Si avvicina l’inverno, e sarà ancora più difficile di quello dello scorso anno. Il 60 per cento delle infrastrutture elettriche delle nostre città è stato distrutto, i russi si preparano a distruggere anche il restante 40 per cento, e questo può portare non solo una crisi alimentare, ma anche una crisi energetica. Si tratta di milioni di persone che non sanno come vivere. È una sfida umanitaria di dimensioni mai viste dai tempi della Seconda Guerra Mondiale.
In questa situazione, chi può lascia il Paese, ed è soprattutto la classe dirigente, le persone con istruzione, quelli che dovrebbero ricostruire. Cosa fa la Chiesa per permettere alla gente di restare?
Abbiamo imparato molte cose dallo scorso inverno, anche ad assistere le persone nei territori appena liberati dall’esercito ucraino. Abbiamo raggiunto un grande risultato, perché la crisi umanitaria non è degenerata in tragedia umanitaria. Nessuno in Ucraina è morto a causa della fame, del freddo o della sete. Lo scorso anno abbiamo già potuto osservare il fenomeno dei cosiddetti sfollati interni climatici, che lasciano la città perché non c’è elettricità, non c’è acqua, e non possono scaldarsi né preparare cibo. Vediamo che già molti si preparano a passare l’inverno dall’altra parte dell’Ucraina. Ma la crisi energetica potrebbe colpire anche l’Ucraina occidentale, perché non c’è un posto dove non arrivano i missili russi. Tutto il territorio ucraino è esposto. Molti hanno acquistato generatori elettrici, e questo potrebbe portare però ad una mancanza di combustibile, e ad un aumento di prezzi sul mercato. Vedremo come sarà da gestire la situazione.
L’Ucraina si sta svuotando?
In realtà, c’è anche un fenomeno opposto: tanta gente torna a casa, anche quando le case sono danneggiate e distrutte. La gente, per esempio, è tornata a Kharkiv, a soli 20 chilometri dal confine con la Russia, una città esposta. Eppure, la popolazione passerà lì l’inverno, in una città martire ogni giorno oggetto di attacchi missilistici impossibili da intercettare. Eppure la gente è tornata, il sindaco mi ha detto che si tornerà ad avere più di un milione di abitanti. Vuol dire che queste persone avranno bisogno di aiuto. La nostra cattedrale a Kharkiv ogni giorno distribuisce materiale necessario alla sopravvivenza di migliaia di persone. Dobbiamo rafforzare la nostra capacità logistica, fare arrivare ogni giorno camion con derrate alimentari per garantire la sopravvivenza di questa gente.
Perché tornano?
Perché la gente è stanca di stare fuori di casa. Cercano di tornare e riparare quello che possono, ma stare nella loro casa. Queste persone devono però essere accompagnate dal punto di vista medico e aiutate nell’avere risposta alle loro necessità. La Chiesa ha un doppio lavoro ora: deve essere capace di affrontare il movimento verso l’Ucraina occidentale degli sfollati climatici e poi aiutare quanti restano o tornano nell’Ucraina orientale.
La Chiesa aiuta tutti. Ma quale è lo stato della fede? C’è ancora bisogno di Dio in Ucraina?
Questo disastro ha provocato nella gente domande esistenziali. Ci si chiede perché questo succede, se vale la pena resistere, se c’è speranza. Non c’è risposta umana a queste domande. La gente allora si converte. C’è un grande fenomeno di conversioni. Da una parte, odio, rabbia e cinismo crescono. Dall’altra, la gente cerca una accoglienza e consolazione che si può trovare solo nella Chiesa. In alcune parrocchie nelle zone più colpite di guerra si è visto una totale sostituzione dei parrocchiani: non ci sono quelli che sono andati via, che avevano una comunità prima della guerra, ma c’è la comunità nuova di chi è tornato o è rimasto. Le nostre chiese sono affollatissime, anche perché ogni chiesa è un centro di accoglienza.
Non c’è paura di un bombardamento?
Sì. Ma questa paura costante di essere bombardati e uccisi ha creato una nuova spiritualità. Abbiamo imparato a vivere in costante pericolo di morte – la gente, ma anche il clero, i vescovi – e dunque ci confessiamo spesso. C’è la volontà di essere liberi dal peccato per essere pronti in ogni momento ad andare all’incontro personale con Gesù. La gente si confessa, la gente ha bisogno dell’Eucarestia quotidiana. I cappellani dell’esercito e degli ospedali, ma anche nelle università, sono molto ricercati. Siamo autenticamente una Chiesa in uscita, oggi. Dobbiamo portare Gesù Eucarestia lì dove la gente è presente e ha bisogno. La confessione diventa spesso il più efficace strumento di pastorale, anche nelle comunità che sono emigrate. È veramente un momento dove effettivamente le ferite della gente sono sanate.
È un impegno difficile per i vostri sacerdoti…
Abbiamo offerto ai nostri sacerdoti un corso speciale sulla pastorale della guarigione delle ferite, perché i sacerdoti siano buoni padri spirituali della gente sofferente, riconoscendo i bisogni di queste persone, anche – se necessario – consigliare di avvicinarsi ad uno psicoterapeuta. Sappiamo, infatti, che il disordine post-traumatico uccide più che le pallottole o i missili russi. In questo modo, il sacramento della riconciliazione è anche un sacramento di unzione delle ferite, un accompagnamento personalizzato di ogni persona, un momento vero di misericordia divina. Quello che noi non riusciamo a fare, il Signore, presente nei Sacramenti nella Chiesa, può completare.
Dalla dottrina sociale in tempo di guerra all’accompagnamento del disordine post-traumatico, sembra che la Chiesa in Ucraina sia ormai pioniere di molte cose. Avete portato queste esperienze al Sinodo dei vescovi a Roma?
Sì, lo abbiamo condiviso con i partecipanti di questa assemblea sinodale. La nostra testimonianza è stata molto apprezzata e molto bene accolta nei circoli minori. Ho raccontato che adesso la Chiesa Cattolica in Ucraina vive proprio in questa terza guerra mondiale a pezzi di cui parla Papa Francesco, e dunque abbiamo bisogno di un ulteriore sviluppo sociale della Chiesa. Da tempo che non c’è stata una autentica enciclica sociale sulla pace, anche se la Laudato Si e la Fratelli Tutti toccavano vari aspetti. Ma una enciclica sulla pace no, e servirebbe per delineare lo sviluppo della Dottrina Sociale della Chiesa nei contesti odierni.
Avete fatto delle proposte?
Abbiamo chiesto che si faccia un Sinodo speciale per le Chiese orientali cattoliche. Tutte si trovano oggi a vivere in contesti di guerra: l’Ucraina, il Libano, l’Armenia, la Siria, l’Iraq, l’Eritrea, la Terrasanta. C’è stato un Sinodo speciale per la Regione Pan-Amazzonica, c’è stato in passato un Sinodo speciale per il Medio Oriente, c’è bisogno di affrontare anche il tema delle Chiese Orientali. Ad esempio, ci sono alcuni patriarchi orientali cattolici che hanno più fedeli in diaspora che nel loro territorio. Hanno da raccontare l’esperienza di come hanno deciso di svolgere il loro lavoro pastorale, organizzarsi, accompagnare la propria gente in queste condizioni. Noi Chiese Orientali cattoliche possiamo veramente arricchire l’intera Chiesa universale con la nostra esperienza, a partire dalla sinodalità.
Il documento di sintesi del Sinodo parla anche della proposta di un Consiglio di Patriarchi di Oriente da affiancare al Papa. In che modo si andrebbe a definire questo Consiglio? Quale era la vostra proposta?
Originariamente, avevamo proposto un Sinodo permanente, organismo di cui vive ogni Chiesa orientale cattolica. Nessun patriarca o arcivescovo maggiore è un monarca assoluto Il Sinodo permanente si riunisce ogni volta che c’è bisogno. Non è un organismo deliberativo, è un organismo di riflessione, è uno spazio del camminare insieme. Noi, capi delle Chiese Orientali cattoliche, abbiamo anche bisogno di uno spazio analogo per camminare insieme al Papa. Avendo avuto tutti noi da una parte una esperienza positiva dei nostri propri Sinodi permanenti, abbiamo voluto offrire questo modo di essere Chiesa anche alla Chiesa universale. In questo caso, il Papa agirebbe da vero patriarca di occidente.
Lei ha parlato dell’identità europea dell’Ucraina. Recentemente è stato a Bruxelles, ha parlato con vari parlamentari europei, con i vertici della commissione europea. Qual è il ruolo dell’Ucraina oggi in Europa e quale è il futuro della Chiesa ucraina nell’ambito delle Chiese Europee?
In questi mesi ho avuto tanti incontri importantissimi. Prima di tutto, abbiamo avuto un incontro dei vescovi orientali cattolici europei ad Atene, un incontro importante per noi perché ci ha permesso di definire cosa avremmo voluto portare al Sinodo a Roma. In particolare, noi ci siamo domandati in che modo, come Chiese orientali cattoliche, possiamo contribuire alla riconciliazione, alla pace e al dialogo ecumenico in Europa. Abbiamo confermato la nostra decisione – stabilita già a Budapest nel 2021 – di elaborare la comune missione ecumenica di tutte le Chiese orientali cattoliche in Europa, pensando ad una Europa cristiana che faccia comunione. Abbiamo anche parlato dell’ideologia del mondo russo, considerata una sfida per la credibilità del Vangelo, soprattutto nell’Europa secolarizzata del Terzo Millennio. E poi ho avuto tre incontri secondo me storici.
Quali?
Sono stato a Vilnius, in Lituania, per il quattrocentenario di San Giosafat, e nell’occasione ho potuto incontrare il Primo Ministro Ingrida Šimonytė. Ho incontrato in Italia il presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Ho incontrato a Bruxelles i vertici dell’Unione Europea. In tutti questi incontri si è parlato della guerra in Ucraina, di come aiutare l’Ucraina oggi, di come aiutare i profughi di guerra. Ma si è parlato anche del futuro, dei progetti di pace che oggi l’Unione Europea può offrire. Quello che ho trovato interessante è che tutti i governanti hanno sottolineato che la guerra in Ucraina non è una guerra solo dell’Ucraina, ma una guerra europea. C’è la percezione che, se si perderà l’Ucraina, si potrebbe perdere l’Europa. Abbiamo anche parlato del conflitto in Terrasanta, che vediamo connesso con la guerra in Ucraina. Ottobre è stato in Ucraina il mese più sanguinoso di guerra, ma è stato anche il mese in cui l’attenzione del mondo è stata distolta dagli orribili attacchi terroristici di Hamas, che condanno nel modo più fermo, e dal conflitto che ne è scaturito.
Quale è stata la sua posizione?
Io ho sempre sottolineato che l’aggressione russa all’Ucraina è una aggressione della Russia contro il diritto internazionale. Ne ho parlato anche con Federica Mogherini, già Alto Rappresentante UE per la Politica Estera e ora direttrice del Collegio Europeo. Il fenomeno dell’indebolimento del diritto internazionale fa sì che prevalga il diritto del più forte. Su quale fondamento, allora, si possono costruire progetti di pace?
Cosa fa la Chiesa per sottolineare la questione?
Il prossimo anno, il nostro sinodo ricorderà che 30 anni fa, come conseguenza del Memorandum di Budapest, l’Ucraina ha riconsegnato alla Russia tutte le armi atomiche. Lo ha fatto fidandosi del diritto internazionale, che garantiva la sovranità del nostro Paese. E invece poi non solo uno dei membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ma uno dei garanti della nostra sovranità ci ha aggredito. C’è chi si chiede se è stato uno sbaglio fidarsi. Il Patriarca di Mosca Kirill sottolinea che le armi nucleari benedette da San Serafino di Sarov sono l’unico garante della libertà e della sovranità della Russia. Allora chi oggi nel mondo si fiderà del diritto internazionale? Oggi tutti i Paesi, anche e soprattutto i più piccoli, sono tentati di diventare paesi in possesso di armi nucleari, non Paesi che si fidano di garanzie di sovranità da parte degli altri. C’è un altro fenomeno che ci preoccupa.
Quale?
Oggi si parla sempre meno della sovranità degli Stati indipendenti, ma si parla piuttosto della sovranità delle potenze mondiali. Questo ci mostra che stiamo tornando indietro, in una situazione simile a quella che ha preceduto la Seconda Guerra Mondiale, dove, per rispettare le potenze, si scioglievano gli Stati sovrani, privando del diritto all’esistenza non solo interi Stati, ma interi popoli. Il popolo ebraico è vittima di questo tipo di politica internazionale. Era un popolo senza Stato, difeso solo dal diritto, che ha perso tutto vivendo la Shoah, la più grande tragedia che si possa immaginare. Noi notiamo questa degenerazione del diritto internazionale che ci fa ricordare con tremore quello che abbiamo letto nei libri di storia.
Per questo ci vuole una enciclica per la pace?
Credo che la Chiesa sia chiamata ad educare alla cultura del diritto. Oggi ci si chiede se la democrazia sia ancora valida, ed è una domanda molto delicata e molto profonda. L’Ucraina è un caso classico. In trenta anni, abbiamo vissuto con travaglio il passaggio da Paese post-sovietico a Paese democratico. La Chiesa era madre e maestra della democrazia in Ucraina, perché insegnava ai cittadini la cultura della legalità. Era la Chiesa a insistere che la legge è uguale per tutti, per un oligarca come per un povero. La cosiddetta Rivoluzione della Dignità nasceva proprio dal discorso sulla legge nello stato di diritto. È il tema a fondamento del progetto europeo del popolo ucraino. Siamo attratti dall’Europa, al punto da chiedere di essere ammessi come futuri membri dell’Unione Europea. Ma oggi arriviamo in una Europa che si domanda se la democrazia è ancora una forma valida di sistema politico. Molti ucraini possono sentirsi scandalizzati da questo. Ma noi ucraini siamo anche capaci di testimoniare il valore autentico della democrazia. Se diventeremo membri dell’Unione Europea, potremo aiutare l’Europa a salvare lo stato di diritto.