Io vedo la speranza del nostro popolo non tanto dal punto di vista della diaspora, perché la maggioranza della nostra gente non è discendente di quella vecchia diaspora, ma dal punto di vista della Chiesa clandestina. Anche le persone che hanno partecipato alle Divine Liturgie da me presiedute in Francia sono venute perché continuano a vivere in questo mondo culturale, nazionale ed ecclesiastico dell’Ucraina, seguono quello che succede in Ucraina, pregano con la Chiesa in Ucraina, vogliono ascoltare la voce della loro Chiesa.
Quale è, allora, la prospettiva della speranza?
La prospettiva della speranza viene dalla storia. Abbiamo sperimentato varie volte, nella storia della nostra Chiesa, momenti della più totale distruzione. Ricordiamo, ad esempio, gli avvenimenti del 1240, quando i Tartari hanno distrutto completamente Kyiv e l’unico edificio intatto era la cattedrale di Santa Sofia. Nella basilica si trova il famoso mosaico della Madonna orante di Kyiv, ed è lì che nel popolo è nata la tradizione legata alla Madre di Dio.
Quindi, abbiamo avuto un secondo momento di distruzione ad opera dell’Impero Russo. Dopo la conquista dei territori ucraini che prima erano parte del regno polacco-lituano nel 1839, l’Impero Russo ha sistematicamente perseguitato la nostra Chiesa.
Io adesso sono il metropolita di Kyiv e mi trovo, in questa situazione, a riedificare la nostra Chiesa. Nei miei occhi risorge la nostra Chiesa in queste terre dell’Ucraina centrale, sul fiume Dnipro. Vedo come queste nostre radici nella città di Kyiv, nella culla del nostro Battesimo, non sono morte, e mi ricorda delle parole del profeta Isaia che disse che dalla stirpe di Davide sarebbe sbocciato chi avrebbe portato la speranza.
E ci sono altre distruzioni?
La terza distruzione è quella avvenuta durante il periodo dell’Unione Sovietica, cui poi è seguita la Resurrezione, l’uscita dalle catacombe, il ritorno dalla diaspora. Io ho visto con i miei occhi la mia Chiesa uscire dalle catacombe. Ho visto la mia Chiesa resuscitare come il Corpo di Cristo. E come gli apostoli che avevano visto il Cristo Risorto sono andati in tutto il mondo per dare l’annuncio, anche noi, giovani di quell’epoca siamo stati chiamati ad essere testimoni della Chiesa che risorge. Tutti questi momenti sono parte della preghiera anamnestica della Chiesa.
Quale è questa preghiera anamnestica?
Noi con le mani alzate preghiamo per il popolo di Dio che viene distrutto ogni giorno, condannato a morte e ferito, e diciamo al Signore: ricordati di noi! Questa è la nostra vocazione verso la libertà. Tu ci hai sedotto con la vocazione di credere, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, che la nostra libertà non è un sogno, ma è la tua volontà. E viviamo in questa rilettura del popolo di Dio nella storia del nostro Paese. Alcuni definiscono la cultura del nostro popolo come una cultura pasquale, come fece, ad esempio, Hryhorii Skovoroda, filosofo dell’Accademia Kyiv-Mohyla a Kyiv. Skovoroda definisce come “confermata” la speranza cristiana fondata nella nostra cultura.
Il popolo ucraino vive in una cultura pasquale. Nel mezzo della guerra, in un conflitto che sembra non rimarginare le ferite del passato, quanto spazio c’è per la riconciliazione e il perdono? Quanto questi due passaggi, che sono parte del mistero pasquale, possono avere luce? Perché dopo la guerra si tratterrà di riconciliare popoli che rimarranno a vivere su terre vicine…
Riconciliare i popoli è un processo travagliato e difficile che dura molti anni. Sono molte le ragioni per cui non ci si può riconciliare subito. Talvolta le ferite del passato e i risentimenti nazionali si trasmettono da una generazione all’altra.
Noi abbiamo avuto un esempio di riconciliazione, ed è stato il processo di riconciliazione polacco-ucraino, ispirato da Giovanni Paolo II. Era un periodo storico molto difficile sia per il popolo ucraino che per il popolo polacco, perché ambedue erano stati annientati dal sistema sovietico. È interessante che il passo di riconciliazione ha avuto luogo a Roma, nel Collegio San Giosafat. Il motivo era semplice: i vescovi polacchi potevano uscire dalla Polonia per andare a Roma, mentre i vescovi dall’Ucraina non potevano muoversi. Allora sono stati chiamati a Roma i vescovi della diaspora ucraina, perché gli ucraini in diaspora erano liberi.
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C’era in realtà in precedente per quel processo di riconciliazione
I vescovi polacchi avevano fatto un passo simile nei confronti del popolo tedesco. Fu il cardiale Boleslaw Kominek, arcivescovo di Wroclaw, che avviò il processo. Gli episcopati cattolici tedesco e polacco, dunque, trovarono nel 1965 questa formula: perdoniamo e chiediamo perdono. E così, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, quando lo Stato polacco rinasce e quando la nostra Chiesa esce dalle catacombe, l’iniziativa della riconciliazione è stata riportata sul suolo ucraino. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, ucraini e polacchi avevano bisogno di riconciliazione.
Quale è stato il momento cruciale della riconciliazione polacco-ucraina?
È avvenuta durante la visita di San Giovanni Paolo II in Ucraina nel 2001, durante la Divina Liturgia celebrata dallo stesso Papa in cui aveva proclamato i beati martiri del comunismo. Davanti a un Papa polacco, il mio predecessore, il cardinale Lubomyr Husar, ha chiesto perdono al popolo polacco e a tutti gli altri popoli ai quali il popolo ucraino aveva portato offese storiche in questo momento. Il cardinale Husar diceva che non vogliamo che la nostra difficile storia porti il veleno del nostro presente e ci distrugga il futuro.
Ci sono stati passi successivi?
Un passo simile è stato fatto a Varsavia e Leopoli durante l’anno dedicato all’Eucarestia. Non solo i vescovi parlavano a nome del popolo. I vescovi di Ucraina e Polonia hanno chiesto al popolo direttamente se questo avrebbe voluto perdonare, e il popolo ha detto: sì, lo vogliamo. A cinquanta anni da questo percorso di mutuo perdono, c’è ancora tanta strada da percorrere. Sempre i politici cercano di sfruttare il dolore del popolo, cercano di risvegliare questi egoismi nazionali giocano sulla tensione e sullo scontro tra i popoli. A volte, arrivano al potere parlando della “politica storica”, che è un concetto non corretto: il politico deve guardare al futuro, se fa politica manipolando e sfruttando la storia, è come se andasse avanti con la testa voltata indietro, e rischia di sbattere la sua testa e quella di coloro che lo seguono.