Roma , venerdì, 7. giugno, 2024 18:00 (ACI Stampa).
All’uomo che alza spesso lo sguardo verso il cielo nasce nel cuore una vertigine, un senso di spaesamento e insieme di slancio senza fine, tra pace e terrore, fino a confrontarsi con le fatali domande: chi sono, dove vado, perché vivo come vivo…Domande in realtà ineludibili e che si rinnovano sia nel corso della singola esistenza, sia nel corso dei secoli, dei millenni, della storia universale. Risuona nella ipnotica domanda di Leopardi rivolta alla luna, quando chiede che fa lassù freddo astro che guarda impassibile le vite faticose e sofferenti degli uomini…E risuona con il suo scalpiccio da incubo nei versi pascoliani in cui la morte irrompe nella scena umana come un cavallo imbizzarrito che corre a rotta di collo pronto a piombare addosso e a travolgere tutto e tutti.
Proprio Giovanni Pascoli è stato a lungo relegato nel limbo dei poeti che cantano i facili e spesso lacrimosi sentimenti, ma già D’Annunzio lo considerava il maggiore dopo Petrarca, un uomo di sterminata cultura, di rigore morale e passione civile. In realtà molti critici e studiosi, soprattutto negli ultimi decenni di lavoro sulla sua produzione e sui documenti, spesso inediti, che descrivono la sua vita quotidiana, ne hanno ridelineato il profilo letterario tratteggiando i molti legami e le infinite suggestioni che si aprono nella sua poesia con le avanguardie più significative nate in tutta Europa tra Ottocento e Novecento, a cominciare dal simbolismo. Una poesia, dunque, moderna, metafisica, inquieta e capace di generare anche una certa inquietudine, aperta al Mistero e alla dimensione spirituale.
Ora è uscito, per i tipi della Ares, un saggio di Bruno Nacci che si ripropone di avvicinare Pascoli ad un pubblico più vasto, non di specialisti, di studiosi, bensì di coloro che magari lo hanno letto ai tempi della scuola e poi lo hanno relegato nel dimenticatoio o lo hanno facilmente etichettato come appunto un poeta da filastrocca, perso nelle nebbie di un passato remoto. Poeta inattuale e scolastico. Sì, scolastica, e qui appare il tempo di quando a scuola si leggevano e imparavano a memoria le poesie. Non si può non riconoscere una carica sentimentale che le poesie più note di Pascoli suscitano in tanti lettori, perché appunto legato ai tempi felici della scuola… Si potrebbe qui osservare, per inciso, che pure questa dimensione non è da disprezzare, se cioè alcuni versi siano capaci di far tornare, per qualche momento, alla luce fulgida di quei tempi felici. Il senso della poesia, in fondo, è anche quello evocativo e il suo ricreare, in qualche modo, il linguaggio magico che i bambini riconoscono, spesso, a colpo sicuro. Nacci tratteggia la parabola esistenziale e artistica, le difficoltà, da parte dei critici, di riconoscere pienamente la sua grandezza, non dimenticando la sua grande fama di poeta latino e quella, più contrastata, di critico dantesco. Nella seconda parte del libro si presenta una breve antologia di liriche, interpretate con misura ed eleganza, che introduce al vasto laboratorio dello stile e del pensiero pascoliani.
E anche in questo ambito l’autore riesce nell’intento di mostrare quanto questa poesia non possa essere ridotta a facili schemi, a temi-chiave universalmente noti. Non a caso il titolo del saggio recita: dal nido al cosmo. Il tema, appunto, del nido, o meglio della ricostruzione del nido familiare distrutto dalle disgrazie e dai lutti, non è certo messo in ombra, ma in relazione con il cosmo, l’universo; dunque lo sguardo pascoliano passa dal piccolo, dal recinto intimo della famiglia, all’immensità del cosmo, senza limiti, oltrepassando il tempo e lo spazio.
In particolare, Nacci fa rilevare la bellezza della lirica in latino, sottolineando come Pascoli non piega la lingua latina alla modernità, ma davvero scrivendo come avrebbero scritto Orazio, Viriglio, Catullo e molti altri. In effetti la capacità di esprimersi in latino ha fatto guadagnare al poeta molti premi e riconoscimenti, dunque la sua grandezza è subito apparsa in modo incontestabile. Oggi se ne studia e legge molto poco ed è un peccato perché sarebbe un’esperienza esteticamente e non solo impagabile. Suggeriamo la lettura di L’etera, una lirica che ci immerge nel mondo ultramondano in cui gli antichi romani credevano dovesse vagare l’anima ormai disgiunta dal corpo. Rimane incisa nella memoria l’immagine dell’anima smarrita dell’etera (donna di facili costumi) inseguita dalla torma delle piccole anime piangenti dei bambini che la donna non ha mai fatto nascere.