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Processo Palazzo di Londra, condanne, assoluzioni e riepilogo in attesa degli appelli

Sono tre filoni di inchiesta che si intrecciano nella vicenda della gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Ecco cosa c’è da sapere e perché l’appello potrebbe essere decisivo

Processo Palazzo di Londra | Lettura della sentenza del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato | Vatican Media / ACI Group Processo Palazzo di Londra | Lettura della sentenza del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato | Vatican Media / ACI Group

La Corte di Appello dello Stato di Città del Vaticano si è già vista recapitare le prime richieste di appello dopo la sentenza di primo grado del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Non poteva essere altrimenti. Non tanto perché, come ha detto il presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone nell’udienza finale (la numero 86) del processo “nessuna sentenza accontenta tutti”. Piuttosto, è la sentenza stessa a lasciare dei buchi, dei coni d’ombra nelle ricostruzioni e anche nel castello delle accuse provate e non provate.

Il Tribunale vaticano ha assunto una prospettiva intermedia, e proprio facendo questo ha creato un vulnus ulteriore nel sistema giuridico e nella percezione dei fatti vaticani, dopo quello che si era creato con i quattro rescripta di Papa Francesco che avevano dato al Promotore di Giustizia vaticano poteri che non c’erano mai stati prima (il promotore, però, sostiene che siano solo stati disciplinati) e avevano autorizzato a procedere in maniera sommaria.

Nel processo vaticano si intrecciano molte questioni, e tutte dirimenti. Prima di tutto, la questione della sovranità della Santa Sede, che si basa anche sulla funzionalità dello Stato di Città del Vaticano. Ma uno Stato che ha giudici part-time, formati sul diritto di un Paese estero, può riuscire a creare un sistema credibile? Potrebbe, se abbracciasse una visione di fondo. Non è quello che è successo, nei fatti. Anche alcune letture della sentenza dimostrano una visione “miope” riguardo la Santa Sede, laddove i magistrati diventano persino i punti di riferimento anche delle attività di intelligence.

In secondo luogo, la forza dello Stato e della indagine, contestata più volte. La lettera inviata dal Cardinale Pietro Parolin al promotore di Giustizia in cui si ribadiva la volontà di andare avanti rappresentava un segno di debolezza non solo del sistema, ma anche della stessa Segreteria di Stato. Può un “primo ministro” chiamare un procuratore capo dicendo di andare avanti nelle indagini senza essere accusato di ingerenza?

In terzo luogo, c’è il problema della credibilità internazionale della Santa Sede. Più volte è stata invocata la questione della violazione dei diritti dell’uomo, e si è fatto riferimento alla Carta Europea dei Diritti dell’Uomo, cui però la Santa Sede non aderisce perché non è membro del Consiglio d’Europa, e cui non aderirebbe comunque per via di alcuni dei diritti contemplati. Le difese hanno sostenuto che la Santa Sede comunque ha accettato i principi della CEDU firmando la Convenzione Monetaria con l’Unione Europea nel 2009. Discutibile, ma comunque oggetto di discussione.

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A mente fredda e sentenza arrivata, c’è allora bisogno di rivolgere il nastro, partendo proprio dalla questione della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo.

La questione della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo

Come detto, le indagini hanno suscitato molti interrogativi, specialmente per le modalità, tra interrogatori particolarmente aggressivi e persino un arresto improvviso, quello di Gianluigi Torzi, che in Vaticano era andato appunto per farsi interrogare. L’obiezione generale è quella che la Santa Sede non è parte della convenzione CEDU, ed è vero.

Restano però alcune questioni in gioco. Può la Santa Sede utilizzare un argomento positivistico, ovvero la mancata sottoscrizione della Convenzione CEDU) come difesa in caso di violazione di diritti umani, e in particolare al giusto processo, di cittadini europei?

Inoltre, la Convenzione Monetaria siglata dalla Santa Sede nel 2009 è, si, una forma di partecipazione al sistema monetario, ma anche una adesione ai valori dell’Unione Europea, incluso il rispetto della dignità e dei diritti dell’uomo.

La Carta Fondamentale dell’Unione Europea sui Diritti dell’Uomo del 2000 stabilisce all’articolo 47 il diritto al ricorso ad un giudice imparziale, e all’articolo 48 la presunzione di innocenza e diritti della difesa.  L’articolo 50, poi, stabilisce il diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato.

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In alcuni casi, il processo vaticano ha violato questi principi. Di fatto, però, il tema non è se il Vaticano aderisca o meno alla CEDU, ma a quali principi e valori si ispiri. Resta una questione dirimente.  

I tre tronconi del processo

Cerchiamo di comprendere in che modo si è sviluppato il processo nelle sue 86 udienze.

Come già spiegato più volte, il processo si divide in tre tronconi principali. Il primo riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, nelle quote di un palazzo di lusso a Londra. Dopo aver deciso di non dare seguito alla possibilità di partecipare ad una piattaforma petrolifere in Angola, la Segreteria di Stato diede in gestione al broker Raffaele Mincione un fondo utilizzato per comprare le quote di un palazzo da sviluppare. Poi, diede le stesse quote in gestione al broker Gianluigi Torzi, che – inizialmente all’oscuro della Segreteria di Stato – mantenne per sé le uniche azioni con diritto di voto, e di conseguenza il pieno controllo del palazzo. Infine, rilevò l’intero palazzo, che è stato recentemente rivenduto.

Il secondo filone si concentra sul contributo dato dalla Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri per lo sviluppo di un progetto della cooperativa SPES, presieduta dal fratello del Cardinale Becciu. L’accusa, nei confronti di Becciu, è quella di peculato.

Il terzo filone riguarda la sedicente esperta di geopolitica Cecilia Marogna, ingaggiata dalla Segreteria di Stato, che avrebbe utilizzato denaro a lei erogato per delle presunte operazioni di salvataggio di ostaggi (come quello della suora colombiana Cecilia Narvaez rapita in Mali) per fini personali.

Il processo esamina fatti accaduti tra il 2012 e il 2019. Le difese hanno più volte lamentato che sono stati trascurati personaggi che avrebbero dovuto sedere tra i banchi degli imputati e non tra i testimoni, a partire da monsignor Alberto Perlasca, l’ex capo dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato. Fu Perlasca a firmare i contratti per l’acquisto integrale del palazzo di Londra su una stima di circa 230 milioni.

Condanne e assoluzioni

Unico completamente assolto da ogni capo di imputazione è monsignor Mauro Carlino, all’epoca dei fatti segretario del sostituto della Segreteria di Stato.

René Bruelhart e Tommaso Di Ruzza, rispettivamente presidente e direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria all’epoca dei fatti contestati, ricevono solo una multa di 1750 euro. Enrico Crasso, il broker che per conto di Credit Suisse prima e poi in altre vesti gestiva i fondi della Segreteria di Stato vaticano, è condannato alle pena di sette anni di reclusione e 10 mila euro di multa con interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Raffaele Mincione, cui era stato affidato il fondo che poi fu destinato all’acquisto di quote dell’immobile di Londra, a cinque anni e sei mesi di reclusione, ottomila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Fabrizio Tirabassi, l’officiale della amministrazione della Segreteria di Stato che fu coinvolto dai superiori nelle trattative, è condannato a sette anni e sei mesi di reclusione, diecimila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici.

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Nicola Squillace, avvocato, coinvolto da Gianluigi Torzi nella compravendita, ha una pena sospesa di un anno e sei mesi.

Gianluigi Torzi, il broker che rilevò la gestione delle quote dell’immobile da Mincione per conto della Segreteria di Stato, è condannato a sei anni di reclusione, 6 mila euro di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici e sottoposizione alla vigilanza speciale per un anno.

Cecilia Marogna, la sedicente “agente segreta” che ricevette un compenso di 500 mila euro per una operazione di liberazione di una suora rapita in Mali e che secondo l’accusa avrebbe usato per sé, è condannata a 3 anni e 9 mesi di reclusione con interdizione temporanea dai pubblici uffici per lo stesso periodo.

La società della Marogna, la Logsic Humanitarne Dejavnosti D.O.O. pagherà una multa di 40 mila euro e ha divieto di contrattare con le autorità pubbliche per due anni.

Inoltre, il Tribunale ha ordinato la confisca per equivalente delle somme costituenti corpo dei reati contestati per oltre 166.000.000 di euro complessivi. Gli imputati sono stati infine condannati, in solido tra loro, al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, liquidati complessivamente in oltre 200.000.000,00 di euro.

I risarcimenti danni

Tra i danni da conteggiare, anche 80 milioni di danni non patrimoniali per la Segreteria di Stato, mentre la sentenza punta anche a recuperare tutto il denaro destinato da Becciu alla Caritas di Ozieri e quello destinato alla sedicente esperta di intelligence Cecilia Marogna. Le confische saranno esecutive a partire dalla sentenza di secondo grado, ma c’è una norma che prevede la possibilità di confiscare i proventi del reato già con la sentenza di primo grado.

Con le casse sofferenti, e rese ancora più sofferenti dall’inquadramento dei giudici vaticani nei ranghi dirigenziali della Curia con relativo stipendio (decisione arrivata da Papa Francesco a due settimane dalla sentenza), recuperare il denaro è, per la Santa Sede, una necessità. Tanto più che il pool di avvocati messo in campo in questo processo, capeggiato dalla celeberrima Paola Severino in difesa della Segreteria di Stato e dall’altrettanto celebre Gian Maria Flick per l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, non è stato certamente a buon mercato. Tuttavia, per le confische serve innanzitutto che la sentenza vaticana venga riconosciuta efficace da un ordinamento estero. Serve, cioè, la “delibazione”. 

Le perdite con il palazzo di Sloane Avenue

La sentenza finale del processo è stata di condanna parziale, o per meglio dire di una assoluzione generale con degli episodi di condanna. Episodi comunque gravi, se si considera la quantità di anni di carcere comminati.

Il Cardinale Becciu ha avuto condanne per tre capi di imputazione, due per peculato e uno per truffa. Uno dei reati di peculato lo vede in concorso con il broker Raffaele Mincione per aver destinato 200 milioni di euro (un terzo della capacità di investimento della Segreteria di Stato) in un fondo altamente speculativo appartenente al broker.

Una condanna da capire, considerando che fu monsignor Perlasca, una volta naufragata l’opzione di investire il denaro in una piattaforma petrolifera in Angola, a decidere che i soldi dovevano continuarsi a muovee e ad affidare la gestione del fondo allo stesso Mincione.

Il palazzo di Londra, nel frattempo, è stato rivenduto nel 2022 a Bain Capital per 186 milioni di euro. Secondo il promotore di Giustizia, la gestione dei beni da parte della Segreteria di Stato avrebbe causato perdite tra i 130 e i 180 milioni di euro, di circa 55 milioni di euro per il palazzo. 

La gestione finanziaria e la questione dell’Obolo di San Pietro

Se le perdite fanno pensare a un cattivo affare, in realtà il palazzo di Londra è stato in perdita soprattutto per “cattiva gestione”. La Segreteria di Stato lamenta di non avere avuto tutte le informazioni riguardo il palazzo, in particolare il prestito oneroso che vi gravava, ma era stata sempre la Segreteria di Stato, nella persona di monsignor Alberto Perlasca, ad accettare i contratti, per poi fare marcia indietro, romperli, pagare salate penali. Penali che erano dovute anche a Mincione e Torzi.

Si è detto che la gestione riguardasse l’Obolo di San Pietro, ma alla fine è venuto fuori che non è mai stato così. La Segreteria di Stato aveva un conto, denominato “Conto Obolo”, e da lì faceva partire tutte le operazioni finanziarie. Non era, però, il conto di gestione delle offerte dei fedeli, che invece sono da tempo gestite dall’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica.   

Il Cardinale Becciu

Tra il 2011 e il 2018, il Cardinale Becciu è stato sostituto della Segreteria di Stato. In pratica, era lui che gestiva la Segreteria di Stato, aveva accesso ai fondi, aveva discrezione di decisione. Ma è stato processato solo perché il Papa ha stabilito, con un motu proprio a due mesi dal rinvio a giudizio, che anche i cardinali possono essere giudicati dal Tribunale ordinario: prima, i cardinali venivano solo giudicati dalla Cassazione, ovvero da un collegio di cardinali.

Molto prima del processo, il Papa aveva “punito” Becciu chiedendogli di dimettersi dal suo incarico di Prefetto del Dicastero per le Cause dei Santi e di rinunciare alle prerogative del cardinalato. Sarà da vedere ora se il Papa prenderà ulteriori decisioni, dato che per Becciu è stata anche chiesta l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Di fatto, Becciu è un cardinale senza incarichi e tale potrebbe restare.

Becciu era sotto processo per appropriazione indebita, abuso di ufficio e pressioni sui testimoni, e i legali del cardinale, Fabio Viglione e Maria Concetta Marzo, hanno rivendicato “l’assoluta innocenza” di Becciu.

Per il Tribunale vaticano, però, non è così. Perché fu Becciu nel 2012 a dare il via all’operazione Slaone Avenue. Come detto, Becciu aveva portato la proposta di investire sullo sviluppo di una piattaforma petrolifera off shore in Angola, arrivata da un imprenditore angolano suo amico, Antonio Mosquito. Tutte le testimonianze hanno confermato che Becciu non ha fatto alcuna pressione per portare a termine l’investimento.

Si decise allora che quei soldi venissero dirottati nell’acquisto dal 45 per cento delle quote del palazzo di Londra, attraverso un fondo di investimento gestito da Raffaele Mincione, broker che era stato chiamato a valutare l’investimento della piattaforma petrolifera e che aveva guadagnato credito. Mincione aveva il 55 per cento de fondo dell'immobile.

Il fondo è dunque dato in gestione a Mincione, che comincia ad utilizzarlo per varie operazioni. Secondo l’accusa e le parti civili, Mincione perde parte dei soldi del fondo in operazioni speculative come la scalata Banca Carige, che poi verrà commissariata a inizio gennaio 2019.

Nel novembre 2018, la Segreteria di Stato muove così gli ultimi passi per uscire dal fondo Athena di Mincione prima della scadenza prevista. A prendere la decisione è – ancora una volta – monsignor Perlasca, e l’arcivescovo Pena Parra nel suo memoriale per i magistrati parlerà di un vero e proprio “metodo Perlasca”. Si decide di trasferire la gestione delle quote dell’immobile dal fondo di Mincione a quello di Gianluigi Torzi, broker entrato nella scena vaticana su presentazione di Giuseppe Milanese, autodefinitosi e definito da molti testimoni come “amico del Papa” e titolare di una cooperativa sanitaria, la OSA, ma anche con altri intermediari come il professor Renato Giovannini e l’avvocato Michele Intendente.

Al termine della trattativa, Mincione ottiene le quote del fondo con dentro le azioni Carige, Retelit e le quote del fondo Sorgente insieme a 40 milioni di sterline di conguaglio.

Perché scegliere Torzi? Perché Torzi aveva relazioni di affari con Mincione e dunque avrebbe saputo come convincerlo ad uscire dall’operazione. E perché c’era fretta di cambiare gestione, per la Segreteria di Stato, mentre si consumava una “guerra civile” per il controllo dei fondi. Prima era stata la Segreteria per l’Economia a mettere in discussione la stessa autonomia di gestione della Segreteria di Stato, ora era il Revisore Generale che chiedeva il rispetto di certe norme.

Secondo il promotore di giustizia, quando nel novembre 2018 si tratta il passaggio delle quote del palazzo, tutto è stato deciso in anticipo dai broker per spartirsi i milioni pagati dal Vaticano.

Ma è davvero così? I legali hanno parlato di “teoremi”, hanno sottolineato che c’è stata una trattativa commerciale tra Torzi (che tra l’altro rappresentava la Santa Sede, la quale si presenta senza avvocato) e Mincione, e che tutto è stato fatto secondo le regole. In fondo, le società che hanno stipulato i contratti avevano sede in Lussemburgo, con una regolamentazione certo non permissiva.

Perlasca prende le decisioni, arriva a firmare anche per i superiori, mentre l’officiale Tirabassi viene mandato alle trattative, anche se poi la difesa di Torzi negherà il fatto che Tirabassi fosse inconsapevole della situazione e affermerà che anzi difendeva il suo tornaconto.

Il memoriale Peña Parra

Nel 2018, l’arcivescovo Edgar Peña Parra prende il posto di sostituto, e come primo compito si dà quello di razionalizzare e vedere chiaro nella vicenda. E viene fuori che Torzi ha mantenuto per sé la proprietà delle uniche 1000 azioni su 30 mila con diritto di voto. Torzi aveva, insomma, il totale controllo del palazzo. La Segreteria di Stato si è detta inconsapevole di questo dettaglio, anzi Perlasca fa sapere che lui ha compreso che quelle mille azioni servono a Torzi per gestire il palazzo.

Inoltre, l’immobile è gravato da un mutuo di 128 milioni di sterline a tassi vicini al 7 per cento, che costa alla Segreteria di Stato un milione al mese. Il nuovo sostituto decide di prendere in mano le cose: c’è il timore che Torzi venda il palazzo, c’è il timore che una azione legale possa far perdere il controllo del palazzo e un investimento oneroso, e si decide di procedere in due direzioni.

Da un lato, si cerca di prendere il pieno controllo dell’immobile. Torzi, forte della sua posizione, negozierà una buonuscita da 20 milioni, ridotta a 15 milioni grazie ai buoni uffici di monsignor Carlino. Nelle trattative iniziali entra anche Milanese, che porta Torzi a Santa Marta, lì dove li raggiunge il Papa per una foto insieme. È il 26 dicembre 2018. Mentre all’officiale Fabrizio Tirabassi viene imputato un concorso in estorsione con Torzi. Ma è anche vero che Tirabassi era stato estromesso da GUTT da Torzi, perché lo vedeva come un ostacolo.

Torzi e l’architetto Luciano Capaldo

Secondo il promotore di Giustizia, Torzi ha architettato una truffa contro la Santa Sede. Nell’ambito delle indagini, Torzi viene convocato per un interrogatorio in Vaticano nel giugno 2020. Al termine di questo interrogatorio, viene arrestato a sorpresa e resterà in una delle celle nel palazzo della Gendarmeria per 11 giorni, uscendone con un memoriale in cui ricostruisce la sua verità sui cinque mesi di trattative. In quei cinque mesi, arriveranno a fianco della Segreteria di Stato nuovi consulenti: l’architetto (ingegnere) Luciano Capaldo, che fino a qualche giorno prima della trattativa è manager della società di Torzi e poi subito dopo comincia a lavorare come consulente della Segreteria di Stato. Non è indagato. Tuttavia gli avvocati Marco Franco, Mario Zanchetti e Matteo Santamaria, legali di Torzi, hanno più volte tratteggiato Capaldo in maniera negativa, addirittura arrivando a chiedere al tribunale di valutare se rimettere gli atti al promotore per una ipotesi di falsa testimonianza.

Capaldo sarebbe stato quello che avrebbe fatto aprire gli occhi a Peña Parra e a Perlasca i presunti imbrogli sulle mille azioni, insieme con Luca Dal Fabbro, allora presidente Snam e adesso presidente di Iren, che introdusse Capaldo a Tirabassi. Nessuno di loro è tra gli imputati. 

Tuttora (al dicembre 2023) Capaldo è gestore della London 60 SA, la società che deteneva il palazzo di Sloane Avenue e che oggi è controllata al 100 per cento dalla Santa Sede. Durante il dibattimento, i legali di Torzi hanno messo in luce che Capaldo aveva spiato il broker nel febbraio 2019 attraverso il sistema di videosorveglianza del suo ufficio. Non solo. Lo stesso Capaldo - come spiega Milano Finanza avrebbe fatto arrivare una proposta di acquisto per un altro immobile del Vaticano a Londra, quello nella società Sloane & Cadogan, da una società inglese, la Albion Square Holding senza però rivelare che quella società - di fatto, una scatola vuota - apparteneva lui: si chiamava Holy Macaroni, e il nome era stato cambiato il giorno prima della proposta. Forse la proposta serviva solo a difendere il valore dell’investimento.

L’agente segreto per intercettare il telefono del direttore dello Ior

Nel dibattimento, è emerso anche che Capaldo ha messo in contatto Peña Parra con un ex agente segreto del Sisde, Giovanni Ferruccio Oriente, affinché intercettasse il telefono cellulare del direttore dello Ior Mammì, l’artefice dell’avvio dell’inchiesta con la denuncia presentata nell’estate del 2018 al promotore. Un’altra denuncia venne presentata sempre quell’estate dal revisore generale del Vaticano, Alessandro Cassinis Righini. Chissà che il promotore di giustizia vaticano non voglia indagare anche su quella vicenda.

La questione dello IOR

La denuncia IOR è un punto focale della vicenda. È con la denuncia dello IOR che prendono l’avvio le indagini,  e l’avvocato dello IOR è arrivato addirittura a chiedere alla Segreteria di Stato di restituire all’Istituto il contributo volontario inviato ogni anno dai profitti, che secondo lui sarebbe stato destinato al Papa e che non sarebbe stato usato secondo le intenzioni del Papa. Un ragionamento al di fuori del diritto canonico, dove Papa, Santa Sede, Sede Apostolica e Segreteria di Stato sono sinonimi (articolo 361 del Codice di Diritto Canonico) e dove comunque il denaro destinato alla Santa Sede viene automaticamente destinato al Papa e viceversa.

Lo IOR viene chiamato in causa dalla Segreteria di Stato, che aveva chiesto un prestito per chiudere l’oneroso mutuo sull’immobile di Londra e aprirne uno nuovo. Lo IOR nicchia, l’Autorità di Informazione Finanziaria (ente che vigila lo IOR) dice che sì, l’operazione si può fare, perché vero che lo IOR non è una banca, ma può concedere anticipi di denaro a fini istituzionali a determinate condizioniCondizioni che nel caso dell’immobile di Londra c’erano, perché la garanzia era stata dallo stesso immobile.

Dopo vari mesi di tentennamenti, dopo che lo IOR chiede e ottiene documentazione ulteriore secondo una “adeguata verifica rafforzata” che in realtà viene applicata oltre le prerogative, l’istituto dira sì al prestito. Salvo poi, tre giorni dopo, il 24 maggio 2019, cambiare idea, ritirare il consenso, e quindi esporre la Segreteria di Stato a ulteriori perdite. Il 25 luglio 2019, in una drammatica riunione dal Cardinale Pietro Parolin, lo IOR resterà fermo sulle sue posizioni, e arriverà a considerare pressioni quelle dell’Autorità di Informazione Finanziaria. Ma a quel punto c’era già la denuncia, e il sistema vaticano era andato in tilt: un organo di governo non solo aveva rifiutato di aiutare il governo, in una operazione economicamente vantaggiosa, ma aveva denunciato il governo, ottenendo tra l’altro l’ok dell’autorità suprema. Era venuto meno, così, anche il principio di collaborazione tra i dicasteri vaticani.

Allo IOR spettano ora 100 mila euro di risarcimento di danni non patrimoniali, e tuttavia la ricostruzione della parte civile IOR non è stata pienamente accolta dal Tribunale vaticano. Né è stato accolto l’attacco contro l’AIF e i vertici di allora, tra l’altro contestati dal presidente dello IOR De Franssu durante un interrogatorio perché avrebbero messo in discussione un transazione IOR in una società che era stata per trenta anni casa dello stesso de Franssu.

L’Autorità di Informazione Finanziaria

Il rinvio a giudizio definiva “poco chiaro” il ruolo dell’Autorità di Informazione Finanziaria. René Bruelhart e Tommaso Di Ruzza, rispettivamente ex presidente e direttore dell’Autorità, sono stati condannati solo a 1750 euro di multa per omessa denuncia. In pratica, il Tribunale vaticano ha riconosciuto la bontà del loro operato, ha negato l’abuso di ufficio, ma ha detto che, una volta compresa la situazione, avrebbe dovuto segnalare la cosa al promotore di Giustizia.

Questa lettura, però, è fuori da ogni regolamento internazionale di intelligence. L’AIF aveva raccolto informazioni, stava facendo le sue valutazioni e solo successivamente avrebbe dovuto inviare eventualmente una segnalazione al promotore. Sembra pretestuoso, però, parlare di omessa denuncia quando sono sei le unità di informazione finanziaria coinvolta e quando l’AIF ha reso chiaro che la Segreteria di Stato può fare l’operazione ma poi il denaro sarebbe stato tracciato ed eventualmente recuperato se utilizzato in maniera illecita.

E c’è qui una idea che sembra farsi largo, e che pare derivare direttamente dall’ambiente italiano, ovvero quella di una sorta di “mitologia del magistrato” da avvertire in ogni circostanza. Idea che, tra l’altro, si ritrova nella nuova AIF, ora ridenominata ASIF; che ha visto il ritorno di una serie di dirigenti provenienti dal milieu della primissima dirigenza. Dirigenza che poi fu abbandonata per abbracciare una mentalità internazionale, guardando ad un adeguamento agli standard europei coerente con le peculiarità della Santa Sede.

A rigor di logica, possono i vertici che hanno contribuito a creare un sistema di trasparenza essere i primi a violarlo? E dove sarebbe stato l’interesse personale?

Monsignor Perlasca

È una situazione potenzialmente esplosiva per la Santa Sede. I capi di accusa utilizzano come base il memoriale di monsignor Perlasca, che nel corso degli interrogatori ha cambiato profondamente atteggiamento, diventando un collaboratore di giustizia. Ma poi è venuto fuori dal dibattimento che il memoriale di monsignor Perlasca, che contiene un atto di accusa durissimo contro il cardinale Becciu, è stato ispirato da Francesca Immacolata Chaouqui, personaggio noto in Vaticano per essere stata prima membro della Pontificia Commissione Referente sulla Struttura Economica Amministrativa della Santa Sede (COSEA) e poi finita a processo nel caso Vatileaks 2 per furto di documenti riservati. Chaoqui, che non fa mistero di avercela con il cardinale Becciu, era “l’anziano magistrato” che suggeriva Genevieve Ciferri, a sua volta amica di monsignor Perlasca, sui passi che l’amico monsignore avrebbe dovuto fare.

Enrico Crasso

Enrico Crasso, broker che per conto di Credit Suisse gestiva i fondi della Segreteria di Stato, è stato condannato a sette anni di reclusione. Nel 2017, si mise in proprio, creò il Fondo Centurion, e reinvestì 65 milioni della Segreteria di Stato. Si è parlato di affari fallimentari, ma Crasso ha dichiarato che il fondo ha generato una plusvalenza di 5,5 milioni finché lo ha guidato lui.

Cecilia Marogna

E poi c’è la vicenda di Cecilia Marogna. Presentata al cardinale Becciu come esperta di intelligence, si dirà coinvolta nella liberazione di suor Cecilia Narvaez, colombiana, rapita in Mali e liberata solo nel 2021, dopo cinque anni. Becciu aveva lavorato per la sua liberazione da sostituto, e ha poi continuato anche da Cardinale, sollecitando tra l’altro il suo successore a pagare alla società di Marogna (la Logsic) la cifra necessaria per la liberazione di Suor Narvaez. A Marogna vengono affidati 575 mila euro, che però lei spende in viaggi e oggetti di lusso.

Becciu ha sempre sostenuto di non sapere che Marogna avrebbe destinato il denaro a spese personali, ma, secondo il promotorem Becciu avrebbe dovuto denunciare, e non continuare ad avere un rapporto amichevole con lei, e questo è sintomo di un comportamento sospetto. Interessante che il promotore abbia chiesto la condanna di Becciu, e l’APSA ne abbia chiesto l’assoluzione dall’accusa di peculato.

Il Tribunale ha condannato Marogna a 3 anni e 9 mesi di reclusione, mentre alla sua società è stata comminata una multa di 40 mila euro.

La vicenda Sardegna

Infine, c’è la vicenda Sardegna. Quando era sostituto, Becciu avrebbe destinato 125 mila euro verso la Caritas di Ozieri, e questa avrebbe destinato 25 mila euro alla cooperativa Spes, guidata dal fratello Antonino. Incredibilmente, Becciu è stato riconosciuto colpevole di peculato, perché è vero che la destinazione dei fondi era legittima, ma farlo verso una società gestita dal fratello può rappresentare un vantaggio illecito tra fratelli.

Si tratta comunque di cifre modeste, che però hanno pesato sulla situazione del cardinale, ora chiamato a difendersi in secondo grado. Tra l’altro, al cardinale viene contestato un peculato, e sottolineato che, sebbene l’erogazione delle somme non sia un illecito, il fatto che la cooperativa si presieduta dal fratello lascia il sospetto di un indebito vantaggio. Il peculato, però, andrebbe provato, e del denaro inviato  25 mila euro sono stati destinati dalla Caritas e 100 mila euro sono ancora “in pancia” della Caritas. Dove è stato, dunque, il vantaggio?

Le riforme di Papa Francesco

Resta da capire se questo processo farà bene al sistema vaticano. Papa Francesco ha messo mano al comparto finanziario, ma ha messo a serio rischio la sovranità del sistema con elargizioni personali e decisioni improvvise. Di fatto, la Segreteria di Stato si è trovata senza gestione di fondi, dacché ne amministrava 600 milioni.

Da che mondo è mondo, i dicasteri vaticani con capacità finanziaria hanno rivendicato la loro autonomia e indipendenza. La Segreteria di Stato, tuttavia, aveva un ruolo specifico, che è quello di coordinamento di tutta la Curia. Questo la rende un dicastero “diverso”.

L’APSA, invece, ha incamerato tutte le funzioni amministrative della Segreteria di Stato. Questo crea qualche tensione, perché i beni della Santa Sede sono stati affidati da Francesco all’Apsa ma con la gestione accentrata presso lo Ior. 

Restano tutti i dubbi su un processo in cui, tra l'altro, si sono giudicate delle prassi del passato con criteri nuovi di trasparenza. Restano alcune contraddizioni, e alcune condanne sembrano senza prove. Si saprà a dicembre 2024 cosa i giudici hanno definito, quando dovrebbe essere pubblicata la sentenza con tutte le motivazioni.