“Esattamente per quello che dicevamo: Coubertin voleva rivolgersi alle giovani generazioni per formarle in base a principi di uguaglianza, pace e giustizia. Sapeva di dover andare nelle scuole per ottenere dei risultati, ma non in quelle pubbliche, ancora improntate a vecchi metodi in cui veniva privilegiata l’educazione del cogito a discapito della salute fisica, che è anche forza, coraggio patriottico, se non certezza di un futuro migliore con cittadini forti e liberi. Esattamente quello che Coubertin si augurava per i giovani francesi dopo aver conosciuto e apprezzato i metodi impartiti nei colleges inglesi dove si formavano i quadri dirigenti del futuro Impero britannico. Sarebbero tanti i discorsi da fare, ma fermiamoci all’attenzione che sia Coubertin che p. Didon ebbero per i metodi ‘sportivi’ degli allievi del college di rugby, per nominare quello che ci introduce meglio alla nascita dello sport moderno, anche se entrambi ne conobbero diversi.
Tutti e due erano stati nel Regno Unito e vi avevano conosciuto i giochi all’aperto utilizzati sia come divertimento che come mezzo di educazione e disciplina per gli iscritti nelle public schools. Coubertin cercava dunque a Parigi una scuola dove poter sperimentare quei metodi, e trova in p. Didon un amico che lo aiuterà in pieno per il suo sogno olimpico. P. Didon conosceva bene quelli dell’antichità, sia per i suoi studi classici, sia perché li aveva ‘praticati’ nel Seminario Minore di Rondeau, molto giovane e già campione negli sport atletici, che qui si rifacevano all’antica agonistica greca. Perchè i Giochi olimpici inventati da Coubertin sono famosi ma non i primi… Del resto già nel Campo di Marte, in piena Rivoluzione, se ne erano disputati nel 1796, esattamente un secolo prima dunque della cosiddetta prima edizione ufficiale ad Atene”.
Come inventò il motto olimpico?
“Per la verità non è stato p. Didon a inventare il motto olimpico, ma i suoi studenti. Era il 1891 e ad Arcueil si svolgevano per la prima volta gare sportive in una scuola francese, nell’Istituto dove Pierre de Coubertin si era recato a proporle trovando il suo rettore, p. Didon, entusiasta e collaborativo. Il primo step del progetto sarebbe stato la nascita di un’Associazione scolastica di sport atletici per organizzarle.
Il metodo pedagogico di p. Didon, improntato all’autodeterminazione per la formazione di cittadini ‘capaci e degni di libertà’, come riportava la brochure di promozione dei corsi all’Alberto Magno, è alla base del secondo step, che è quello di affidare ai ragazzi la completa organizzazione di tutto: elezione dei dirigenti dell’Associazione, definizione dei regolamenti di gara, inno societario e naturalmente il motto latino, da ricamare sul gonfalone dell’Istituto e sulle bandierine disseminate lungo il percorso delle gare. La prima gara è stata una corsa campestre all’inseguimento di ‘lepri’, gli stessi p. Didon e Coubertin, che lasciarono sul terreno come pista da seguire dei pezzetti di carta.
Un motto deve normalmente racchiudere in sintesi le caratteristiche di chi lo produce e questo motto, non possiamo negarlo, è geniale per il suo significato altamente simbolico (sappiamo che il latino ha queste prerogative di sintesi e chiarezza) con cui riesce a rappresentare gli scopi materiali dello sforzo atletico racchiudendone anche la sua essenza spirituale e morale”.
Ma come arrivano gli studenti dell’Istituto ‘Alberto Magno’ a centrare questi tre aggettivi?
“Ipotizzo che la traduzione in latino fosse un suggerimento di chi ben lo conosceva… e che comunque fosse logico che i ragazzi pensassero a un incitamento ad essere più veloci, più forti e a saltare più in alto (in un primo momento era questo l’ordine degli aggettivi, Citius, fortius, altius), anche se nelle intenzioni interpretative di p. Didon c’era dell’altro, un vero e proprio rispecchiarsi della teologia tomista, base della sua formazione di domenicano e dei suoi insegnamenti ad Arcueil. In questa ottica citius si sarebbe riferito alla Volontà e al suo muoversi velocemente e liberamente verso il Bene universale; altius avrebbe significato la Prudenza, il cui compito è elevare l’uomo all’altezza della sua dignità unitamente alla Sapienza; fortius avrebbe chiaramente rimandato alla Fortezza, la prima delle virtù morali dalle forti connotazioni patriottiche, perché reprime il Timore e modera l’Audacia.
Il famoso motto sarebbe così diventato una rappresentazione concreta della palestra di virtù che p. Didon voleva ‘allestire’ per i suoi ragazzi a fianco degli impianti sportivi, metafora di un mondo perseguibile, se pur a fatica, e comprensibile ai giovani. Quasi che il celebre motto fosse anche il simbolo dell’iniziazione cristiana dei giovani alla vita”.
Quindi per p. Didon l’attività fisica è una virtù?
“L’attività fisica per lui è una virtù ‘psico-morale’, come si trova a dire nel suo celebre discorso al II Congresso Olimpico di Le Havre nel 1897. Egli ha in mente l’intero corpus tomistico riguardo all’apprendimento delle virtù da parte di un buon cristiano, e a Le Havre inizia a esporlo a piccole dosi, sapendo che non tutti lo avrebbero capito e accettato. Non dimentichiamo al momento di forte secolarizzazione che si stava vivendo in Francia. Se leggiamo i suoi discorsi di fine anno ad Arcueil, quelli che faceva a conclusione del percorso formativo annuale rivolgendosi a studenti, genitori, autorità e a quelli che oggi chiameremmo stakeholders dell’Alberto Magno, testi che troviamo riuniti in una raccolta pubblicata nel 1898 (L’Education présente. Discours à la jeunesse), in essi i riferimenti a san Tommaso d’Aquino sono molteplici.
P. Didon stesso scrive di essersi ispirato alla sua teologia, soprattutto alla ‘Summa Theologiae’ ed alla ‘Summa contra Gentiles’. Da qui l’ipotesi di una interpretazione tomista del motto nella recente pubblicazione su p. Didon per i tipi di AVE, mi sembra che possa essere reale. Anche Norbert Müller, tra i maggiori storici dell’olimpismo, aveva fatto cenno a un’interpretazione spirituale del Motto, anche se poi il Comitato Olimpico Internazionale ha sempre preferito valorizzarne il significato materiale e ‘sportivo’”.
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Quali erano le finalità di p. Didon?
“Quelle di incitare i giovani a sviluppare la qualità più importante, la Volontà a resistere e a sforzarsi nelle difficoltà, non tanto per essere primi ma per «tirar fuori da sé il meglio che sia possibile». In questo suo programma gli sport atletici servivano a far penetrare nella gioventù «il culto intelligente della forza fisica, della lotta vigorosa, della resistenza fisica e di quella morale al male» come scrive nel primo dei suoi discorsi di fine anno, L’a culture de la Volonté’ (1890). Per lui la volontà è una ‘energia divina’, che ‘comanda e difende, stimola e rallenta, sostiene e contrasta a suo modo tutte le nostre azioni’. Egli sa che la volontà ha il compito di aiutare i giovani a raggiungere le altre virtù, così importanti per la loro formazione di persone fatte di corpo, anima e spirito, tutte componenti allenabili dunque attraverso l’esercizio fisico con tutte le sue potenzialità, anche quelle spirituali”.
Quale è l’attualità pedagogica dell’olimpismo di p. Didon?
“Sono molti i motivi di somiglianza tra la nostra epoca e quella di p. Didon. Si pensi all’irrompere della modernità (oggi di quella virtuale e artificiale), al progresso vertiginoso delle scienze (oggi delle neuroscienze), al processo di secolarizzazione sempre più accentuato, alla grande confusione in cui ci troviamo spesso a vivere con la difficoltà di distinguere il vero dal falso, una preoccupazione identica a quella di p. Didon che ne aveva parlato anche nell’udienza privata con papa Leone XIII, denunciando la gravità di mancanza di discernimento nei giovani.
In questo libro a più riprese si parla di una ipotizzabile attualità del pensiero di p. Didon, il quale ha sempre vissuto immerso nel suo tempo, ‘curioso di tutto’, come ci ricorda il suo massimo biografo, Yvon Tranvouez, anche se il suo metodo pedagogico andava ben al di là dell’olimpismo, inteso questo come un complesso di organismi, strutture, pensieri, tendenze che vanno nella direzione di una vera e propria filosofia di vita, dove l’eccellenza è il massimo degli scopi da raggiungere. Anche per gli antichi l’areté aveva rappresentato il top della vita, il dare il meglio di sé nella ricerca della perfezione, secondo il modello sotteso all’antica kalokagathìa di cui sono ricchi gli scritti di Platone, la ricerca di essere bello e buono, prestante fisicamente e coraggioso, un concetto che attraverso Aristotele sarebbe stato trasmesso a s. Tommaso d’Aquino. Un cerchio che si chiude dunque, dal pensiero pagano a quello cristiano, e in questo caso p. Didon ha saputo cogliere perfettamente il valore e l’essenza dell’antica agonistica e dello sport moderno.