Parlando della guerra in corso in Ucraina da quasi due anni, l’arcivescovo Gallagher si dice “profondamente preoccupato”, perché ci si trova in “una fase di stallo mentre continuano ad esserci vittime da entrambe le parti. Noi restiamo disponibili a favorire una mediazione. Ciò che possiamo fare è aiutare sul piano umanitario. Continuiamo a usare i nostri buoni uffici per lo scambio di prigionieri e cercare di favorire il progetto di rimpatrio dei bambini ucraini. Dobbiamo ammettere che i risultati di questi sforzi sono modesti. Però continuiamo a lavorare”.
Gallagher ha anche aggiunto che il Papa rimane “molto disponibile ad andare sia in Ucraina che in Russia”, ma questo non si pensa sia immediato, sebbene “dipenda anche dalle parti in conflitto”. Gallagher è comunque ottimista e sottolinea che “una visita del Papa sarebbe gradita ad entrambi”.
Il ministro vaticano per i Rapporti con gli Stati ha evidenziato anche la “profonda crisi dell’Onu e degli organismi multilaterali. Molte agenzie Onu offrono un contributo importante nelle zone di guerra ma a livello politico e diplomatico la crisi è profonda. Serve una riforma, di cui si parla da anni, in particolare del Consiglio di sicurezza, e ora c’è maggiore convinzione. Forse si tratta di rafforzare il ruolo dell’Assemblea generale, di ampliare i membri non permanenti del Consiglio, e magari di cambiarne le regole. La Santa Sede ritiene che questi organismi debbano occuparsi molto di più di questioni centrali che interessano davvero l’umanità”.
Due donne uccise da cecchini a Gaza, la dichiarazione dell’esercito israeliani
Il 17 dicembre, due donne sono state uccise da cecchini dell’esercito israeliano a Gaza nell’area della Chiesa Latina di Shejaya. L’accadimento ha creato sgomento in tutto il mondo, una reazione dei patriarchi di Terrasanta che hanno chiesto di risparmiare gli edifici religiosi, la reprimenda del Papa. L’esercito israeliano ha prontamente aperto una inchiesta interna.
In un comunicato stampa diffuso il 19 dicembre, l’Israeli Defense Force ha detto di aver terminato una inchiesta iniziale sull’incidente. Ha notato che il 17 dicembre, nel primo pomeriggio, i terroristi di Hamas hanno lanciato razzi-granata verso l’esercito israeliano che si trovavano nelle vicinanze della Chiesa, e le truppe hanno poi “identificato tre persone nelle vicinanze che operavano come osservatori per Hamas guidando i loro attacchi in direzione delle truppe”.
In risposta – si legge ancora nella dichiarazione – “le nostre truppe hanno sparato verso gli osservatori e i bersagli sono stati identificati”. Ma “mentre questo incidente ha avuto luogo nell’aread dove le due donne sono state uccise, i rapporti ricevuti non corrispondono alle conclusioni della nostra indagine iniziale che ha riscontrato che le truppe dell’IDF stavano bersagliando osservatori nella zona del nemico”.
L’Esercito sta “continuando l’esame dell’incidente”, perché “l’IDF prende molto seriamente le lamentele di attacchi su siti sensibili, specialmente le chiese che sono luoghi santi per la fede cristiana”. Inoltre, l’Esercito rimarca che le sue operazioni “sono dirette contro i terroristi di Hamas e non contro civili di qualunque affiliazione religiosa”, e che sono prese “molte misure per mitigare il danno ai civili nella striscia di Gaza”, in contrasto con l’operato di Hamas che “fa tutto ciò che è in suo potere per mettere in pericolo i civili e sfruttarli, così come succede con edifici religiosi, come scudi umani per le proprie attività terroriste”.
FOCUS GOLFO
Iran – Santa Sede, proseguono i contatti
Continuano i contatti Iran – Santa Sede. L’arcivescovo Paul Richard Gallagher, ministro vaticano per i Rapporti con gli Stati, aveva incontrato il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir Abdollahian a margine dell’apertura dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di settembre, e Papa Francesco aveva avuto una conversazione telefonica con il presidente dell’Iran al Raisi. Il 18 dicembre, a margine del Forum Globale dei Rifugiati, il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, ha incontrato il ministro degli Esteri iraniano.
Secondo l’agenzia iraniana Fars, il ministro Abdollahian ha detto che “l'Iran non è interessato ad espandere la portata della guerra nella regione; ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza è un genocidio e il mondo non lo considera tollerabile. Il Vaticano può svolgere un ruolo efficace nel porre fine al genocidio in Palestina".
Abdollahian ha anche descritto Hamas come un movimento di liberazione che combatte l’occupazione, sottolineando che “ciò che sta accadendo a Gaza è un genocidio e il mondo non lo può sopportare”.
Comunque, ha detto il ministro, l’Iran non vuole espandere la portata della guerra nella regione, ha affermato che Teheran si sforza per fermare gli attacchi di Israele contro “il popolo palestinese indifeso a Gaza e Cisgiordania”, e ha descritto l’iniziativa politica registrata dall’Iran alle Nazioni Unite come “una soluzione democratica che potrebbe porre fine alla crisi palestinese” con un referendum con il quale fondare uno Stato indipendente.
Il ministro si è detto soddisfatto per l’incontro con la delegazione vaticana, e ha fatto anche riferimento alla conversazione telefonica tra Papa Francesco e al Raisi. Secondo Abdollahian, Santa Sede Iran hanno un dialogo fruttuoso in molti campi, in particolare su questioni religiose e scientifiche.
Santa Sede e Teheran sono alla vigilia del settantesimo delle relazioni diplomatiche, e c’è un invito aperto all’arcivescovo Gallagher perché questi sia a Teheran per le celebrazioni.
Da parte sua, il Cardinale Parolin ha espresso preoccupazione per la situazione in Palestina, ha affermato che la Santa Sede sostiene sin dall’inizio l’instaurazione di un cessate il fuoco, ha ribadito che Papa Francesco ha più volte sottolineato la necessità di fermare la guerra e aprire corridoi umanitari per Gaza. Secondo il capo della diplomazia vaticana, “la soluzione politica è l’unica soluzione alla crisi palestinese e occorre compiere sforzi per trovare una soluzione politica”.
L'ambasciatore di Iran presso la Santa Sede presenta le credenziali
Sarà cruciale il ruolo del nuovo ambasciatore di Iran presso la Santa Sede. Mohammad Hossein Mokhtari ha presentato a Papa Francesco le sue lettere credenziali il 22 dicembre. Classe 1965, con un dottorato in Filosofia a Durham e un dottorato in scienze religiose e giuridiche a Qom, istituto che ha un rapporto da lungo tempo con la Santa Sede che portò anche alla pubblicazione del catechismo in Farsi.
Ha ricoperto i seguenti incarichi: Membro del Comitato scientifico dell’Istituto di studio e ricerca Imam Khomeini (dal 2008); Direttore dell’Istituto di Studi per l’avvicinamento delle Denominazioni religiose (2013 – 2016); Rettore dell’Università per le Denominazioni islamiche (2017 – 2020); Rappresentante Plenipotenziario del Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran nel Consiglio di Fondazione dell’Università Ahl-al-Beyt. Membro del Comitato scientifico dell’Istituto di studio e ricerca Imam Khomeini: Professore e Preside della Facoltà Internazionale Orvet ol vosqa (dal 2020).
FOCUS UCRAINA
Ucraina, il nunzio spera in soluzioni di pace inaspettate
In una intervista con il quotidiano dei vescovi italiani Avvenire pubblicata lo scorso 19 dicembre, l’arcivescovo Visvaldas Kulbokas, nunzio apostolico in Ucraina, ha affermato che il Papa “è l’unico leader morale al mondo in grado di favorire soluzioni inaspettate di pace in Ucraina”.
L’arcivescovo Kulbokas celebrerà il Natale a Kharkiv, seconda città del Paese, a 50 chilometri dal confine russo, e dunque primo bersaglio dei missili che partono di là dal confine.
Il nunzio ha notato che Papa Francesco ha sempre “rinnovato il suo appello per la nostra gente, invitando alla preghiera ma anche alla diplomazia creativa”, ed è “innegabile che il cuore del pontefice sia con il popolo ucraino sofferente”.
Kulbokas parla di tanti ringraziamenti da parte dei familiari dei bambini deportati in Russiao dei prigionieri di guerra. La missione del Cardinale Matteo Zuppi, in Ucraina e Russia, ma poi anche a Washington e in Cina, aveva proprio l’obiettivo di aprire un canale per la restituzione dei bambini ucraini. Il nunzio ha raccontato che “alcuni giorni fa, in una conferenza, il rappresentante del patriarcato ecumenico di Costantinopoli ha citato la missione come uno degli esempi incoraggianti di ciò che possono fare le Chiese in tempo di guerra. Al di là di questo riconoscimento, tocco con mano la concretezza dell’iniziativa. Non si tratta di visitare una capitale o un’altra, ma di aprire canali per riflettere, comunicare e cercare meccanismi nuovi. Alcuni frutti si vedono già”.
In Ucraina, racconta Kulboaks, si moltiplicano le proteste di quanti hanno un congiunto detenuto in Russia, e questo perché “il numero dei prigionieri, compresi quelli civili, è molto alto” e i famigliari sono disperati”, e “nella maggioranza dei casi” le informazioni non si riescono ad ottenere nemmeno attraverso le grandi organizzazioni internazionali, cosa che fa pensare ai parenti dei prigionieri che “non si sta facendo abbastanza”.
L’arcivescovo Kulbokas, tuttavia, fa sapere che “dedica molto tempo al giorno alla questione”; incontra famigliari e trasmette le liste dei nomi a chi può essere in grado di avere informazioni o intervenire, e a volte interviene direttamente il Papa.
Per la prima volta, latini e greco cattolici celebreranno Natale insieme il 25 dicembre, e questo “richiama la volontà di camminare insieme e di essere uniti”. Di certo, c’è il grande interrogativo di “come annunciare la pace in un Paese aggredito”, anche perché dopo quasi 700 giorni di guerra la nazione è stanca, sebbene “il termine stanchezza non rende bene ciò che si vive”. Eppure, “la stanchezza va di pari passo con la consapevolezza che non c’è altro modo di sopravvivere se non questo. La chiamerei la perseveranza della nostra gente”.
Il nunzio sottolinea che anche in Ucraina è “aumentata la domanda religiosa: altrimenti non si riesce a spiegare una follia come questa. Sulle spalle della Chiesa c’è anche la responsabilità, la missione di farsi interprete di una nuova ricerca di senso”.
FOCUS RUSSIA
L’ambasciatore di Russia presso la Santa Sede dà il suo punto di vista sul conflitto
In una intervista pubblicata dall’agenzia del Dicastero per l’Evangelizzazione dei Popoli, la prima da quando ha preso l’incarico, l’ambasciatore di Russia presso la Santa Sede Ivan Soltanovsky affronta il problema delle relazioni tra la Federazione Russa e il Vaticano alla luce dell’attuale situazione internazionale.
Soltanovsky ha sottolineato che per la Federazione Russa il rapporto con la Santa Sede è “molto importante”, perché “la Santa Sede è un attore indipendente di portata e rilevanza globale. È piuttosto all’avanguardia nel suo approccio alle questioni sensibili. È sempre impegnata in un dialogo basato sul rispetto reciproco”.
Soltanovsky ha detto di aver apprezzato l’enciclica Fratelli Tutti, in particolare la descrizione del mondo come poliedrico e multipolare, con “rispetto per le diverse civiltà, delle identità delle civiltà, e tutto questo è molto importante”, e questo “è lo sfondo concettuale della nostra cooperazione”, con delle analogie che rendono il dialogo importante”.
L’8 settembre, l’ambasciatore ha presentato le credenziali a Papa Francesco, ed ha avuto con lui un collquio privato che definisce “aperto, sincero e pieno di rispetto per l'altro, con la consapevolezza che dovremmo mantenere il dialogo su questioni importanti. Mi ha colpito la profonda e universale conoscenza del Papa riguardo alla realtà contemporanea”.
Diplomatico di carriera, con incarichi alla NATO e al Consiglio d’Europa, Soltanovsky parla di analogie con i due precedenti incarichi nel multilaterale, nonostante questo presso la Santa Sede sia un incarico bilaterale, perché – spiega – “se si pensa alla visione globale della Santa Sede, lo si può paragonare a una grande organizzazione internazionale”.
Ricordando il suo incarico nella NATO, Soltanovsky lamenta che non c’era l’idea di garantire la sicurezza di tutti i Paesi, non solo quelli legati alla NATO, e nota che “nei primi anni Novanta, la Russia era trattata dall'Occidente come un Paese sconfitto. Al contrario, la tradizione diplomatica vaticana insegna che per promuovere la riconciliazione non bisogna mai creare un senso di ‘vincitori contro vinti’”.
Soltanovsky denuncia l’inganno dei leader occidentali nei confronti della Russia sull’allargamento delle frontiere NATO, e afferma che “è stato un errore non avere un accordo giuridicamente vincolante che escludesse qualsiasi possibilità di questo rischio per la sicurezza del mio Paese. I leader di Mosca sono stati troppo idealisti nel credere alle parole delle loro controparti occidentali”.
Ricorda anche gli “aspetti positivi dell’Unione Sovietica,” insieme agli aspetti negativi. L’ambasciatore nota anche che “all'inizio degli anni 2000 è emersa una certa trasformazione filosofica. L'Occidente ha cercato di imporre condizioni. In quegli anni abbiamo avuto un dialogo diretto con l'Occidente ma, crediamo, siamo stati percepiti come deboli e hanno cercato di imporre alcune condizioni. Anche se non erano tempi perfetti, almeno si discuteva”.
L’ambasciatore ha anche parlato di un suo cammino di avvicinamento alla fede. “Sto cercando di essere un vero credente – ha detto – perché per essere un vero credente bisogna passare attraverso molte cose, e non solo fare visite occasionali. Per me è avvenuto perché ogni uomo ha bisogno di un rapporto con Dio. Per me significa pregare per il bene della famiglia, dei genitori e degli amici. Per me tutto è iniziato circa cinque anni fa. Poi ho iniziato i preparativi per il mio incarico a Roma, e il fatto di essere qui stimola certamente ad approfondire il tessuto della fede, a comprendere i dogmi del Credo”.
FOCUS ASIA
Natale in Corea, il pensiero alla riconciliazione
Nell’anno del 70esimo anniversario dell’armistizio che mise fine alla guerra di Corea (1950 – 19534), l’arcivescovo Soon-taick Chung, che guida l’arcidiocesi di Seoul ma è anche amministratore apostolico di Pyongyang, ha diffuso un messaggio di Natale asupicando che la gioia della venuta del Salvatore “possa riempire il mondo intero, portando speranza e forza soprattutto alle popolazioni delle nazioni colpite dalla paura e dalla minaccia della guerra, compresi i nostri compatrioti del Nord, e a tutti coloro che nella nostra società sono poveri, emarginati e bisognoso di conforto".
La Chiesa della Corea del Sud auspica che il Natale 2023 “diventi un'opportunità per giungere a un vero trattato di pace, che sostituisca quell'accordo, ancora tecnicamente in vigore, di mera pausa del conflitto”.
La Corea venne divisa in due parti dopo la Seconda Guerra Mondiale, con il Sud democratico e con il sostegno dell’Occidente e il Nord preso in consegna dai comunisti con l’appoggio di Cina e Russia. Tra il 1950 e il 1953, le “due Coree” furono in guerra, e solo nel 1953 i comandanti militari di Stati Uniti, Corea del Nord e Cina firmarono un accordo di armistizio che prevedeva la "completa cessazione delle ostilità e di tutti gli atti di forza armata fino al raggiungimento di una soluzione pacifica finale".
Non c’è mai stato, dunque, un vero trattato di pace, ma solo quell’accordo, un equilibrio fragile la cui validità è stata riconfermata nel patto siglato tra Corea del Nord e Corea del Sud nel 1991. L’accordo di base del 1991 viene confermata la non aggressione, gli scambi e la cooperazione reciproca. Tuttavia, dopo settanta anni l’armistizio temporaneo non è stato sostituito da un accordo di pace vero e proprio nella penisola, e tutti i tentativi in tal senso sono finora falliti.
I cattolici della Corea del Sud hanno lavorato molto per arrivare ad una pace duratura e si è costituito un “Comitato per la Riconciliazione” nell’arcidiocesi di Seoul. L’impegno, è tuttavia ecumenico, perché coinvolge altre Chiese cristiane, e questo ha portato a diversi “faccia a faccia” tra i cristiani di Corea del Sud e del Nord avvenuti in passato nel corso di eventi ecumenici internazionali del Consiglio Mondiale delle Chiese.
Papa Francesco, incontrando un gruppo di cattolici coreani il 16 settembre scorso in Vaticano, si è rivolto loro invitandoli a "riscoprire la vostra vocazione di apostoli della pace in ogni ambito della vita" e a essere "testimoni di riconciliazione", perché "il futuro si costruisce non con la forza violenta delle armi, ma con quella dolce della prossimità".
FOCUS AFRICA
Africa del Sud, i vescovi parlano in vista delle elezioni
La Commissione Giustizia e Pace della Conferenza Episcopale Sudafricana, che unisce i vescovi di Sudafrica, Botswana e Ewatini, ha rilasciato un manuale in vista delle elezioni sudafricane che si terranno nel 2024. “L’educazione degli elettori – si legge nel manuale - è una componente vitale di qualsiasi società democratica”.
Il manuale mette in luce che “fornendo ai cittadini la conoscenza e la comprensione necessarie del processo elettorale, questi hanno il potere di esercitare i propri diritti democratici e contribuire attivamente a plasmare il futuro del loro Paese”.
Si ricorda che “sebbene la Chiesa non sostenga candidati o partiti politici specifici, fornisce indicazioni e principi per aiutare i cattolici a impegnarsi nel processo politico in modo coerente con la loro fede e il bene comune. La Chiesa considera il coinvolgimento politico come un mezzo per promuovere il bene comune e contribuire alla costruzione di una società giusta” ribadisce “Giustizia e Pace”.
Il manuale descrive l’ordinamento costituzionale sudafricano, basato sulla divisione dei poteri e il voto democratico, sottolineando il ruolo del corpo elettorale come componente fondamentale dell’intelaiatura costituzionale., e ribadisce l’importanza della “partecipazione attiva, l’impegno e l’esercizio responsabile dei diritti” da parte dei cittadini, perché questi “sono fondamentali per il mantenimento di un sistema democratico sano e vivace”.
Il voto che si terrà il prossimo anno (la cui data non è stata ancora stabilita) concerne il rinnovo del Parlamento e degli organi provinciali. L’elettorato appare demotivato perché profondamente nauseato dalla corruzione, dalla criminalità e dalla disoccupazione. Il rischio paventato dagli analisti è quello di una affluenza inferiore al 49 per cento, risultato minimo storico della votazione del 2019. La maggior parte delle astensioni arriverà soprattutto dalla generazione nata libera, e cioè dopo il 1994, anno in cui si concluse l’apartheid e si tennero le prime vere elezioni inclusvie di tutta la popolazione sudafricana.