saggezza, affinché converta i cuori e li renda capaci di avviare percorsi di dialogo, di riconciliazione e di concordia”. Papa Francesco afferma di unirsi per un giorno al “minuto di silenzio nazionale” che gli ucraini celebrano ogni mattina alle 9, ricordando con dolore “le numerose vittime provocate dal conflitto”.

Mille giorni di guerra in Ucraina, l’intervista del Cardinale Parolin sull’Ucraina

 In una intervista ai media vaticani, il Cardinale Pietro Parolin ha commemorato il millesimo giorno di guerra i Ucraina chiedendo di “non arrendersi all’ineluttabilità della guerra”.

Il Cardinale ha detto che “l’Ucraina è un Paese aggredito e martirizzato, che assiste al sacrificio di intere generazioni di uomini e meno giovani, strappati allo studio, al lavoro e alla famiglia per essere inviati al fronte”.

Parolin dice che l’aiuto all’Ucraina viene, prima di tutto, dalla preghiera, e poi nell’impegno di “non far mai mancare la nostra solidarietà a chi soffre, a chi ha necessità di cura, a chi patisce il freddo, a chi ha bisogno di aiuto”, cosa che la Chiesa in Ucraina sta facendo già.

Quindi, il Cardinale sottolinea che è importante “far sentire la nostra voce, come comunità, come popolo, per chiedere pace”, dicendo “il nostro no alla guerra, alla folle corsa al riarmo”.

La Santa Sede punta a “far cessare il fragore delle armi”, perché per una pace giusta “serve tempo”, mentre una tregua “dovrebbe avvenire nello spazio di poche ore, se soltanto si volesse”.

Insomma, ci vogliono “uomini che scommettano sulla pace e non sulla guerra”, perché questa guerra “rischia di trascinarci verso uno scontro nucleare, cioè verso l’abisso”, e, “mentre la Santa Sede cerca di fare il possibile”, si ha “come la sensazione di essere tornati indietro con l’orologio della storia”.

A fare le spese di questa situazione, ammonisce il Cardinale Parolin, sono “le vittime innocenti”, perché “la guerra ruba il futuro a generazioni di bambini e di giovani, crea divisioni, alimenta l’odio”. Il cardinale fa l’esempio del Trattato di Pace tra Argentina e Cile che risolveva la contesta per il canale di Beagle, stipulato grazie alla mediazione della Santa Sede e superando una situazione che pochi anni prima aveva quasi portato ad una guerra totale tra i due Paesi, e si chiede perché non sia possibile ritrovare questo spirito “anche oggi, nel cuore dell’Europa?”

Il cardinale ammette che i “segnali non sono positivi”, ma “un negoziato è sempre possibile, oltre che auspicabile”, anche se “richiede la buona fede di tutti”, perché “se non ci si fida, almeno in minimo grado, dell’altro, e se non si agisce con sincerità, tutto rimane bloccato”, e così “in Ucraina, In Terrasanta, come in tante altre aree del mondo si continua a combattere e morire”.

Mille giorni di guerra in Ucraina, le parole del nunzio apostolico

In una intervista ai media vaticani, l’arcivescovo Visvaldas Kulbokas ha descritto la situazione a Kyiv, sospesa tra la sfiducia per l’impatto degli organismi internazionali e allo stesso tempo la fiducia per l’opera della Chiesa sul territorio.

L’arcivescovo Kulbokas ha sottolineato che le persone che sono fuori dai territori sotto il controllo del governo ucraino, e soprattutto i prigionieri, è “molto difficile, perché rimane solo la preghiera”, ma “la preghiera può fare miracoli”, e “i pastori stanno accanto alla propria gente”, come è successo a Kherson, dove ci sono dei sacerdoti che sono “praticamente gli unici punti di riferimento”, ma come si sviluppa anche attraverso l’azione dei cappellani militari.

Insomma, “c’è un senso di umanità molto forte”, e la speranza cristiana è “di fondamentale importanza” per i militari, perché le difficoltà sono tante”.

Il nunzio sottolinea che “la guerra non è in discesa”, e anzi “nell’anno 2023 ci sono stati più morti che nel 2022. Se parliamo di quest’anno 2024, ci sono più morti rispetto al 2023. Quindi è in crescita, la sofferenza aumenta e per questo è molto importante dare senso, il senso cristiano di fronte all’insicurezza e alla paura”.

Dopo tanto tempo, c’è “un senso di sfiducia”, perché “il mondo ha organismi come le Nazioni Unite, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che poi si rivelano strutture non adeguate, incapaci di risolvere qualcosa”, anche perché “nel Consiglio di Sicurezza c’è qualcuno che è direttamente implicato”.

L’arcivescovo si interroga anche sull’applicazione delle Convenzioni di Ginevra per i prigionieri, perché “i fatti dicono che non si riesce a fare applicare le convenzioni”, e dunque “c’è molto questo senso di delusione per come l’umanità in quanto tale affronta questa problematica, evidentemente non solo qui in Ucraina ma anche in altre parti del mondo. Quindi, c’è un grande senso di sfiducia, di stanchezza”.

Tuttavia, in Ucraina, la gente non conta i giorni, “siamo sopraffatti da tante questioni che spesso non si riesce neanche a tenere il conto dei giorni o dei mesi che passano”, ed è una domanda profonda.

Dal punto di vista personale, sottolinea l’arcivescovo Kulbokas, “il prolungarsi della guerra mi rende più in grado di capire le illusioni a cui spesso ci affidiamo, quindi la caducità delle illusioni. Ma umanamente parlando (la guerra) non ha nessun senso”.

Parlando della situazione umanitaria, l’arcivescovo Kulbokas parla di “varie fasce di bisogni”: gli ex prigionieri o bambini che ritornano nel Paese “hanno bisogno di famiglie e strutture che li accolgano”, gli aiuti umanitari vanno coordinati perché nel 2024 “sono diminuiti in modo drammatico rispetto al 2022”, la situazione nelle regioni al confine, come a Kharkiv, a Zaporizhzhia, a Kherson,  dove la gente “ha bisogno proprio di tutto, a cominciare dalla legna per riscaldarsi ai prodotti per l’igiene, vestiti per l’inverno, acqua cibo”.

Per quanto riguarda il lavoro delle Chiese, si deve considerare – spiega il nunzio – che “non si possono risolvere tutte le difficoltà che esistono tra varie confessioni e comunità”, ma “è molto importante dare rilievo a ciò che ci unisce”. Quindi, ci si deve ricordare che le Chiese “sono voce della coscienza”, perché “c’è modo e modo di affrontare la guerra: c’è un modo più umano e un modo meno umano e i cappellani militari stanno cercando di svolgere questo questa missione di essere voce della coscienza”.

Il nunzio sottolinea che la Chiesa “cerca di mantenere un minimo di contatti con tutti, cerca anche di trovare modi di dire, magari anche non direttamente, ma in modi che siano comprensibili, appellandosi appunto alla coscienza, all’urgenza di fermare la guerra”, ed è chiaro che questo sia un ruolo difficile”.

Il nunzio mette in luce che c’è anche un accompagnamento spirituale da fare ai parenti dei prigionieri di guerra, perché il rischio è quello di crollare nella disperazione, e dunque “c’è bisogno di accompagnare questi parenti in un modo più strutturato. Direi che non c’è ancora un lavoro sufficientemente ben fatto, per l’accompagnamento di queste persone, perché c’è bisogno di specialisti, di psicologi e spesso proprio di stare insieme a loro”.

L’arcivescovo Kulbokas si dice poi grato ai gruppi di persone che continuano ad arrivare da vari Paesi a portare sostegno alle persone che sono in Ucraina. “La vicinanza personale – spiega il nunzio - crea anche un certo contrasto perché nei mass media spesso la guerra viene discussa solo nei tratti statistici, quindi in quelli meno umani, oppure si fanno solo considerazioni con discorsi freddi. Invece le visite dei gruppi di preghiera o dei volontari sempre portano gioia perché fanno credere che c’è cuore, c’è umanità e già questo infonde speranza”.

In fondo, “la guerra è diabolica anche perché vuole uccidere la fiducia nell’umanità, rischia di distruggere la fiducia in tutte le strutture internazionali, in tutte le unioni dei Paesi, perché i risultati è come se non ci fossero. La testimonianza dei volontari e di chi viene qui crea un contrasto mostrando che c’è cuore, c’è attenzione, c’è preoccupazione, c’è umanità”.

                                               FOCUS GALLAGHER IN CAMERUN

Gallagher in Camerun, la Conferenza all’Università Cattolica di Yaoundé

Nel corso del suo viaggio in Camerun, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher ha anche tenuto una lectio magistralis presso l’Università Cattolica dell’Africa Centrale di Yaoundé il 19 novembre, ricevendo una laurea honoris causa in Scienze Sociali, sezione giurisprudenza.

Gallagher è stato nel Paese per cinque giorni, nell’ambito delle celebrazioni per i dieci anni dell’accordo quadro tra Santa Sede e Camerun. La sua presenza è stata molto importante e onorata ad alti livelli dallo Stato camerunense, che guarda alla Santa Sede anche per superare alcune difficili situazioni interne. In questo senso, un appello di pace del nunzio, l’arcivescovo José Bettencourt, è stato più volte trasmesso nei telegiornali.

In una università che fu “stabilita da Giovanni Paolo II”, e che a buona ragione si può considerare un frutto degli accordi quadro che si stanno celebrando, l’arcivescovo Gallagher ha tenuto una lectio magistralis sul tema “Gli accordi firmati dalla Santa Sede con gli Stati dell’Africa contemporanea: eventi storici e attualità in Camerun”.

Si tratta, ha spiegato il “ministro degli Esteri” vaticano, di accordi che “si inseriscono nella lunga tradizione della diplomazia della Santa Sede, che ha esercitato sin dall’antichità “il diritto di legazione tramite vicari apostolici, apocrisari e legati”, finché, con la riforma gregoriana, gli inviati “temporanei o permanenti divennero una istituzione essenziale del governo della Chiesa”, con il titolo di nuntii a latere, ed erano “cardinali con ampi poteri”, la cui stabilità di missione sarà effettiva a partire dal XV secolo, quando “il re di Castiglia e la Repubblica di Venezia accreditarono ambasciatori permanenti presso la Santa Sede e il papa rispose inviando agenti stabili”, cui fece seguito poi la Francia.

Gallagher ricorda che “la moderna diplomazia della Santa Sede” inizia con Papa Leone X (1513-1521).

Dopo i trattati di pace di Westfalia del 24 ottobre 1648, il diritto di legazione pontificio ebbe un declino, ma rinacque poi con il Congresso di Vienna nel 1815, e le rappresentanze pontificie ebbero così “una notevole espansione”. Al 1962, dopo le due Grandi Guerre, la Santa Sede aveva relazioni diplomatiche con 50 Stati e nominò 17 legati apostolici.

Oggi, ricorda Gallagher, la Santa Sede “intrattiene relazioni diplomatiche bilaterali con quasi tutti gli Stati del mondo”, incluso l’ultimo arrivato, il Sultanato dell’Oman, e ci sono 91 missioni diplomatiche presso la Santa Sede a Roma, tra cui quelle dell’Unione Europea e del Sovrano Militare Ordine di Malta.

La Santa Sede ha anche relazioni con le Nazioni Unite, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni o l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, o anche con organizzazioni regionali come la Lega degli Stati Arabi.

La Chiesa, ricorda Gallagher, ha accolto “con favore la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite” approvata nel 1948 perché “crede fermamente che la persona umana è il fondamento e l’obiettivo della vita sociale che il diritto e la diplomazia devono servire”.

In questo senso, gli accordi che la Santa Sede stipula con gli Stati “in nome del diritto alla libertà religiosa, sono ispirati da questa profonda convinzione che è nel riconoscimento di questo fondamento antropologico ed etico dei diritti umani la migliore tutela contro ogni violazione e il relativo abuso”.

Gallagher ricorda che il diritto alla libertà religiosa è riconosciuto sia nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo che nell’Atto Finale di Helsinki o dalla Convenzione dei Diritti dell’Infanzia, e che questo, per la Chiesa, è “fondamento di tutti i diritti”, così legato ad altri diritti fondamentali che il suo rispetto è “come una prova per l’osservanza di altri diritti fondamentali”.

Guardando al rapporto della Santa Sede con l’Africa, prima di tutto Gallagher definisce il ruolo degli accordi, che hanno molteplici forme e status, e ricorda in particolare i concordati del 1801 con la Francia di Napoleone, del 1933 con la Germania di Hitler e del 1929 con l’Italia guidata da Mussolini.

Gallagher, però, si concentra sugli accordi firmati dalla Santa Sede con gli Stati dell’Africa contemporanea, cercando di fare una “rievocazione storica”.

D’altronde, la Santa Sede ha rapporti con l’Africa sin dai “primi tempi della Chiesa”. I primi due accordi che la Santa Sede firma in Africa sono quelli con la Tunisia e il Congo Belga, che aprono la strada ad una “lunga e ricca collaborazione”.

Gli accordi sono comunque “influenzati dal contesto in cui vengono firmati”, per questo si distingue tra gli accordi firmati prima dell’indipendenza e quelli firmati dopo per quanto riguarda il continente africana.

Durante il periodo coloniale, infatti, “l’Africa fu posta sotto il dominio delle potenze europee”, ma la Santa Sede non rimase inattiva per “mancanza di interlocutori locali giuridicamente competenti con cui confrontarsi”.

Gallagher spiega che la diplomazia della Santa Sede, in quegli anni, si dispiega su un doppio livello. Prima di tutto, erige delegazioni apostoliche per coprire tutte le regioni dell’Africa, dal Sud Africa nel 1922 all’Egitto e Mombasa nel 1927 e Leopoldville (l’attuale Repubblica Democratica del Congo) nel 1930, e quindi, nel 1948, ad Addis Abeba in Etiopia e Dakar in Senegal per coprire l’intero impero coloniale francese dell’Africa Nera.

È un impegno pastorale a tutto campo, quello della Santa Sede, cui si aggiunge un secondo livello, con “la firma delle convenzioni relative ai territori coloniali dell’Africa”, a partire dalla Tunisia sotto protettorato francese e del Congo Belga. In Tunisia, “l'accordo consiste in uno scambio di note con l'Ambasciata del Governo francese per un accordo sulla Diocesi di Cartagine, realizzato il 7 novembre 1893, anno 15 del Pontificato di Leone XIII”.

Il Congo Belga, invece – ricorda Gallagher – sarà “oggetto di due convenzioni”, quella tra “la Santa Sede e lo Stato libero del Congo” del 1906 e quella tra la Santa Sede e il governo belga riguardante il Congo del 1953. Il primo ha l’obiettivo di promuovere la diffusione del cattolicesimo in Congo, il secondo mira “ad adattare l’organizzazione della Chiesa del Congo alle nuove circostanze” dovute alla crescita del numero dei cattolici e del clero e dall’emergere di uno Stato in cerca di indipendenza.

Superato il periodo coloniale, la Santa Sede accelera la sua attività in Africa e, nota il “ministro degli Esteri” vaticano, “molto rapidamente, nel 1960, furono istituite nuove delegazioni apostoliche (Lagos, Nairobi e Tananarive), mentre altre furono trasformate in internunziature. Nell'Africa francofona, la prima internunziatura fu aperta a Dakar nel 1961, diventando la quarta in Africa dopo Il Cairo, Addis Abeba e Monrovia”.

Per quanto riguarda il Camerun, viene stabilita nel 1965 la delegazione apostolica di Yaoundé, che ha competenza su tutti i distretti che compongono oggi l’Africa centrale, e dal 1966 in poi “la Santa Sede ha formalmente stabilito relazioni diplomatiche con ciascuno di questi Stati, istituendo gradualmente delle Pro-nunziature apostoliche, che sono legazioni stabili incaricate di rappresentare la Santa Sede presso gli Stati e le Chiese locali”.

Si deve tuttavia aspettare il 1997 per il primo accordo quadro con uno Stato dell’Africa centrale, che è l’accordo con il Gabon. In Africa, la rete diplomatica della Santa Sede aumenta al punto che “oggi la rete diplomatica della Santa Sede in Africa è la più grande rispetto a quella di qualsiasi altro continente”, perché ci sono 51 dei 54 Stati africani con relazioni stabili con la santa Sede.

L’arcivescovo Gallagher sottolinea che si tratta di accordi di “nuova generazione”, che nascono in un contesto “socio politico nuovo”, in Stati in maggioranza “caratterizzati dal pluralismo religioso”.

Gallagher spiega che “pur essendo firmataria, la Santa Sede non beneficia direttamente delle disposizioni contenute negli accordi con gli Stati il cui unico scopo è quello di facilitare la missione delle Chiese locali”.

Sono accordi per le Chiese locali, che “si concentrano sulla garanzia dei diritti naturali necessari alla libertà di azione pastorale come parte della libertà religiosa”, proteggendo “le Chiese locali dai capricci dei cambiamenti politici che possono naturalmente verificarsi nei paesi interessati”.

L’arcivescovo Gallagher si sofferma poi sugli accordi riguardanti il Camerun. Sono tre, due dei quali riguardano l’istituzione superiore e un terzo lo status giuridico della Chiesa cattolica nel Paese.

Il primi, risalenti al 1989 e 1995, riguardano l’Istituto Cattolico di Yaoundé, che diedero l’impulso alla formazione di un istituto di istruzione superiore cattolico e poi il riconoscimento dei diplomi di insegnamento superiore rilasciati dall’Istituto cattolico di Yaoundé.

Quindi, l’accordo quadro del gennaio 2014, di cui si celebrano i dieci anni. L’accordo comincia a nascere quindici anni prima, ricorda l’arcivescovo Gallagher, e “l'iniziativa dei vescovi del Camerun si è concretizzata nella missione che la Conferenza Episcopale Nazionale del Camerun (CENC) ha affidato al Dipartimento di Diritto Canonico dell'Istituto Cattolico di Yaoundé, di preparare un progetto preliminare di convenzione”.

La bozza fu presentata alla Santa Sede, e la nunziatura apostolica sottoporrà allo Stato camerunense la volontà di stipulare un accordo sullo status della Chiesa cattolica in Camerun. Ci sono stati vari passaggi successivi, e anche un viaggio di Benedetto XVI nel 2009 nel Paese, fino alla firma dell’accordo a Yaoundé il 13 gennaio 2014, mentre il presidente della Repubblica aveva incontrato Papa Francesco nel 2013, a pochi mesi dall’accordo.

Secondo Gallagher, l’accordo porta due tipi di effetti. A livello immediato, è un “quadro essenziale per l’azione della Chiesa in Camerun”, ma “la previsione più importante riguarda i termini di concessione della personalità giuridica civile alle persone giuridiche che godono di tale qualità nel diritto canonico, termini che sono stati semplificati”.

È un tema cruciale, perché prima del 2014, una legge del 1990 in Camerun, ancora in vigore, “prevede che le associazioni religiose, comprese le congregazioni religiose, ricevano personalità giuridica civile mediante decreto presidenziale”, e questo non tiene conto della diocesi, ponendo “difficoltà sia alle diocesi di nuova creazione sia alle congregazioni religiose cattoliche che non avevano ancora personalità giuridica civile, è stato definitivamente risolto con l'Accordo Quadro”.

L’accordo quadro del 2014 ha tuttavia “il vantaggio della flessibilità, poiché lascia spazio alla consultazione permanente evitando di mobilitare regolarmente le alte autorità delle parti contraenti”.

Afferma l’arcivescovo Gallagher: “L’Africa Centrale può vantarsi di aver inaugurato questo nuovo approccio agli Accordi firmati dalla Santa Sede con gli Stati, tanto che l’Accordo Quadro firmato con la Repubblica del Gabon il 12 dicembre 1997 è il primo di questo tipo nella storia diplomatica della Santa Sede”.

In conclusione, l’arcivescovo Gallagher nota che gli accordi stipulati dalla Santa Sede in Africa “costituiscono infatti strumenti per garantire le libertà ecclesiastiche che, di per sé, si fondano certamente sul mandato di Cristo di portare la Buona Novella al mondo, ma anche sul valore della libertà religiosa inerente alla dignità umana”, e l’auspicio è che l’accordo, “attraverso protocolli e altri futuri strumenti giuridici, diventi più fruttuoso per il benessere dei cristiani e dei cittadini di questo nobile paese del Camerun, soprattutto i più vulnerabili”.

Gallagher in Camerun, al ricevimento della nunziatura apostolica

Durante il viaggio in Camerun, la nunziatura apostolica di Yaoundé ha organizzato un ricevimento in onore dell’arcivescovo Gallagher, che ha avuto luogo nella serata dal 16 novembre.

In un breve indirizzo di saluto, l’arcivescovo Gallagher ha sottolineato che è la sua prima visita in Camerun, e si è detto riconoscente al presidente Paul Biya e al suo governo per l’accoglienza calorosa, salutando anche i membri di altre confessioni cristiane e di altre religioni presenti.

Gallagher ha portato il saluto cordiale di Papa Francesco, “il quale esprime la sua vicinanza, solidarietà e speranza di pace e benessere per tuta la nazione camerunense”, perché “il Camerun ha sempre occupato un posto importante al seno della Chiesa universale”, tanto che il Paese è stato oggetto di ben tre visite pontificie.

Questo, ha spiegato l’arcivescovo Gallagher, è “in parte dovuto alla presenza importante dei fedeli della Chiesa cattolica, al carattere bilingue e multietnico del Paese, e anche all’apertura geografica del Paese al cuore del continente”, perché il Camerun è “una nazione panafricana sempre accoglienze e aperta nei confronti delle altre nazioni africane”, tanto che viene comunemente chiamata “l’Africa in miniatura”.

Il “ministro degli Esteri” vaticano ha ricordato che “la sua visita è associata ad un evento speciale”, ovvero il decimo anniversario della firma dell’Accordo Quadro tra Santa Sede e Camerun” che riconosceva lo status giuridico della Chiesa, contribuendo a rafforzare la legittimità e la cooperazione già esistente tra Chiesa e Stato, “aprendo una nuova pagina delle relazioni politico-religiose nel paese”.

L'accordo è stato messo in atto “progressivamente”, e riconosce anche lo status giuridico di differenti ordini religiosi. Gallagher spera che “l’accordo sarà approfondito e trovarà il suo potenziale al servizio della nazione”.

Gallagher ha ricordato che la Santa Sede ha sempre “supportato pienamente” la sovranità del popolo camerunense nella sua “unità, integrità, sviluppo e pacifica coabitazione nel suo territorio nazionale”. È una terra che ha oltre 250 gruppi etnici, con le loro culture e tradizioni, e che “ha accolto la Chiesa”, tanto che il prossimo anno si celebra il 135esimo anniversario della celebrazione della prima messa Marienberg ad opera dei primi missionari pallottini.

L’arcivescovo ha detto che “anche in tempi di difficoltà” il popolo camerunense ha riflesso “nel Vangelo la propria identità, preservata con coraggio e determinazione tra grandi sofferenze”.

Gallagher ha infine affermato che “oggi il Camerun, consapevole del passato e attento ai segni dei tempi, guarda al futuro con speranza e desidera la pace, per se stesso e per l’intera regione”.

                                               FOCUS PAPA FRANCESCO

Il primo ministro di Armenia da Papa Francesco

Il 18 novembre, Papa Francesco ha incontrato il primo ministro armeno Nikol Pashinyan. Secondo una comunicazione diffusa dall’ufficio del primo ministro, i due hanno discusso dei colloqui di pace tra Armenia e Azerbaijan e altri temi di mutua preoccupazione.

Secondo la comunicazione, Pashinyan ha ringraziato Francesco per averlo invitato in udienza e ha enfatizzato il pieno supporto armeno agli sforzi della Santa Sede su varie piattaforme internazionali per facilitare la pace nel mondo.

Pashinyan avrebbe anche ringraziato il Papa per la sua richiesta per il rilascio dei prigionieri armeni a Baku. Pashinyan è stato accompagnato da sua moglie Anna Hakobyan e dalla loro figlia Arpi oltre che da una certa delegazione.

Papa Francesco incontra il ministro dell’Interno tedesco

Il 21 novembre, Papa Francesco ha ricevuto in udienza privata Nancy Faeser, ministro dell’Interno della Repubblica Federale di Germania. Un post su X, il ministero dell’Interno ha sottolineato che il ministro ha sottolineato al Papa l’importanza della Chiesa cattolica per la coesione in Germania, e ha detto che “abbiamo bisogno della voce delle Chiese a livello internazionale per amicizia e umanità”.

L’ambasciatore di Germania presso la Santa Sede Bernard Kotsch, in un altro post su X, ha aggiunto che il ministro dell’Interno ha successivamente incontrato il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, e che c’è stato “un importante scambio sulle principali questioni sociali e politiche di oggi”.

Il sottosegretario delle Nazioni Unite da Papa Francesco

Jorge Moreira da Silva, sottosegretario generale delle Nazioni Unite, è stato ricevuto da Papa Francesco in udienza privata lo scorso 21 novembre. Parlando con i media brasiliani, il sottosegretario ha fatto sapere di aver illustrato al Papa le difficoltà che le Nazioni Unite incontrano nel fornire aiuti umanitari a Gaza, e che Papa Francesco avrebbe espresso “grande apprezzamento” per gli sforzi dell’organizzazione.

Dall’aprile 2023, Moreira da Silva guida l’Ufficio dei Servizio di Progettazione delle Nazioni Unite (UNOPS), che è responsabile di un meccanismo per facilitare, coordinare, monitorare e verificare le spedizioni di aiuti umanitari a Gaza.

Durante l’udienza, Moreira da Silva si è anche concentrato sulla necessità di una risposta urgente ai conflitti globali e alla crisi climatica.

Secondo quanto il sottosegretario ONU ha detto a Lusa dopo l’udienza, questi ha presentato e discusso con il Papa delle attività dell’UNOPS in Ucraina, Myanmar, Afghanistan, Gaza, Libano, Yemen, Sudan, Haiti e nella regione di Capo Delgado in Mozambico, dove è presente la lotta jihadista.  

Moreira da Silva ha rivelato che, "tenendo conto del contesto attuale, gran parte del dialogo si è sviluppato attorno alla situazione a Gaza e al ruolo che l'UNOPS sta svolgendo”, e, senza entrare nei dettagli, ha affermato che “Papa Francesco è estremamente preoccupato per il fatto che gli aiuti umanitari non raggiungono la popolazione più vulnerabile."

Sottolineando che "la capacità stessa delle Nazioni Unite di operare in condizioni di sicurezza è andata diminuendo", poiché "molti dipendenti delle Nazioni Unite hanno già perso la vita", Moreira da Silva e il Papa hanno discusso "dell'assoluta necessità di garantire che vi sia pieno rispetto del diritto internazionale umanitario”.

Secondo Moreira da Silva, "Papa Francesco era ovviamente molto interessato a conoscere il ruolo dell'UNOPS nella gestione del meccanismo di coordinamento degli aiuti umanitari" e "a conoscere in modo molto concreto questa operazione logistica di aiuto umanitario", dato che l'agenzia da lui diretto, la quinta più grande delle Nazioni Unite, è quella che, sotto l'autorità del segretario generale António Guterres, gestisce il meccanismo creato per rendere "l'ingresso degli aiuti a Gaza più rapido, meno burocratico e più efficace" .

Moreira da Silva ha sottolineato che "le autorizzazioni israeliane alla circolazione [dei camion degli aiuti] non hanno permesso che gli aiuti raggiungessero coloro che ne hanno più bisogno", oltre alla "circostanza stessa che i dipendenti delle Nazioni Unite si sentono minacciati e vulnerabili, con molti incidenti che mettono in discussione la capacità di operare”, e ora c’è anche “la circostanza che gli aiuti vengono dirottati e rubati”.

                                               FOCUS G20 E PACE

G20 di Rio de Janeiro, l’intervento del Cardinale Pietro Parolin

Il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, non ha solo partecipato al G20 portando un messaggio di Papa Francesco, ma anche preso la parola durante la seconda sessione del summit, dedicata alla riforma delle istituzioni di governance globale.

Nel suo intervento, il capo della diplomazia Pontificia ha notato che l’attuale panorama globale è caratterizzato da nuove tecnologie, interconettività migliorata e intensificazione della globalizazione, ha portato “ad una notevole diminuzione dell’influenza degli Stati nazione” e per questo i settori economici e finanziari sono diventati “sempre più transnazionali”, esercitando “maggiore controllo sule decisioni”.

Le istituzioni internazionali multilaterali – ha proseguito il Cardinale Parolin – sembrano “essere di fronte a sfida nel rispondere alle domande del XXI secolo”, considerando che sin dalla loro fondazione, a seguito della Seconda Guerra Mondiale, ci sono state significative trasformazioni a livello mondiale.

La Santa Sede mette in luce che le nazioni indipendenti sono cresciute in maniera esponenziale, e dunque le organizzazioni multilaterali si sono trovate con più membri da gestire, ed è dunque necessario un “ripensamento delle cornici che dovrebbe facilitare una efficace cooperazione internazionale”.

L’obiettivo tradizionale di assicurare pace e stabilità è “ancora cruciale”, ma si devono anche affrontare “le nuove sfide”, si deve “sviluppare un meccanismo globale che possa rispondere a questioni ambientali, di salute pubblica, culturali e sociali”, nonché alla questione dell’intelligenza artificiale, sulla quale la Santa Sede da tempo ha chiesto una autorità mondiale con competenze universali.

Parolin ha anche sottolineato che è “importante non confondere il multilateralismo con una autorità globale concentrate in una persona o una élite con un potere eccessivo”, perché “ogni riforma nella governance globale dovrebbe essere costruita non solo sull’eguale sovranità degli Stati”, ma anche “su principi di sussidiarietà ed eguale partecipazione”.

Santa Sede, gli sforzi per la pace: le parole del Cardinale Parolin

Il 22 novembre, il Cardinale Pietro Parolin, a margine della presentazione di un libro sulla pastorale della solitudine del professor Matthew Fforde, ha risposto alle domande dei giornalisti su due temi: la decisione della Corte Penale Internazionale di spiccare un mandato di arresto contro il premiere israeliano Benjamin Netanyahu per crimini di guerra, e l’escalation che si vede nel conflitto in Ucraina dopo che gli Stati Uniti hanno autorizzato gli ucraini ad usare le loro armi nel territorio russo.

Per quanto riguarda la situazione in Terrasanta, Parolin ha anche commentato le parole di Papa Francesco, che in un libro di recente uscita ha detto che alcuni osservatori definiscono quello che accade a Gaza un genocidio, e che auspicava che si valutasse se davvero ci fossero gli estremi tecnici per definirlo tale.

“Il Papa – sottolinea il Cardinale Parolin - ha detto quella che è la posizione della Santa Sede e cioè che bisogna studiare queste cose, perché ci sono dei criteri tecnici per definire il concetto di genocidio”.

Nessun commento, invece, sul mandato di arresto per Netanyahu, questione di cui la Santa Sede ha preso semplicemente nota, mentre quello che “preoccupa e interessa è che presto si ponga fine alla guerra”.

Ed è lo stesso per quanto riguarda il conflitto in Ucraina, all’indomani del discorso del presidente russo Vladimir Putin in cui si delineava anche la possibilità di un conflitto globale.

Il Segretario di Stato vaticano ha chiesto di “fermarsi ora che siamo in tempo, perché questa escalation non si sa dove porterà. A un certo punto non si sarà più come controllare un eventuale sviluppo di questa situazione”.

Prosegue, intanto, il lavoro di cucitura della Santa Sede per lo scambio dei prigionieri e il rientro dei bambini ucraini che si trovano in territorio russo, sebbene il Cardinale Parolin non abbia dato particolari aggiornamenti sul tema”.

                                                           FOCUS EUROPA

Polonia, la posizione dei vescovi sulla questione dell’educazione sanitaria

Al termine della plenaria della Conferenza Episcopale Polacca, il 22 novembre, i vescovi di Polonia hanno rilasciato una dura posizione riguardo la decisione del Ministero dell’Istruzione di Varsavia di rendere obbligatoria nei curricula scolastici la materia dell’educazione sanitaria.

Secondo i vescovi, questa decisione è “contraria alla Legge Fondamentale della Polonia”, e che per questo “nonostante alcuni argomenti validi, come le potenziali minacce su internet o la condivisione di immagini di bambini, le disposizioni corrotte in materia di educazione sessuale non possono essere accettate”.

I vescovi sottolineano che “l’educazione sessuale, secondo la Costituzione, resta di competenza dei genitori, non dello Stato”.

I vescovi fanno in particolare agli articoli 48 e 53 della Costituzione. Per questo, scrivono i vescovi nella loro posizione, “il regolamento consultato del Ministero dell'Istruzione Nazionale, soprattutto per quanto riguarda la forma dell'educazione sessuale a scuola, viola la legge in vigore in Polonia, viola il diritto dei genitori di prendere decisioni sui propri figli e minaccia il corretto sviluppo dei bambini e degli adolescenti”.

Dunque, i vescovi polacchi “pensando al benessere dei bambini, ai diritti dei genitori e alla società polacca”, insistono “affinché i cambiamenti siano introdotti nello spirito del dialogo, del rispetto reciproco e del rispetto della legge”.

Russia, la preoccupazione della Conferenza Episcopale per una legge che limita le celebrazioni

Dal 19 al 22 novembre, si è tenuta la plenaria della Conferenza Episcopale Russa. Diverse le questioni di interesse diplomatico affrontate durante la riunione.

Prima di tutto, i vescovi hanno lanciato ancora una volta un appello ai fedeli affinché preghino instancabilmente per la pace e lavorino per essa, avendo cura del benessere spirituale fisico di ogni persona.

Durante l’incontro, si legge in un comunicato della Conferenza Episcopale Russa, è stato discusso anche “il tema dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato, in particolare in relazione al disegno di legge che vieta le funzioni religiose negli ambienti residenziali e non residenziali dei codomini”. I vescovi hanno “condiviso le preoccupazioni espresse su questo tema dai rappresentanti di altre fedi”, e intendono “sottoporre per iscritto le loro opinioni alle autorità legislative”.

                                                           FOCUS AFRICA

Kenya, le Chiese in Africa respingono la donazione del presidente Ruto

I vescovi del Kenya hanno rimandato per ragioni etiche al mittente una donazione di 40 mila dollari inviata dal presidente della nazione William Ruto, affermando di opporsi all’uso della Chiesa per una agenda politica.

La donazione del presidente è stata presentata il 17 novembre ad una Messa domenicale in una chiesa parrocchiale di Kayole-Soweto, a Nairobi.

In quell’occasione, il presidente ha datto alla Chiesa 20 mila dollari in contanti, promettendo di dare il resto, insieme ad un autobus per la parrocchia, in seguito. Parte dei fondi sarebbero dovuti essere usati per la costruzione di una rettoria parrocchiale, mentre altri erano una donazione per il coro della Chiesa e il consiglio missionario della parrocchia.

Il 18 novembre, l’arcivescovo Phili Subira Anyolo di Nairobi ha fatto sapere che il denaro sarebbe stato restituito, dato che la donazione ha violato le direttive della chiesa e la legge nazionale sulla raccolta fondi, che richiede un permesso.

Nel rifiutare la donazione, l’arcivescovo Anyolo ha sottolineato la forte presa di posizione dei vescovi riguardo le donazioni finanziarie alla Chiesa da politici per problemi etici e per “la necessità di salvaguardare la Chiesa dall’essere usata per ragioni politiche”, e ha sottolineato che la Chiesa “scoraggia con forza l’uso di eventi ecclesiastici come raccolte fondi e raduni come piattaforme per l’autopromozione politica”.

I cattolici in Kenya rappresentano circa il 40 per cento della popolazione. La donazione del presidente ha avuto luogo quattro giorni dopo la dichiarazione dei vescovi kenyoti, risalente al 14 novembre, in cui si accusava il governo di permettere lo sviluppo di una “cultura di bugie”, una “agenda egoista” che forza i giovani a combattere “il mostro della corruzione” e confondere le priorità, senza considerare i diritti umani delle persone ordinarie.

I vescovi hanno anche accusato il governo di tassare eccessivamente i cittadini, violare i diritti umani, soffocare la libertà di espressione, fallire nel creare occupazione e disorganizzare l’educazione e il sistema sanitario, definendo come “scioccante” la “cupidigia estesa cui stiamo vivendo”, e sottolineando che i vescovi sono pietrificati dai fatti ricorrenti che riportano di rapimenti, scomparse, torture e uccisione dei kenyoti”.

Il governo ha risposto alle critiche dei vescovi con una serie di dichiarazione in cui si accusavano i vescovi di “fuorviare” il pubblico”.        

                                               FOCUS MULTILATERALE

La Santa Sede all’Organizzazione degli Stati Americani, sulla violenza contro le donne

Il 20 novembre, monsignor Juan Antonio Cruz Serrano, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Organizzazione degli Stati Americani, è intervenuto alla sessione straordinaria del Consiglio Permanente dell’Organizzazione per commemorare la Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne.

Nel suo intervento, monsignor Cruz Serrano sottolinea che è “deplorevole che la violenza contro le donne esista come un problema globale che colpisce non solo le donne, ma anche i bambini”, e per questo è apprezzabile una giornata per “considerare questo flagello e concretizzare azioni per combatterlo”.

Si deve tuttavia riflettere sulle cause profonde del fenomeno, afferma il rappresentante della Santa Sede, perché “se è ben certo che la violenza che affrontano donne e bambine può prendere molte forme, incluso il matrimonio forzato, l’abuso fisico, sessuale ed emozionale, la intimidazione e lo sfruttamento del lavoro”, è anche vero che “nei nostri tempi si sta aggravando una nuova forma di violenza”, ovvero “la privazione forzata di libertà con fini di sfruttamento sessuale e lavorativo”.

Si tratta di una forma di “schiavitù moderna” che rappresenta l’80 per cento dei casi nella regione degli Stati americani, secondo dati dell’Organizzazione Mondiale della Salute, in cui il 70 per cento sono vittime di tratta con fini di sfruttamento sessuale, mentre quasi un quinto sono sottomesse a sfruttamento lavorativo.

L’osservatore della Santa Sede afferma che “secondo l’UNICEF, la tratta di esseri umani è diventata il commercio più lucrativo dopo il traffico di droga”, e con quello “si cosificano le persone perché siano vendute, ancora e ancora, giorno dopo giorno”.

Davanti a questo flagello, sottolinea la Santa Sede, è “importante agire e per quello è essenziale attaccare le cause che lo provocano, tra le quali sono la povertà il consumo di pornografia, la prostituzione, la disuguaglianza, i conflitti armati tra gli altri”.

Cruz Serrano ricorda che il Papa ha “condannato energicamente la violenza che soffrono le donne”, e ha sostenuto “l’importanza di affrontare il problema attraverso uno sforzo congiunto delle istituzioni pubbliche e degli attori sociali”, mettendo in luce la necessità di “una rete preventiva e non solo difensiva per sradicare la violenza contro le donne”, nonché il miglioramento dei sistemi giuridici “per garantire che le vittime ricevano giustizia in maniera opportuna”.

L’osservatore della Santa Sede sottolinea che “di fronte alla realtà lacerante della violenza contro le donne e le bambine, dell’abuso fisico e psicologico che soffrono, è urgente tornare a incontrare forme di relazioni equilibrate e giuste, che sono fondamentali nel riconoscimento, rispetto e mutua valorizzazione”.

La Santa Sede alla FAO, la Giornata Mondiale della Pesca

Il 21 novembre, monsignor Fernando Chica Arellano, Osservatore Permanente della Santa Sede presso la FAO, l’IFAD e il PAM, ha tenuto un intervento a Bari in occasione della Giornata Mondiale della Pesca 2024, per la conferenza “Giovani e industria della pesca: guardando insieme al futuro con speranza”.

Nel suo intervento, monsignor Chica ha ricordato che la Giornata Mondiale per la Pesca è stata istituita il 21 novembre 1997, a Nuova Delhi, in India, quando ci fu la prima riunione di piccoli pescatori artigianali ed esponenti della filiera ittica di 32 Paese che diedero vita al Forum Mondiale dei Popoli Pescatori (WFPP).

Questo forum intendeva essere “espressione di una voce che risuona all’unisono e che chiede, per mezzo di un miglior coordinamento e dell’elaborazione di un pensiero condiviso, il riconoscimento dei diritti dei piccoli pescatori, affinché il loro lavoro non fosse più precario, sottopagato e spesso sinonimo di sfruttamento, come purtroppo ancora si riscontra in varie parti del mondo”.

Era un Forum costituito per rispondere anche “alla crescente pressione esercitata sulla pesca di piccola scala dal commercio internazionale e dalla globalizzazione, alle nefaste conseguenze della distruzione degli habitat naturali, dell’inquinamento antropogenico, della sopraffazione di un’attività di pesca di tipo intensivo e non rispettosa dell’ambiente”.

Attraverso il Forum, si intendeva rafforzare la “capacità organizzativa dei pescatori”, e la Santa Sede ha colto il grido della società civile e ha deciso di pubblicare ogni anno, in occasione della Giornata Mondiale della Pesca, un messaggio riguardo la gente del mare, ma anche di dare risonanza a questa celebrazione, tra le altre cose patrocinando insieme con la FAO un evento celebrativo della Giornata a partire dal 2016.

I temi della giornata, nel corso degli anni, hanno toccato diversi elementi di preoccupazione, dalle violazioni dei diritti umani dei pescatori alla piaga del traffico di esseri umani, tutte nate dalle richieste di aiuto pervenute a cappellani e volontari della pastorale del mare.

Monsignor Chica sottolinea che i dati statistici non permettono di guardare a fondo nei fenomeni, perché le testimonianze “lasciano intravedere condotte illecite di sfruttamento, di oppressione, di discriminazione”, e così “l’intento della Santa Sede è stato quello di farsi prossima ai più vulnerabili e ai poveri, con l’atteggiamento del buon samaritano che il Vangelo ci insegna”.

Una delle modalità in cui questa vicinanza può essere operata, dice l’Osservatore della Santa Sede presso le organizzazioni alimentari delle Nazioni Unite, è il cosiddetto “multilateralismo dal basso”, che “aspira a dar voce alle istanze che provengono dai diretti interessati, da chi vive ogni giorno le tribolazioni e le fatiche di un mestiere come quello del marinaio”.

La Santa Sede ha sviluppato una particolare attenzione verso gli artigiani del mare, il cui sfruttamento “dà scandalo, perché essi sono i più indifesi nella catena del valore ittico in quanto lavoratori poco qualificati o lavoratori a giornata”.

Per guardare al futuro con speranza, dice monsignor Chica, si deve “innanzitutto estirpare la piaga del lavoro minorile, molto presente anche nel settore della pesca e dell’acquacoltura”, un fenomeno condannato a più riprese dalla Chiesa Cattolica prima di tutto come un problema di “natura morale”, che “lede nella loro dignità i più piccoli e li priva del diritto ad un’infanzia serena”.

Il rappresentante della Santa Sede nota anche che i giovani adulti che possono scegliere “si allontanano dal settore primario, decidono di non intraprendere il mestiere dei nonni e dei genitori, perché oggettivamente logorante, in quanto estremamente faticoso in termini di sforzo fisico e di lontananza dai propri cari”.

Per la Santa Sede, la radice resta quella di “dare dignità al lavoro umano”, che è parte del lavoro incessante di Papa Francesco.

Sottolinea monsignor Chica: “Mai come in questo tempo sentiamo la necessità di lavoratori, soprattutto di lavoratori giovani, che sappiano, alla luce del Vangelo, trasformare la realtà sociale attuale, affinché i rapporti interpersonali e le relazioni internazionali siano orientati all’insegna della fraternità e del rispetto di ogni persona”.

E ai giovani, aggiunge l’Osservatore della Santa Sede, “non manca la creatività di lavorare per un modello di società diverso e contrapposto a quello consumistico che produce scarti”.