Fu Pena Parra a decidere di rilevare l’intero immobile, di uscire dall’affare con Torzi e di superare la questione in maniera definitiva.
Mincione vuole che le testimonianze dimostrino la sua buona fede nel gestire l’investimento di Londra, la Segreteria di Stato insiste nella condotta fraudolente, ricorda che la denuncia a Londra è stata fatta solo due giorni dopo l’arresto in Vaticano di Gianluigi Torzi, che Mincione non si è mai presentato all’interrogatorio, e che le indagini del Promotore di Giustizia hanno portato al congelamento in Svizzera di alcuni beni di Mincione”.
Pena Parra ha reso testimonianza il 4,5 e 8 luglio. Le sue parole sono state coerenti sia con la testimonianza resa in Tribunale sia con il suo memoriale, una “nota ampia”, richiesta direttamente dal Papa, come ha spiegato agli avvocati di Mincione, che pure insistevano sulla parzialità del documento, cui aveva collaborato anche il consulente Luciano Capaldo per alcuni passaggi relativi al palazzo.
Cosa ha detto Pena Parra in Tribunale? Che la Segreteria di Stato si è trovata vittima di “bugie e cose ingannevoli” e che era “in trappola”, obbligati ad accettare le richieste di Torzi, che aveva tenuto per sé le uniche mille azioni con diritto di voto del fondo sull’immobile di Londra e che per uscire dal controllo delle quote aveva chiesto un compenso in denaro, quantificato poi in 15 milioni. Torzi è stato condannato in Vaticano per estorsione.
Pena Parra ha sottolineato che, a un certo momento, la decisione della Segreteria di Stato era quella di “uscire da questa situazione”, e che si era stati costretti a farlo “per essere finalmente liberi. Non avevamo altra scelta. Anche il Santo Padre mi ha detto di provare a perdere il minimo e girare pagina”.
Il sostituto, nell’udienza del 5 luglio, ha parlato di “lupi travestiti da agnelli” per descrivere i personaggi che giravano intorno al Vaticano. E anche il 5 luglio non si è mai parlato delle transazioni con Mincione.
Il passaggio della gestione delle quote dell’immobile di Londra al fondo GUTT di Torzi, che aveva detenuto il controllo dell’investimento con le sole 1000 azioni con diritto di voto, è stato definito da Pena Parra “una truffa”.
E no, il sostituto non avrebbe mai pagato i 15 milioni (fatturati come consulenza, in maniera se non falsa, perlomeno imprecisa), come non avrebbe mai pagato i 40 milioni dati a Mincione perché questi lasciasse il controllo delle quote del palazzo di Londra, mentre c’era un mutuo accesso sull’immobile di sei milioni l’anno. Tra l’altro, proprio per chiudere questo prestito e aprire una nuova più vantaggiosa linea di credito, la Segreteria di Stato si era rivolta allo IOR, che dapprima aveva accettato l’anticipo, poi lo aveva negato, denunciando la Segreteria di Stato e dando il via al corto circuito che ha portato al processo.
La trattativa per la “buonuscita” di Torzi è stata lunga e laboriosa, si è passati da una ipotesi di liquidazione a 1 o 2 milioni di euro, ad una di 9 milioni, fino alla richiesta di 25 milioni da parte di Torzi mediata da monsignor Mauro Carlino, al tempo segretario del Sostituto, che ottenne che al finanziere fossero pagati 15 milioni.
Pena Parra ha anche detto di aver sempre informato sia Papa Francesco che il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, delle sue azioni, anche di quando, con una iniziativa fuori da ogni “protocollo” decise di contattare il revisore generale, Alessandro Cassinis Righini, il sabato 24 novembre 2018 per un parere sui contratti stipulati per la proprietà londinese e in particolare il framework agreement che definiva il passaggio dal fondo Gof (di Mincione) al Gutt (di Torzi).
Cassinis Righini rispose al sostituto lunedì 26 novembre con una lettera. Il Papa e Parolin erano informati di questa decisione di interpellare “persone competenti”, ma non è stata poi inviata loro la risposta di Cassinis: “No – ha spiegato monsignor Peña Parra - perché era qualcosa indirizzata a me, non a loro. Ero l’unico coinvolto, io sono il sostituto. Ed ero solo in questa operazione…”
Pena Parra ha anche detto di non aver mai ricevuto il secondo documento del Revisore Generale, i cui si sconsigliava di andare avanti con l’operazione.
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Pena Parra chiese anche consulenza a Nicola Squillace, che gli era stato presentato come avvocato della Segreteria di Stato, e ci volle almeno un mese prima che ci si rendesse conto che Torzi aveva tenuto per sé le uniche mille azioni con diritto di voto, mentre Squillace aveva affermato che “le mille azioni servivano solo a dare a Gutt la possibilità di entrare nell’amministrazione del palazzo”.
Solo a quel punto, Pena Parra ratificò la firma di Perlasca, che – come capo dell’amministrazione – andò a Londra a firmare l’accordo del passaggio della gestione tra Mincione e Torzi e che firmò di fatto, senza autorizzazione del superiore.
Per quanto riguarda la richiesta di finanziamento allo IOR, Pena Parra ha ribadito che serviva ad evitare alla Santa Sede di continuare a perdere un milione al mese.
Pena Parra ha ricordato la sorpresa del ritardo nella concessione del prestito che era stato deliberato, e poi l’arrivo della denuncia dello IOR.
A Peña Parra è stato domandato se fosse vero che, dopo il rifiuto, si fosse rivolto a gente vicina ai Servizi Segreti italiani per mettere sotto controllo il direttore dello IOR, anche con intercettazioni telefoniche. Il telefono non c’entrava niente, ha chiarito il teste: “Ho chiesto al capo della Gendarmeria di avere una mappa chiara di tutte le società e compagnie impegnate con noi durante quel periodo. Volevo prevenire in futuro di avere a che fare con gente simile”.
L’8 luglio, l’interrogatorio è stato più teso. Pena Parra, ha ribadito che la Santa Sede è stata vittima di “grave frode”, mentre l’avvocato di Mincione ha elencato 20 proposizioni contrarie alle posizioni della Santa Sede, che Peña Parra ha negato con decisione. Tra queste, quella che il sostituto avrebbe dato informazioni parziali e incoerenti al Papa in una nota informativa in cui si accennava, tra l’atro, all’affaire Londra.