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Luigi Anataloni: Giuseppe Allamano era un missionario con gioia

L'intervista a Luigi Anataloni, direttore responsabile della rivista ‘Missioni Consolata’

Missionari della Consolata | Missionari della Consolata | Credit/ terraemissione.it Missionari della Consolata | Missionari della Consolata | Credit/ terraemissione.it

“Per la Giornata Missionaria Mondiale di quest’anno ho tratto il tema dalla parabola evangelica del banchetto nuziale . Dopo che gli invitati hanno rifiutato l’invito, il re, protagonista del racconto, dice ai suoi servi: ‘Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze’. Riflettendo su questa parola-chiave, nel contesto della parabola e della vita di Gesù, possiamo mettere in luce alcuni aspetti importanti dell’evangelizzazione. Essi si rivelano particolarmente attuali per tutti noi, discepoli-missionari di Cristo, in questa fase finale del percorso sinodale che, in conformità al motto ‘Comunione, partecipazione, missione’, dovrà rilanciare la Chiesa verso il suo impegno prioritario, cioè l’annuncio del Vangelo nel mondo contemporaneo”.

Partendo dall’incipit del messaggio di papa Francesco per la 98^ Giornata mondiale Missionaria , in programma domenica 20 ottobre, dal titolo ‘Andate ed invitate al banchetto tutti’, abbiamo chiesto al missionario della Consolata, Luigi Anataloni, direttore responsabile della rivista ‘Missioni Consolata’ , di raccontarci il motivo per cui il papa ha scelto questo tema evangelico del banchetto nuziale per la giornata missionaria:

“Penso che con questo messaggio il papa voglia dare un respiro ottimistico alla missione oggi. Oggettivamente noi stiamo vivendo una situazione di violenza e di morte come quella che ha colpito i servi del primo invio, bastonati, umiliati e uccisi. La realtà attorno a noi è dura: abbandono della fede, chiese vuote, denatalità, scelte di morte della società, guerre diffuse e tragiche, cambiamento climatico, povertà, chiusure di cuore e confini, disinformazione e fake news, depressione e suicidi giovanili… chi più ne ha più ne metta.

Rinnovare l’invito ad ‘andare e invitare tutti al banchetto’ è molto bello e profondo. È un atto di fiducia nell’umanità, è un dire che Dio non molla mai gli uomini, e sempre loro vicino e crede in loro. E’ ricordare a tutti che noi siamo fatti per il ‘banchetto’, che è festa, gioia, condivisione, bellezza, fraternità, accoglienza di tutti e ciascuno. E’ un messaggio di grande coraggio e di speranza, senza fuggire dalle tante e profonde problematiche che attanagliano il mondo”.

Con quale caratteristica si può rivolgere l’invito?

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“Tre le dimensioni coinvolte: il compito di andare e invitare è proprio di ogni cristiano dal battesimo; l’invito è per tutti, con preferenza verso i poveri e gli scarti di ogni società; l’obbiettivo è un banchetto, non una mensa dei poveri o la sala di un ristorante dove ognuno ha il suo spazio privato. Banchetto è festa, incontro, interazione, è sentirsi tutti parte viva, è essere felici che anche gli altri, tutti, ci siano.

 

Allora invitare a questo banchetto richiede capacità di andare oltre gli stereotipi, il sentire che non si può essere felici da soli, che questo mondo è un giardino che ci è stato donato perché lo godiamo insieme, dove anche i ‘cagnolini’ hanno diritto di condividere la festa. Questo richiede fantasia, coraggio, creatività nel proporre vie nuove e parlare il linguaggio di chi si vuole invitare. Missione è davvero il contrario del ‘si è sempre fatto così’”.

Missione ed Eucarestia: quale rapporto esiste?

“La missione porta all’Eucarestia; l’Eucarestia nutre e stimola la missione. Una comunità che davvero celebra l’Eucarestia e la vive come momento di ascolto della Parola di Dio per correggersi e ricaricarsi per le sfide del quotidiano, come incontro con il Signore che è lì in mezzo, come festa di famiglia e di comunità dove tutti si sentono a casa, accolti e amati. Chi vive davvero l’Eucarestia così, non può restare chiuso in se stesso come se fosse una setta, un club privato. Chi davvero ‘dimora’ nel Signore sente il bisogno di correre a dirlo anche a tutti gli altri: ‘Abbiamo visto il Signore’, il bisogno di gridare: ‘venite alla festa’. Chi lo riconosce nello ‘spezzare il pane’ non può tenere la notizia per sé e corre anche nella notte per condividere la bella notizia. Il banchetto dell’Eucarestia diventa bello e vero nella misura in cui sempre più gente partecipa”.

Nella giornata missionaria sarà canonizzato il beato Giuseppe Allamano: perché tale canonizzazione è un dono per la missione della Chiesa?

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“Per il motivo che questa canonizzazione diventa un segno di speranza e di incoraggiamento in questi nostri tempi difficili. Allamano ha maturato il suo impegno sacerdotale e missionario nella Torino di fine 1800 dominata dalla massoneria e dall’anticlericalismo. E’ stato una persona che pur ben cosciente della sua fragilità fisica e non è stato lì a piangersi addosso, ma senza clamore, con l’impegno quotidiano, con tanta fede e con occhi vigili sulla realtà della sua città, ha operato una vera rivoluzione. Ha fatto di un santuario che era ridotto a un rudere il centro propulsore del rinnovamento spirituale di tutta la città, coinvolgendo ricchi e poveri, uomini e donne senza distinzione. Ha poi messo il fuoco nei giovani preti che lui ha seguito nei primi anni dopo l’ordinazione, facendoli diventare autentici pastori e apostoli nella chiesa locale senza rassegnarsi a riempire dei buchi per sopravvivere (in un tempo i cui i preti erano tanti)”.

Per quale motivo fondò gli Istituti Missionari della Consolata?

“Una delle ragioni può essere quella di aiutare altri a realizzare quel sogno missionario che era nato nel suo cuore dall’incontro da ragazzo, nell’oratorio di don Bosco, con il card. Massaia, allora ‘mitico’ apostolo dell’Etiopia, sogno che la sua salute gli aveva impedito di concretizzare. Ma forse è una interpretazione da favola. La realtà è che il contatto con il card. Massaia gli aveva aperto il cuore oltre i confini dell’Italia, probabilmente aiutato in questo anche da don Bosco, che ha sempre avuto una visione universale del servizio a cui erano chiamati i Salesiani. Questa visione universale ha trovato alimento nella sua vita di fede e nel suo rapporto con la Consolata, che era diventata ‘migrante’ con i tantissimi migranti piemontesi in Argentina, Brasile e altri paesi dell’America Latina. Un’altra ragione gli è venuto dal vivere con i preti giovani, appena ordinati, spesso desiderosi di farsi missionari, ma che trovavano un muro di diniego nei loro vescovi, troppo preoccupati di non impoverire la loro ‘forza lavoro’. Per Allamano la missione non è un sovrappiù, che per di più drena energie e mezzi dalla Chiesa locale, ma è la dimensione naturale della vocazione della Chiesa; quindi, è naturale che un sacerdote o un cristiano o una cristiana desiderino partire, e partano, per la missione. La fondazione dei Missionari, e delle Missionarie poi, è stata la sua riposta a questa convinzione profonda che ha fatto incontrare il grido dei poveri con la dimensione apostolica della vocazione di ogni cristiano e di tutta la Chiesa”.

La sua storia racconta l’allegria che metteva in ogni sua azione: allora in cosa consisteva la sua pedagogia della gioia?

“La domanda mi spiazza un po’ perché non ho mai pensato Allamano da questo punto di vista. Ma grazie per essa. Allamano non era un tipo chiassoso e non amava esibirsi, ma non era certo una persona triste, anzi sapeva comunicare nella semplicità una serenità profonda. Questa sua serenità gli veniva dal suo rapporto speciale con la Consolata e quindi prima con il Signore. Lui dice che non ha mai perso il sonno per i problemi che doveva affrontare, come quando è diventato rettore giovanissimo del seminario teologico e poi ha ricevuto l’incarico di gestire un santuario che era fatiscente e da ricostruire spiritualmente e materialmente. Pur essendo ufficialmente debole di salute, ha avuto una vita piena: si è occupato dei poveri, degli operai, delle servette strappate alla campagna e spesso schiavizzate in città, della stampa cattolica e di tanto altro. Ha insegnato nell’università cattolica del tempo, ha seguito ordini di suore poi fondato i due istituti, con tutto quello che questo gli ha richiesto materialmente e spiritualmente. Ma non ha mai perso la pace interiore e la gioia. La fonte della gioia, della serenità per lui aveva due radici: fidarsi del Signore e della Consolata e fare ‘bene il bene, senza fare rumore’. La gioia per lui nasce dal fatto di saper stare al proprio posto ed essere quello che sei chiamato ad essere, servo del Signore, della Consolata e della Chiesa, non padrone. E fare il tuo dovere, semplicemente senza ansie o preoccupazioni di visibilità e riconoscimenti”.

Per quale motivo invitava missionari e missionarie a santificarsi?

“Il suo detto più famoso è ‘prima santi e poi missionari’. E’ semplicemente la logica del mettere l’essere prima del fare. Essere santi vuol dire essere profondamente radicati nel Signore. Senza di questo la missione rischia di diventare un mestiere come tanti, che si può fare anche senza lasciarsi coinvolgere più di tanto. La missione non è una professione da fare a ore, ma trova la sua radice fondante nell’essere ‘in-con-per’ Cristo, nell’imitarlo, nel diventare trasparenza di Lui. Allora essere santi è la base della missione, diventando tutto a tutti, amando come Gesù ha amato, andando con lui verso i più poveri, i più lontani, i più emarginati. Missione è amore, vissuto anzitutto nella propria vita e che diventa quindi un amore donato e condiviso da persone che, alimentate da questo Amore, diventano a loro volte fontane di acqua viva. E con più doni, con più ricevi”.