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Dialogo ebraico cristiano e speranze di pace per la Terra Santa

Il professor Brunetto Salvarani commenta il messaggio per la giornata di oggi del dialogo

Rotolo della Scrittura |  | pd
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Brunetto Salvarani e Papa Francesco |  | Brunetto Salvarani
Brunetto Salvarani e Papa Francesco | Brunetto Salvarani

“La situazione descritta dal profeta appare disperata. Le ‘ossa inaridite’ richiamano l’immagine della sconfitta dopo la battaglia; la ‘speranza svanita’ dice la sfiducia nel futuro e la paura. Su tutto domina un senso di morte e di pessimismo. Trionfano le ‘passioni tristi’: impotenza, delusione, inutilità, paura… Rimestiamo in questo pessimismo e viviamo da vittime impotenti. Lo stesso pessimismo, a volte unito a rabbia e rassegnazione, aleggia anche nella nostra società, spesso ripiegata sul presente, aggrappata al presente, incapace di fiducia nel futuro”.

Così inizia il messaggio della Commissione Episcopale per l’Ecumenismo ed il Dialogo, intitolato ‘Oltre le passioni tristi. Credenti che contagiano speranza’, in occasione della 35ª Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, che si svolge mercoledì 17 gennaio, prendendo spunto dalle parole che Dio rivolge al profeta Ezechiele: ‘Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?’.

Per approfondire l’importanza del messaggio abbiamo chiesto al prof. Brunetto Salvarani, docente di ‘Teologia della Missione e del Dialogo’ alla Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna e direttore cofondatore della rivista trimestrale ‘QOL’, (su temi della ricerca biblica, dell’ecumenismo e del dialogo ebraico-cristiano), di spiegarci in quale modo è possibile andare ‘oltre le passioni tristi’:

“Non è facile. Oggi lo spazio per la speranza, non solo virtù teologale ma anche sentimento indispensabile ad ogni esistenza, è assai esiguo: eppure, se si smarrisce la speranza nel futuro, ad andarci di mezzo è ciò che ancora resta di umano in noi. Non ci sono ricette, l’unica strada che io conosca è quella tracciata da Gesù nei vangeli, la ‘teshuvà’, la conversione del cuore: cambiare sguardo sulla realtà, e agire di conseguenza”.

Come i credenti possono contagiare il mondo di speranza?

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“La speranza non consiste semplicemente nel tentare di autoconvincerci che domani tutto andrà meglio, come illusoriamente ci siamo ripetuti, ingenuamente, durante la pandemia globale. Del futuro, infatti, non sappiamo nulla! In ogni caso, i credenti possono favorire la diffusione della speranza agendo responsabilmente da credenti, appunto: aprendosi, senza paura e senza nostalgie, al dialogo e al confronto con gli altri. Ad Abu Dhabi, nel 2019, papa Francesco ha parlato del coraggio dell’alterità: ecco ciò di cui avremmo bisogno!

E’ possibile rigenerare passioni felici?

“Oggi, probabilmente, siamo finalmente maturi per una ‘speranza a caro prezzo’. Il nostro primo dovere di sentinelle è guardare la notte così come si presenta: penso al celebre oracolo del profeta Isaia (21, 11-12): ‘Sentinella, quanto resta della notte?/ La sentinella risponde: Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!’. Solo a partire da questo sguardo sarà possibile, mi auguro, rigenerare passioni felici: un cammino lungo, temo, ma la cosa non dovrebbe scoraggiarci!

In prospettiva cristiana, poi, dobbiamo educarci a sperare in chiave collettiva e comunitaria: troppo spesso concepiamo la speranza in modo individualistico, come se riguardasse solo la nostra salvezza personale. Ma la speranza cristiana conduce alle grandi azioni di Dio legate alla creazione tutta, al destino dell’umanità intera. E’ la salvezza del mondo quella che aspettiamo. Ha ragione il teologo von Balthasar: il cristiano non può che sperare per tutti!”

In quale modo generare speranza in Terra Santa?

“Beh, non sembri una battuta, cominciando a smettere di chiamarla ‘Terra Santa’! So che sarà impossibile, ma mi spiego: continuare a usare categorie religiose per indicare dei territori non ci aiuta, non favorisce l’obiettivo della pace… Semmai, meglio ‘Terra di santità’ o ‘Terra del Santo’, con l’intento di sottolineare che la destinazione di quella terra è di costruire santità. Lo sostiene Dio stesso: ‘Sarete santi perché io sono santo’ (Lv. 19,2; cfr. 1Pt 1,15). La terra non è di per sé santa, il problema semmai è come perseguire la santità. Si legga Lv 25,23, dove è Dio a parlare: ‘La terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini’.

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Così, chi vuole vivere in quella terra deve sapere che è ospite e comportarsi da ospite, non da padrone. Detto ciò, la speranza è la corda che ci lega indissolubilmente a ciò che siamo stati e a ciò che saremo, anche se noi non potremo esserlo. E’ l’altrove su cui poggia il nostro essere qui nel nostro oggi ed è, al contempo, ciò che ci tiene uniti l’uno all’altro perché ci consente di radunarci e di fondarci come comunità, come popolo, alla fine come umanità. Come fratelli (e sorelle) tutti, secondo l’invito di papa Francesco. Anche nella (cosiddetta) Terra Santa”.

‘Come credenti desideriamo collaborare con tutti coloro che, seguendo le ‘aspirazioni più segrete’, contribuiscono a far nascere un mondo nuovo. Come credenti desideriamo offrire il nostro servizio a tutti per far sbocciare il Regno, rigenerando speranza, fiducia e coraggio’: quale peso ha il dialogo ebraico-cristiano per la pace?

“Potenzialmente, enorme: soprattutto se venisse praticato, studiato e vissuto come dovrebbe essere, e come il cardinal Martini nel suo lungo magistero ha invitato continuamente  a fare; ma come, in realtà, non è. O è ancora troppo poco, troppo timidamente. A quasi sessant’anni dalla svolta della dichiarazione ‘Nostra aetate’ (1965), ci si potrebbe stupire constatando quanto ancora poco sia penetrata, nel tessuto delle comunità cristiane, la dimensione del dialogo con gli ebrei cui quel testo, al paragrafo 4, esorta caldamente.

Forse il motivo principale è che la ‘provocazione’ di Israele alla Chiesa riguarda solo apparentemente un aspetto specifico della Chiesa stessa, i suoi rapporti con l’ebraismo. Se si scava in profondità, infatti, ci si accorge che essa in realtà mette in discussione tutto un modo di essere Chiesa, la sua autocomprensione e persino la sua dimensione missionaria. E’ necessario investire affinché il dialogo cristiano-ebraico non resti un impegno solo dei vertici, o di alcuni gruppi e movimenti sensibilizzati, ma si faccia finalmente parte della coscienza ecclesiale di base”.