Pordenone , venerdì, 20. settembre, 2024 18:00 (ACI Stampa).
Nel parco, il parco Galvani, accanto alla sede del Paff, curioso e fascinoso museo del fumetto, proprio nel cuore di Pordenone, i ragazzi delle scuole arrivano ordinatamente, si siedono sotto il gazebo allestito in uno dei tanti punti diffusi di Pordenonelegge, rassegna su libri, autori, creatività e amore per la lettura tra i più importanti in Italia e di richiamo internazionale. Ora l’appuntamento è con Antonia Arslan, invitata per onorare e celebrare i vent’anni appena compiuti da un suo libro davvero importante, “La masseria delle allodole”, grande successo a livello mondiale, anche grazie alla trasposizione cinematografica dei fratelli Taviani.
Sì, questo romanzo che, oltre agli indiscussi meriti letterario, possiede quello – fondamentale- di aver squarciato il fitto velo di silenzio e di indifferenza sullo sterminio del popolo armeno agli inizi del Novecento, operato in Turchia, il primo genocidio del Novecento, ebbene questo romanzo che ha compiuto i suoi primi vent’anni si avvia a diventare un vero e proprio classico, mentre porta avanti, con coraggio e poesia, la sua missione di raccontare al mondo i tragici eventi subiti dal popolo armeno intrecciati con la storia di una famiglia, quella della scrittrice, appunto, una storia di dolore, coraggio, forza, di grande fede.
Un romanzo capace di suscitare una sorta di movimento, intorno a se, di stabilire contatti, amicizie, scoperte e riscoperte. L’autrice spiega al pubblico che ascolta in silenzio – ed è qualcosa che colpisce, trattandosi in gran parte di adolescenti – com’è nata la sua decisione di raccontare quella parte della storia di famiglia che per molto tempo è rimasta nell’oblio, nel silenzio, “ringrazio il Signore per aver potuto contribuire, con il mio romanzo, a far sì che questi orrori siano stati conosciuti da parte di molti”, tra incomprensioni, minacce, ostacoli di ogni genere, “ma io non ho mai mollato”. Sulle sue parole, poetiche ed evocatrici, aleggia l’ombra del Grande Male, come lo chiamano gli armeni, le anime di quel milione e mezzo di uomini, donne e bambini trascinati via della loro case, dalle università, dai negozi, dagli empori, e mandati a morire di fame, di stenti, di violenze, nel deserto siriano.
E il romanzo ha percorso tanta strada, quarantacinque edizioni, molte traduzioni, un film, moltissimi premi, riconoscimenti, e poi la possibilità di organizzare incontri, dibattiti, convegni. Si commuove, la scrittrice, parlando della sua famiglia, il nonno, lo zio, le zie, la madre… “Sono le mie donne armene, forti, coraggiose, tenaci nel tenere sempre teso il forte eppure sottile filo della memoria”, attraverso i cibi, la religiosità dei cristiani d’oriente, con i riti, le preghiere, le visite, in alcuni giorni dell’anno all’isola di San Lazzaro degli Armeni, a Venezia. Una memoria spezzata e poi ricomposta in tanti piccoli frammenti di ricordi, una parola, una luce, un sapore, una fotografia sbiadita, risorti a nuova vita, vividi e lucenti. E fra tutti la lenta voce narrante del nonno Yerwant, un sopravvissuto a cui il destino aveva destinato una vita diversa, a Padova, che parla con la piccola Antonia e solo a lei rivela il dolore che porta nell’anima.
Della tragedia degli armeni non si parlava, dunque, chi sapeva taceva o cercava di dimenticare, sotto la spinta di un preciso desiderio di occultamento dei fatti, nella complicità, nel silenzio delle potenze vincitrici della prima guerra mondiale, dopo il Trattato di Losanna del 1923. La Turchia dei Giovani Turchi non andava punita per quella orrenda strage, perché si temeva di spingerla verso posizioni estreme, mentre era più utile che si allineasse, per così dire, alla linea occidentale. E così, di lì a poco, l’astro nascente del nazismo poteva considerare l’ “operazione” di pulizia etnica contro gli armeni un “fonte di ispirazione” per quello che si poteva mettere in campo per sterminare gli ebrei.