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“La pace in Terrasanta passa dalla riconciliazione e il dialogo”

A dieci anni dall’incontro di preghiera per la pace nei Giardini Vaticani, Margaret Karram, presidente del Movimento dei Focolari, guarda a quello che può essere la Terrasanta a partire dalla sua personale esperienza

Margaret Karram | Margaret Karram a colloquio con Papa Francesco durante il Sinodo 2024 | Vatican Media / Focolari Margaret Karram | Margaret Karram a colloquio con Papa Francesco durante il Sinodo 2024 | Vatican Media / Focolari

Sono trascorsi dieci anni da quando Margaret Karram è stata coinvolta nell’organizzazione della preghiera per la Pace nei Giardini vaticani voluta da Papa Francesco, che vide la partecipazione dell’allora presidente israeliano Ariel Sharon, di quello palestinese Mahmoud Abbas, del Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I. Dieci anni dopo, Karram, araba cristiana di Haifa, è presidente del Movimento dei Focolari, e ha partecipato in quella veste a Roma alle due tappe del Sinodo dei vescovi su “Comunione, Missione e Partecipazione”. È una figlia della Terrasanta che guarda gli eventi con preoccupazione e attenzione. E che ha una convinzione: la pace si costruisce nei rapporti personali, passo dopo passo, non basta la politica.

Sono passati dieci anni dalla Preghiera nei Giardini vaticani. Come è arrivata ad essere parte di quell’evento in qualche modo storico?

Devo fare una premessa. Avevo vissuto a Gerusalemme per 24 anni, e nel 2014 Papa Francesco ha visitato la Terrasanta insieme al Patriarca Bartolomeo. Ma in quell’anno era già previsto che sarei dovuta spostarmi in Italia a marzo, per lavorare al Centro Internazionale del Movimento dei Focolari. È stato un cambiamento difficile da assorbire.

Per quale motivo?

A Gerusalemme, sentivo di vivere fino in fondo la mia vocazione. Ero nella Città Santa, una città purtroppo divisa, ma laddove Gesù è morto e risorto. Lì, nel mezzo del conflitto, dei dolori delle persone, del muro che si stava costruendo, io sentivo che la mia vocazione nel Movimento dei Focolari era in piena fioritura. La mia vita aveva un senso definito, lavoravo con altri focolarini e organizzazioni internazionali per promuovere il dialogo e la pace e formare le comunità cristiane ad una convivenza più pacifica.

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Una vita attiva, dunque…

Accetto il cambiamento come una chiamata di Dio. Era bello essere lì dove Chiara Lubich, la fondatrice del nostro movimento, aveva vissuto, respirare anche con i primi compagni di Chiara, perché dieci anni fa tanti di loro erano ancora vivi. Eppure, non mi sentivo pienamente al mio posto., mi mancava l’adrenalina della vita a Gerusalemme che mi aiutava a vivere il Vangelo ogni giorno. Perché a Gerusalemme c’era la sfida di continuare a credere, di continuare a testimoniare che è possibile vivere per l’unità, nonostante tutte le difficoltà.

Cosa cambiava nel Centro Internazionale?

Non si sentivano più le ambulanze continuamente, non si vedevano i soldati per strada. Avevo, irrazionalmente, paura che la mia radicalità di vivere il Vangelo venisse meno. È in questo contesto che mi arriva la notizia dell’invocazione per la pace in Terrasanta, e che il Papa aveva invitato a partecipare i due presidenti palestinese e israeliano. Si cercava qualcuno che sapesse la lingua araba, e che potesse leggere un brano in quel momento di preghiera.

E lì ha deciso di partecipare?

In realtà, non sapevo se accettare questo invito  o no. Ero in questo atteggiamento interiore che non mi lasciava in pace. Sono andata in cappella e ho chiesto a Dio cosa avrei dovuto fare. Apro le letture del giorno, e mi trovo Atti 23,10-11, dove si legge: “Coraggio, come hai testimoniato a Gerusalemme le cose che mi riguardano, così è necessario che tu dia testimonianza anche a Roma”.

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Sembrava un messaggio preciso…

Mi ha dato coraggio. Mi ha comunicato che, anche con il pensiero di essere fuori posto, avevo una opportunità di testimoniare Gesù. E così ho accettato di partecipare all’invocazione, e ho letto, in arabo, la preghiera di San Francesco, con quel suo “Dove è odio che io porti l’amore” denso di significato, in un momento molto forte, di fronte a Papa Francesco, al Patriarca Bartolomeo, a tanti israeliani, palestinesi, , inclusi  capi religiosi ebrei e musulmani. Leggendo quella preghiera, portavo lì il grido della giustizia e della misericordia. Ho letto dunque quella preghieracon commozione profonda.  

Dieci anni dopo, quell’invocazione avrebbe ancora senso?

Si è trattato di un momento bellissimo, anche se si sentivano le tensioni, c’è chi ha parlato a braccio, lasciando da parte il testo scritto. Io percepivo questa tensione e questi rancori. Sono tuttavia consapevole che Dio vede dall’alto il ricamo più bello, mentre noi continuiamo a vedere i nodi. Poi, dopo l’invocazione è scoppiata la guerra a Gaza, dieci anni dopo la situazione non è migliorata. Allora viene da chiedersi: questa preghiera quale frutto ha portato? È servita a qualcosa? Ma io ho davanti ai miei occhi l’albero di ulivo piantato nei giardini Vaticani, e questo per me è il simbolo di quella giornata. In effetti, per portare frutto, le radici devono andare proprio in fondo nel terreno, penetrare il fango, superare il buio, radicarsi in una realtà di dolore. Questa è la mia speranza.

Allora a che serve la preghiera?

Rispondo con le parole del Cardinale Pizzaballa, oggi Patriarca Latino di Gerusalemme, che allora era il Custode dei Francescani in Terrasanta e al quale, dopo la preghiera, a seguito dello scoppio della guerra a Gaza, fu fatta la stessa domanda. “La preghiera – disse il Patriarca -  non produce. La preghiera genera. Non sostituisce l’opera dell’uomo, ma la illumina. Non esonera dal percorso ma lo indica. E in questo senso, l’incontro di Roma è stato e rimane un segno potente e forte, vincolante. E’ l’immagine alla quale richiamarsi e che dà speranza a chi non si rassegna alla triste realtà dei nostri giorni”. Faccio mie queste parole, e so che dobbiamo continuare non solo a pregare, ma a lavorare per la pace, ad educare alla pace.

Il grande tema, nel conflitto in Terrasanta, ma anche nei conflitti del mondo, è quello della riconciliazione. Come vivere come fratelli dopo che si è vissuta la morte e la distruzione causata dall’uno o dall’altro? Il perdono, tra l’altro, è un tema cristiano. Lei, nei suoi anni in Terrasanta, ha visto atti di perdono che possono lasciare una speranza?

Direi che è meglio parlare di riconciliazione più che di perdono. Perdono è una parola molto forte, e sono pochi quelli che riescono a perdonare, a sentirsi liberi con la sensazione di aver avuto una giustizia, sociale, umana e politica. Ma, tornando alla domanda, sì, ho visto tanti atti di riconciliazione, situazioni molto forti.

Ci fa qualche esempio?

Per esempio, in Terrasanta si è sviluppata l’associazione Parents Circle, il circolo dei genitori. È una associazione che riunisce israeliani e palestinesi che hanno un parente ucciso durante i conflitti. Questi genitori – è una associazione di circa 600 persone – lavorano su percorsi di riconciliazione. Fanno incontri, guardando l’altro non come un nemico ma come qualcuno che possa educare alla pace. E poi, vanno insieme a raccontare la loro storia. Sono storie di grande impatto emotivo, che loro condividono incontrandosi anche per riconciliarsi e portare una mentalità diversa, arrivando ad una strada di dialogo e di pace.

È successo qualcosa che la ha coinvolta personalmente?

Quando abitavo a Gerusalemme, una nostra vicina ha invitato alcune di noi del focolare a casa sua. Non sapeva che ero araba, neppure che sono una cristiana. Quando lo ha capito, mi ha detto: “non ho mai ricevuto un arabo a casa mia”. Io ero con altre focolarine e in quel momento ho pensato che me ne sarei dovuta andare. Poi ho compreso che dovevo essere pronta a fare un passo interiore e a non prendere la sua frase come una offesa a tutto il mio popolo, perché è facile entrare nella trappola di pensare che una frase del genere significa sminuire, o peggio attaccare, tutto ciò in cui credi. Allora, ho cominciato invece a dialogare con lei, a raccontarle che avevo studiato l’ebraismo e la cultura ebraica, che credevo nella pace. E ho visto questa donna, un passo alla volta, abbandonare le sue difese, e comprendere che, se io la pensavo così, ci sarebbero stati altri come me che lottavano per la pace. È nata così tra noi una amicizia.

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È questa forse la più grande educazione alla pace?

Io sono convinta che la pace non verrà dall’alto, dal governo e dai politici. La pace verrà dal basso, verrà dai rapporti personali con le persone, da costruire un passo alla volta. In momenti di tensione, se non vado al di là dei miei sentimenti, rischio di continuare a creare odio. Diventa una catena che non si rompe. A me, lo dico senza ipocrisia, è costato fare quel passo. In quei momenti ti senti offeso, umiliato, che vuoi difenderti.

E come si fa a fare quel passo, nonostante tutto?

È un esercizio quotidiano. Io sono prima di tutto una cristiana, e metto il Vangelo al centro della mia vita. A volte le situazioni mi creano dolore, a volte mi sento impotente, ma poi, grazie al Vangelo e al Carisma dell’unità che ho scelto di vivere, mi dico sempre che, se sono in ruolo posso fare qualcosa. Ho vissuto allo stesso modo l’esperienza del Sinodo.

Continua a seguire la situazione in Terrasanta?

Sento spesso la mia famiglia, la comunità dei Focolari, e faccio arrivare loro l’amore del Papa, che è molto vicino a questa situazione. Io cerco di far sentire che vivo con loro, è un modo concreto di mostrare la vicinanza.

Concretamente, ci sono iniziative?

Il Movimento dei Focolari si impegna nella distribuzione degli aiuti umanitari, nella raccolta fondi. Lavoriamo con la Chiesa locale per capire anche come aiutare le persone. Il conflitto attuale non ha fatto danni solo a Gaza, ma anche in Israele e in tutto il Territorio Palestinese. Manca lavoro, perché molto del lavoro era collegato al turismo, ai pellegrini. Le persone che vivevano nei Territori e lavoravano in Israele non possono entrare nel Paese, hanno dovuto sospendere il lavoro. Noi stiamo lavorando per dare opportunità di lavoro e finanziare lo studio dei bambini. È un aiuto concreto. Non risolve la situazione politica, ma dà alle persone dignità per continuare a vivere e non lasciare quella terra.

I cristiani in Terrasanta come vivono la situazione?

I cristiani, al di là delle difficoltà che stanno passando, sentono la missione di essere lì. Sono il piccolo gregge che mantiene la loro cristianità. Mi colpisce tanto la loro fede, la loro perseveranza.

Lei ha avuto questa esperienza al Sinodo. Cosa può portare la sinodalità in situazioni complesse come quella della Terrasanta?

L’assemblea di questi due anni è stata veramente un laboratorio, una palestra di ascolto. Siamo chiamati ad imparare a mettere in pratica questo ascolto profondo. A volte si ascolta con le orecchie, ma non con il cuore. Il cuore non giudica, non aspetta niente dall’altro, accoglie l’altro in sé. Per me, il Sinodo è stata una esperienza fortissima, e lo dico da persona abituata a vivere con persone di varie nazionalità e culture.

Cosa ha portato, dunque, il Sinodo?

È una esperienza di ascolto nel cuore della Chiesa. Siamo diversi come vocazioni, siamo uomini e donne, abbiamo culture differenti, ma in due anni abbiamo imparato ad essere accoglienti, ad ascoltare, a non imporre la nostra idea, ma anzi  riuscire a lasciare andare la nostra idea per capire quella dal gruppo con cui lavoriamo cosa può venire fuori che possa essere di aiuto al Sinodo.

In particolare, è stata edificante l’esperienza delle conversazioni nello Spirito. Se questo stile può essere applicato anche a livello civile, da società o da organizzazioni non religiose, io credo che possa essere un percorso per la pace. Perché la pace nasce da un dialogo sincero tra le persone, dall’accoglienza dell’altro, con la sua storia, la sua cultura e la sua propria narrazione. Solo lasciandoci interpellare dai dolori altrui che impariamo a dialogare con l’altro. Credo che solo con questo tipo di atteggiamento si potrebbe fare   un percorso di pace, anche se magari non sarà mai una soluzione perfetta.

È un percorso…

Si! Siamo chiamati a portare questa esperienza nei nostri ambienti e a far crescere nelle persone questa disponibilità a dialogare, a non avere paura delle nostre differenze e dei nostri disaccordi. Io sono convinta che la paura dell’altro ci blocca, e più si ha paura, più odio cresce nel cuore. Perciò è un percorso, e questo sinodo che abbiamo appena concluso, se viene applicata nella nostra vita, potrebbe essere un faro di luce che può dare speranza.