Essere una rivista libera, in grado di fare informazione senza ideologie e senza dover per forza compiacere il main stream media significa che c’è speranza. Tra l’altro mi piace ricordare che 2000 anni fa è stata una buona notizia a cambiare il mondo. A trasmetterla sono state prima alcune donne e poi i dodici apostoli, persone qualunque… non i main stream media!”
Quale informazione offre la rivista?
“Informazione sulle tematiche della vita in generale, da diversi profili, sui temi di bioetica, sui movimenti per la vita e le loro attività in Italia, in Europa e all’estero, sugli eventi e le attività del MpV Italiano… Insomma è una rivista a respiro internazionale ‘che guarda alle vicende del mondo con la prospettiva del diritto a nascere’, come scriveva Carlo Casini”.
Per quale motivo ‘ciò che non si comunica non esiste’?
“Parto proprio dall’inizio… Quando un bambino/a viene concepito, già nei sui primi secondi di esistenza comincia immediatamente a comunicare, ‘chimicamente’, alla mamma per avvertirla che è lui/lei, che esiste. Se non lo facesse, avendo un DNA diverso da quello della mamma (e del papà), la mamma automaticamente, pur non sapendo nemmeno di essere incinta, lo espellerebbe.
Grazie a quella comunicazione iniziale, che continuerà durante il tempo della gravidanza e poi tutta la vita, noi viviamo. Quindi comunicare è questione di vita o di morte per ogni essere umano. Comunicare ci fa entrare in relazione. Si è arrivati all’aborto tanto da volerlo chiamare ‘diritto’ solo perché si è tolta al bambino concepito e alla donna madre la possibilità di comunicare chi sono. Una madre può abortire suo figlio perché non sa che è suo figlio, che è una persona e che cos’è l’aborto, oppure perché le è stato inculcato che abortire è ‘un bene’… esattamente l’opposto. Lo stesso vale per il MpV e per i Centri di Aiuto alla Vita che sono spesso fuori dalla comunicazione e quindi pochi sanno che esistono”.
In occasione dei 45 anni della rivista è istituito il ‘Premio Giornalistico Pirovano-Liverani’ in onore di Piero Pirovano e Piergiorgio Liverani, direttori della rivista. Perché un premio giornalistico intitolato a questi due giornalisti?
“Piero Pirovano e Pier Giorgio Liverani sono stati entrambi direttori della rivista ed entrambi sono scomparsi un anno fa. Pirovano è stato il primo direttore, Pier Giorgio Liverani il terzo, ma quello che più ha dato un impronta alla rivista. Entrambi erano di Avvenire, giornalista il primo, direttore il secondo. Entrambi sono stati importanti per la rivista ‘Sì alla Vita’ e per il Movimento per la Vita italiano; per questo ci è sembrato giusto da un lato dare loro un riconoscimento, dall’altro farli conoscere. Un premio giornalistico intitolato a due giornalisti che hanno impostato la loro professione sulla cultura della vita, sulla correttezza, sulla passione sono una testimonianza che si può fare buon giornalismo portando avanti l’informazione sui temi della vita e sui temi bioetici, anche andando controcorrente. Insomma insieme a loro desideriamo premiare coloro che vivono il giornalismo come una missione e come un atto creativo”.
In quale modo è possibile stare da credenti dalla parte della vita?
Se si è credenti si è automaticamente dalla parte della vita, è un qualcosa di naturale. Non può essere diversamente. Non c’è un altro modo di essere credenti. Quindi dalla parte della vita si sta amando gli altri, anche quando sono nemici, perché si è amati da Dio Padre della Vita. Un credente sa che amare l’altro, anche quando ci è caro, è impossibile, ma sa anche che nulla è impossibile a Dio, perché ne ha fatto esperienza.
Allora si può amare un bambino ‘inaspettato’, non programmato, non voluto, un bambino che avrà delle malformazioni, un bambino che non ha aspettative di vita, un bambino per il quale non c’è più posto, un bambino che è un nemico… ed a questo bambino concepito ‘per sbaglio’ si può fare spazio perché anche lui è una persona e ha diritto alla vita. Allora si potrà amare nella verità una donna che pensa di abortire e anche una donna che ha abortito. E così via. Amore nella verità che rende capaci di prendere su di se le conseguenze del male, anche quello fatto da altri. L’aborto, l’eutanasia fanno male. Di fronte a questo male stare dalla parte della vita significa aprire alla vita ciò che era messo nella morte”.
Lo scorso 13 novembre ad Indi Gregory hanno staccato i supporti vitali: fino a quando garantire il diritto alla cura?
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“Finché non c’è accanimento terapeutico o ostinazione terapeutica. La valutazione andrebbe fatta caso per caso. Il diritto alla cura deve essere garantito ad ogni persona, senza discriminazioni. Eutanasia e accanimento terapeutico sono entrambi frutto della paura della morte e della sofferenza. Per esorcizzare la paura si uccidono le persone o le si fanno vivere ‘per sempre’. Indi ed altri bambini come lei sono morti in un modo che ha turbato, perché non è stata data la possibilità ai genitori di avere una legittima seconda opinione ed eventualmente di cambiare equipe medica.
L’Ospedale ‘Bambin Gesù’ di Roma, uno dei migliori ospedali pediatrici al mondo, aveva prospettato un modo diverso di assistere la bambina nel breve periodo che le restava da vivere. Non era stata messa in discussione la diagnosi dei medici inglesi e non era stata prospettata una fantomatica terapia salvavita. L’opzione di scegliere dove curare il proprio figlio o dove curarsi dovrebbe essere libera. Tanto più nel tempo dell’autodeterminazione. Mi chiedo perché i sostenitori delle campagne eutanasiche, tanto solerti ad accompagnare per far morire, in nome dell’autodeterminazione a tutti i costi, non si sono levati a difendere Indi, i suoi genitori ed i casi come quello”.