In questo senso, si deve guardare al contesto in cui avveniva il Concilio Vaticano I e si sentiva l’esigenza di proclamare il dogma dell’infallibiltà – che non riguarda la persona, ma l’oggetto, perché non può essere infallibile ciò che si distacca dalla dottrina cristiana – proprio perché la stessa autorità della Chiesa era possa in questione.
Il Cardinale Koch in conferenza stampa spiega che “abbiamo già una autentica interpretazione del Concilio Vaticano I nel Vaticano II, dove il bilanciamento tra quanto detto nel Vaticano I è nel tema della collegialità”.
Per quanto riguarda il primato, Koch spiega che “il capo della Chiesa è Gesù Cristo. Noi dobbiamo pronunciare questo primato di Cristo. Il primato nella Chiesa è un’altra cosa, e riguarda come possiamo testimoniare questo cristocentrismo. Ma il capo unico della Chiesa è Gesù Cristo”.
Un passaggio è particolarmente significativo. “Dal punto di vista ecclesiologico – si legge - il gallicanesimo ha fatto rivivere il concetto di conciliarismo ponendo l’accento sull’autonomia delle Chiese nazionali. Dal punto di vista politico, la Chiesa fu sfidata dal regalismo (un maggiore controllo statale sulla Chiesa) e dalla crescente influenza di un liberalismo anticlericale”.
E ancora, “sul piano intellettuale, il razionalismo e gli sviluppi scientifici moderni sollevavano interrogativi sulle formulazioni tradizionali della fede”.
Per questo, “in reazione a queste sfide e per contrastarle, il movimento ultramontano promosse la leadership del Papa e la creazione di una Chiesa più centralizzata, modellata sui regimi politici di sovranità contemporanei”, e così “la maggioranza dei vescovi vedeva in un papato rafforzato una protezione per la libertà della Chiesa e, più in generale, una forza di unità di fronte al mondo moderno”.
Ma l’autorità del vescovo allora? “Storicamente – si legge nel documento - la ‘Risposta dei vescovi tedeschi al dispaccio circolare di Bismarck’ del 1875 è di importanza cruciale, perché fu accolta da Pio IX, il Papa che convocò il Concilio, come sua interpretazione autentica”. Lì si legge che “ il primato giurisdizionale del Papa non riduce l’autorità ordinaria dei vescovi, perché l’episcopato si basa ‘sulla stessa istituzione divina’ dell’ufficio papale”. Mentre, riguardo l’infallibilità, questa copre “esattamente lo stesso ambito del magistero infallibile della Chiesa in generale ed è vincolata al contenuto della Sacra Scrittura e della tradizione e alle decisioni dottrinali già adottate dal magistero”.
C’è comunque una convergenza in tutti i dialoghi ecumenici, e cioè sul fatto che il dogma serve perché c’è bisogno di una autorità personale di insegnamento, poiché l’unità della Chiesa è un’unità nella verità.
Verso una Chiesa riunificata?
Come allora camminare verso la riunificazione del mondo cristiano? Si parla di guardare all’idea di “primato d’onore nella Chiesa universale” esercitato nel primo millennio dal vescovo di Rome e poi nella Chiesa ortodossa nel suo complesso dal Patriarca di Constantinopoli – incredibile a dirsi oggi, ma questa spiegazione si trova nel documento “Posizione del Patriarcato di Mosca sul problema del primato nella Chiesa universale” (2013), che esprimeva disaccordo con l’ultima parte del Documento di Ravenna”.
Pragmaticamente, si nota anche “sul crescente senso della necessità di un ministero dell’unità a livello universale”, poiché “in un mondo sempre più globalizzato, molte comunità cristiane, che hanno a lungo privilegiato la dimensione locale, sentono sempre più la necessità di un’espressione visibile della comunione a livello mondiale”.
E, sempre guardando al concreto, c’è il precedente dei canoni di Sardica, i quali “stabilivano che un vescovo condannato poteva appellarsi al Vescovo di Roma e che quest’ultimo, se lo riteneva opportuno, poteva ordinare un nuovo processo, che doveva essere condotto dai vescovi di una provincia vicina a quella del vescovo appellante”.
Sinodalità, collegialità
Nel documento licenziato oggi, si parla molto di sinodalità come una possibile via d’uscita dall’empasse del dialogo ecumenico. “Il termine sinodalità – si legge - può essere usato in modo più ampio per designare la partecipazione attiva alla vita ecclesiale di tutti i fedeli sulla base del loro battesimo. È in questo “senso più ampio che si riferisce a tutti i membri della Chiesa” che il concetto viene utilizzato dal dialogo internazionale ortodosso-cattolico”.
Secondo il documento, “la riflessione ecumenica ha contribuito a meglio evidenziare che il ministero del Vescovo di Roma non può essere inteso in modo isolato da una prospettiva ecclesiologica più ampia. Nel considerare il primato, molti dialoghi teologici hanno notato che queste tre dimensioni – comunitaria, collegiale e personale – sono operative a ogni livello della Chiesa”.
Le Chiese orientali cattoliche e la sussidiarietà
Interessante notare che le Chiese ortodosse “non riconoscono l’attuale rapporto delle Chiese orientali cattoliche con Roma come un modello di futura comunione”, e questo perché alla fine temono “di essere assorbite e di perdere il potere di autogoverno”, come succede alle Chiese orientali, che mantengono la loro identità orientale e la loro autonomia all’interno delle strutture sinodali, ma che sono comunque in piena comunione con Roma. Ne consegue che non può esistere un ecumenismo in cui c’è un riconoscimento del primato tale che il Papa viene considerato come il primo, ma più probabilmente che nell’idea di unità ci sia quella di un Papa come guida di una sinassi di patriarchi alla pari con lui.
Si parla, in effetti, di sussidiarietà, che “è spesso citata nei dialoghi ecumenici come un principio importante per l’esercizio del primato”.
Il primo Millennio
Il primo millennio della storia della Chiesa, dove c’era ancora una Chiesa indivisa, è un punto di riferimento e una “fonte di ispirazione per l’esercizio accettabile di un ministero di unità a livello universale”. Le caratteristiche da seguire sarebbero, si legge nel documento: il carattere informale e non primariamente giurisdizionale – delle espressioni di comunione tra le Chiese; il “primato d’onore” del Vescovo di Roma; l’interdipendenza tra la dimensione primaziale e quella sinodale della Chiesa, come illustrato dal Canone Apostolico 34; il diritto di appello come espressione di comunione (Canoni di 109 Sardica); il carattere paradigmatico dei concili ecumenici; e la diversità dei modelli ecclesiali.
Quali proposte concrete?
La parte finale del documento fa alcune proposte pratiche. La prima riguarda il Concilio Vaticano I, da ricomprendere o i cui insegnamenti vanno persino riformulati, perché “sono stati profondamente condizionati dal loro contesto storico e suggeriscono che la Chiesa cattolica dovrebbe cercare nuove espressioni e vocaboli fedeli all’intenzione originale, ma integrati in un’ecclesiologia di comunione e adattati all’attuale contesto culturale ed ecumenico”.
Il secondo suggerimento riguarda distinguere le diverse responsabilità del vescovo di Roma, “in particolare tra il suo ministero patriarcale nella Chiesa d’Occidente e il suo ministero primaziale di unità nella comunione delle Chiese, sia d’Occidente che d’Oriente, eventualmente estendendo questa idea per considerare come le altre Chiese occidentali potrebbero relazionarsi al Vescovo di Roma come primate pur avendo esse stesse una certa autonomia”.
È considerato anche necessario “distinguere il ruolo patriarcale e primaziale del Vescovo di Roma dalla sua funzione politica di capo di Stato”, mentre “un maggiore accento sull’esercizio del ministero del Papa nella sua Chiesa particolare, la diocesi di Roma, evidenzierebbe il ministero episcopale che condivide con i suoi fratelli vescovi e rinnoverebbe l’immagine del papato”.
La terza proposta è quella di sviluppare la sinodalità all’interno della Chiesa Cattolica, in particolare con una “ulteriore riflessione sull’autorità delle conferenze episcopali cattoliche nazionali e regionali, sul loro rapporto con il Sinodo dei vescovi e con la Curia romana”, e, più in generale, “un migliore coinvolgimento di tutto il Popolo di Dio nei processi sinodali”, in quello che viene chiamato lo spirito dello “scambio di doni”.
Infine, si deve promuovere la cosiddetta “comunione conciliare”, attraverso “incontri regolari tra i leader delle Chiese a livello mondiale, per rendere visibile e approfondire la comunione che già condividono. Nello stesso spirito, molti dialoghi hanno proposto diverse iniziative per promuovere la sinodalità tra le Chiese, soprattutto a livello di vescovi e primati, attraverso consultazioni regolari e azioni e testimonianze comuni”.
Un modello è l’incontro dei leader delle Chiese a Bari nel 2018 per riflettere e confrontarsi in modo informale sulla situazione dei cristiani in Medioriente, definito “un nuovo modo di esercitare la sinodalità e il primato”. E la preparazione del 1700esimo anniversario del Concilio Ecumenico di Nicea potrebbe essere una occasione.