Gerusalemme , lunedì, 6. novembre, 2023 14:00 (ACI Stampa).
Quando il 30 settembre scorso è stato creato cardinale da Papa Francesco, nessuno poteva immaginare che il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, si sarebbe trovato di lì a una settimana a guidare la sua Chiesa in mezzo a uno dei conflitti più cruenti della storia recente tra israeliani e palestinesi. Le parole “usque ad effusionem sanguinis” (fino all’effusione del sangue) che la Chiesa usa nel rito di creazione dei cardinali sono diventate d’improvviso realtà. “Il colore rosso del cardinalato ha avuto fin da subito una connotazione segnata da tanto dolore, da tante fatiche... Il Signore evidentemente mi vuole qui, vuole che io porti qui la Sua grazia” ha detto in un colloquio con CNA.
Abbiamo incontrato il cardinale nella sede del patriarcato latino, da dove non si è più mosso e da dove, con l’aiuto del suo staff, coordina le iniziative a sostegno delle comunità cristiane più provate e bisognose di aiuto. Proprio pochi minuti dopo il colloquio con lui è arrivata la notizia di un bombardamento che ha sfiorato la parrocchia latina della Sacra Famiglia, a Gaza, lasciando qualche danno ma nessuna vittima.
Il suo ritorno a Gerusalemme dall’Italia (dove si era fermato dopo il Concistoro), è avvenuto in modo precipitoso, per l’irrompere della guerra, ed è passato quasi inosservato. Gli ingressi solenni in diocesi sono stati rimandati a data da destinarsi, le iniziative pubbliche sono state molto limitate. “La prima Messa fuori di qui, l’ho celebrata nell’infermeria dei francescani” dove il 21 ottobre è deceduto un frate della Custodia di Terra Santa. La seconda, l’ha celebrata a Deir Rafat, al santuario di Nostra Signora “Regina di Palestina”, patrona della Diocesi, domenica 29 ottobre. Nel corso della celebrazione, si è tenuto un nuovo atto di consacrazione della Terra Santa alla Vergine Maria.
Momenti “intimi” ma significativi, che indicano l’essenza del suo servizio: “Ho inteso la mia creazione a cardinale come conferma di un servizio che già c’era, e che ora è diventato ancora più esigente. Mi chiedo cosa significhi essere Pastore qui, in questo momento e in questa situazione così complessa e lacerata”. Sebbene non ci sia una risposta univoca, il messaggio è quello condensato nella Lettera a tutta la Diocesi del 24 ottobre scorso: “Quello che mi preme, e per cui ho scritto la lettera - spiega -, è il bisogno di dare un orientamento, perché il Pastore deve essere la voce del suo gregge ma deve anche orientarlo. La mia preoccupazione, in questo momento, è dare un orientamento, che - pur tenendo conto delle diverse opinioni e sensibilità che esistono nella nostra diocesi - abbia una radice nel Vangelo. Tutti dobbiamo chiederci cosa il Vangelo ci dice. Non è detto che tutti abbiano la stessa risposta - le differenze resteranno - ma è importante che tutti si facciano la stessa domanda. Il lavoro del Pastore è aiutare tutti a porsi la domanda giusta, che è sempre in riferimento alla persona di Gesù”.
Quella lettera - in cui tra l’altro il cardinale chiede alla sua diocesi il coraggio di “mantenere l’unità, sentirsi uniti l’uno all’altro, pur nelle diversità delle nostre opinioni, delle nostre sensibilità e visioni” - ha suscitato diverse reazioni, anche di forte critica, tra i fedeli. “Il fatto che alcuni abbiano espresso il loro dissenso e che lo abbiano fatto direttamente, è segno che si sentono parte di questa Chiesa. Allora bisogna parlarne, ascoltarsi e cercare di capire l’uno le ragioni dell’altro, l’uno il dolore dell’altro, la fatica dell’altro, senza ostracizzare, senza scandalizzarsi, ma accogliendo e accompagnando. Ho detto anche ad altri ‘Se qualcosa non va, ditelo. Piuttosto che tenerlo dentro, meglio parlarne”.