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Diplomazia pontificia, il Papa negli Emirati Arabi Uniti?

C’è un invito per Papa Francesco a partecipare alla COP28 negli Emirati Arabi. Sembra che la proposta sia presa seriamente in considerazione

Papa Francesco, Emirati Arabi Uniti | Papa Francesco firma il libro d'onore durante il viaggio negli Emirati Arabi Uniti del 2019 | Vatican Media Papa Francesco, Emirati Arabi Uniti | Papa Francesco firma il libro d'onore durante il viaggio negli Emirati Arabi Uniti del 2019 | Vatican Media

In una recente intervista, Papa Francesco ha lasciato palesare l’idea di poter andare in Papua Nuova Guinea, un viaggio che era progettato per il 2020e che poi non si poté fare per via della pandemia. In un’altra occasione, il Papa aveva detto che pensava di andare in Kosovo a novembre, anche se niente era deciso. Ma il prossimo viaggio potrebbe anche essere negli Emirati Arabi Uniti. Un ritorno, per il Papa, che dopo la Laudate Deum potrebbe voler partecipare di persona alla COP28. L’invito c’è.

Continuano le incomprensioni tra Santa Sede e Israele, con Israele che vorrebbe che la Santa Sede, e gli uomini di fede in Terrasanta, prendessero una posizione più netta contro Hamas. La Santa Sede, però, non prende posizione politica. La prima preoccupazione è per la situazione umanitaria, che a Gaza è difficilissima. Inoltre, un attacco vicino alla chiesa di San Porfirio di Gaza ha ucciso anche una giovane impiegata Caritas di 26 anni, incinta. Questi dati non possono essere sottovalutati, anche perché la Santa Sede non potrebbe mai giustificare l’uso della forza, ma solo della legittima e proporzionata difesa.
Papa Francesco ha incontrato Lauder, a capo del World Jewish Congress. Era un incontro pianificato da settembre, che si inserisce nel lavoro portato avanti da Lauder per sviluppare un dialogo ebraico-cristiano. Ovvio che la situazione in Terrasanta sia rientrata comunque nei colloqui.

                                                           FOCUS PAPA FRANCESCO

Papa Francesco negli Emirati Arabi Uniti?

Gli Emirati Arabi Uniti sembrano essere la nuova frontiera diplomatica di Papa Francesco. Perché è lì che dal 30 al 12 dicembre si terrà la COP28, la 28 Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico, un appuntamento cui il Papa tiene così tanto che lo ha preparato con una esortazione, la Laudate Deum. E perché ad Abu Dhabi si terrà il prossimo 6-7 un vertice aperto a tutti i leader religiosi sul cambiamento climatico, promosso da Papa Francesco e dal Ahmad al Tayyb, Grande Imam di al Azhar. D’altronde, proprio con al Tayyb Papa Francesco firmò, ad Abu Dhabi, la Dichiarazione sulla Fraternità Umana.

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Non sorprende, dunque, che gli Emirati abbiano invitato Papa Francesco a partecipare alla COP28, magari solo per dare un indirizzo. L’invito sarebbe arrivato ufficialmente lo scorso 11 ottobre, quando, ad una settimana esatta dalla promulgazione della Laudate Deum, Sultan al Jaber, presidente designato della COP 28, ha fatto visita a Papa Francesco. Al Jaber è stato anche intervistato dai media vaticani, discettando a lungo di cambiamento climatico e obiettivi condivisi con la Santa Sede.

Papa Francesco avrebbe già voluto partecipare alla COP26 di Glasgow, nel novembre 2021, ma il viaggio non ebbe mai luogo. Potrebbe farlo ora andando ad Abu Dhabi, magari anche per vedere l’Abrahamic Center che è nato dopo la Dichiarazione della Fraternità Umana. Sarebbe un bel colpo per gli Emirati, che stanno lavorando da anni sul concetto di fraternità, promuovendosi nella regione come sostenitori di un Islam tollerante e in dialogo con le altre fedi.

Quando Papa Francesco visitò gli Emirati per la prima volta nel 2019, si era al culmine di questo percorso portato avanti dagli Emirati Arabi Uniti. Papa Francesco andava a parlare ad una Conferenza Internazionale sulla Fraternità Umana. E la stessa conferenza era parte di un lavoro che puntava a trasformare Abu Dhabi nella “città della tolleranza”, e diede inizio ad un anno chiamato “Anno della Tolleranza” che vuole proiettare gli Emirati tra gli Stati che intrattengono il dialogo.

Gli Emirati Arabi Uniti avevano stabilito un ministero per la Tolleranza già nel 2016, mentre l’Istituto Internazionale della Tolleranza è stata fondato nel 2017. Nel 2015, il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, aveva visitato il Paese.

 

Santa Sede ed Emirati Arabi Uniti hanno stabilito rapporti diplomatici nel 2007, con lo scopo di sviluppare “reciproca amicizia” e di approfondire la “cooperazione internazionale”.

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La più alta delegazione degli Emirati Arabi Uniti mai spedita in Vaticano è quella guidata da Abdul Aziz al Ghurair nel 2008. Già in quell’occasione, al Ghurair sottolineò che gli Emirati Arabi Uniti volevano stabilire una forte relazioni con il Vaticano, migliorando contatti civili e religiosi.

Tra le varie iniziative in Abu Dhabi, nel 2010  è stato organizzato dal centro degli Affari di Informazione un simposio dal tema “Il ruolo del Vaticano nel diffondere i principi della coesistenza nel mondo e la tolleranza religiosa negli Emirati Arabi Uniti”. Furono invitati a parlare al forum Paul-Mounged el Hachem e il vescovo Paul Hinder, al tempo alla guida del vicariato dall’Arabia Settentrionale.

Nel 2010, gli Emirati Arabi Uniti hanno anche nominato la prima donna ambasciatore in Vaticano, Hissa Abdulla Ahmed al-Otaiba.

Ci sono due motivi per cui Papa Francesco guarda con attenzione agli Emirati. Il primo riguarda il fatto che negli Emirati l’Islam maggioritario è quello sunnita. Papa Francesco aveva avviato questo dialogo con l’Islam sunnita nel 2016, quando furono riaperti i colloqui con l’università al Azhar del Cairo. L’Islam sunnita, tra l’altro, ha avviato da tempo un percorso di “modernizzazione”, in particolare con un lavoro sul concetto di cittadinanza. Per il mondo musulmano, solo i seguaci del Profeta sono cittadini a tutti gli effetti, ma questa nozione era stata scardinata con la Dichiarazione di Marrakech del 2016, quella di Islamabad del 2019 e anche nell’Incontro Internazionale per la Pace del Cairo del marzo 2017, cui Papa Francesco ha partecipato.

Il secondo motivo riguarda la disponibilità degli Emirati, che hanno messo in campo molte energie.. Dopo la Dichiarazione della Fraternità Umana, è stato stabilito l’Alto Comitato per la Fraternità Umana, e ad Abu Dhabi è stata costruita la Abrahamic Family House, dove una si trovano sulla stessa piazza una sinagoga, una moschea e una chiesa dedicata a San Francesco.

C’è comunque il rischio di sbilanciarsi verso l’Islam sunnita. Non è un caso che, quando Papa Francesco ha visitato l’Iraq nel 2021, sia stato incluso un incontro con il Grande Ayatollah al Sistani aprendo un nuovo canale di dialogo con l’Islam sciita che ha portato, in Iraq, a stabilire la Giornata della Coesistenza. Il tema della fratellanza è stato poi anche parte del viaggio di Papa Francesco in Bahrein.

Sembra, invece, rimanere fuori da questo sforzo di dialogo con l’Islam il Marocco. Il Marocco ha una tradizione islamica diversa, che vede nel re del Marocco “il capo dei credenti”. Visitando il Marocco nel 2019, tra l’altro, Papa Francesco firmò con il re una dichiarazione su Gerusalemme che ha oggi una sua importanza cruciale, considerando quello che accade in Terrasanta.

Sono tutte tradizioni islamiche che hanno il loro peso, e che potrebbero sentirsi trascurate da questo attivismo del Papa insieme all’Islam sunnita, favorito anche dai buoni rapporti con il Grande Imam al Tayyeb.

                                                           FOCUS TERRASANTA

Israele – Santa Sede, ancora scintile

Il 14 ottobre, Eli Cohen, ministro degli Esteri di Israele, ha avuto una conversazione telefonica con l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, ministro vaticano per i Rapporti con gli Stati. Se il tema e i toni dell’incontro avvenuto in occasione della visita di Cohen in Vaticano qualche mese fa erano stati cordiali, e mostravano anche una volontà dello Stato di Israele a superare alcuni problemi interni (in particolare, gli attacchi di radicalisti ebraici nei confronti di cristiani), la conversazione telefonica del 14 ottobre faceva seguito a diverse proteste da parte dell’Ambasciata di Israele presso la Santa Sede riguardo le posizioni e le dichiarazioni prese dai Patriarchi di Terrasanta con riferimento alla situazione di Gaza. Nemmeno la condanna ferma e inequivocabile delle azioni di Hamas da parte del Segretario di Stato, il Cardinale Pietro Parolin, aveva alleviato la delusione della diplomazia israeliana.

Nella telefonata, ha sottolineato il ministero degli Esteri di Gerusalemme in un comunicato inviato il 15 ottobre, Cohen ha detto che Israele “si aspetta che il Vaticano venga fuori con una chiara e inequivocabile condanna delle azioni omicide e terroristiche di Hamas, che ha messo in pericolo donne, bambini e anziani per il solo fatto che questi sono ebrei e israeliti”.

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Secondo gli officiali del ministero degli Esteri, Cohen avrebbe definito “inaccettabile tirare fuori una dichiarazione che esprime prima di tutto preoccupazione per i civili di Gaza mentre Israele sta seppellendo 1300 persone uccise”. Il riferimento è, appunto, alla penultima dichiarazione dei Patriarchi e capi delle Chiese di Terrasanta relativa alla striscia di Gaza.

Prima dell’inizio della crisi, l’arcivescovo Gallagher stava preparando la prima visita bilaterale in Israele da parte di un “ministro degli Esteri” vaticano, che avrebbe dovuto avere luogo il mese prossimo”.

Il 16 ottobre, in un incontro con i giornalisti, il Cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca Latino di Gerusalemme, ha detto di aver firmato la dichiarazione dei patriarchi contestata da Israele, sebbene non abbia partecipato alla stesura del documento, mettendo in luce alcune perplessità.

“Il Ministro degli Esteri israeliano – ha detto – è molto irritato e io comprendo il loro ragionamento”. Allo stesso tempo, il Cardinale ha condannato “la barbarie di Hamas come inaccettabile e incomprensibile”.

Il Patriarca Latino di Gerusalemme ha anche dato voce alla preoccupazione riguardo quello che potrebbe succedere a Gaza, sottolineando che ci sono attualmente 1300 cristiani nella parte Nord della Striscia di Gaza che cercano rifugio nelle chiese e che rifiutano di partire, come richiesto dal governo israeliano in vista di un massivo attacco sulla striscia, perché non sanno dove andare. Pizzaballa si è anche detto disponibile ad offrirsi come ostaggio in cambio dei bambini detenuti da Hamas, dichiarazione che è stata molto apprezzata dall’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede Rafael Schutz, il quale la ha lodata in un post su X.

Il Cardinale ha anche notato che la situazione in Terrasanta rischia di espandersi al mondo intero, e che “per avere una mediazione, servono interlocutori, ma questi sono difficili al momento”, in quanto, nell’attuale ambiente di ostilità, c’è una grande “durezza di spirito”.

Il 15 ottobre, Papa Francesco ha chiesto la fine del “diabolico odio, terrorismo e guerra” in Terrasanta al termine dell’Angelus, e proposto che siano garantiti dei corridoi umanitari per aiutare coloro che stanno fuggendo dal conflitto.

Situazione in Terrasanta, parla un membro del Comitato della Fraternità Umana

Sultan al Remeithi, già segretario generale del Consiglio Musulmano degli Anziani e oggi membro del Comitato Superiore della Fratellanza Umana, ha parlato in una intervista ad AsiaNews della situazione in Terrasanta, descrivendo la “lunga storia” di “tensioni politiche e sociali irrisolte”, alimentato da “violenza e discorsi di odio”. Si tratta di dichiarazioni importanti, perché vengono dal mondo islamico, e da un partner del dialogo. Finora, la Santa Sede non si è appellata ai partner del dialogo, come successe ai tempi della nascita dell’ISIS, perché condannino fermamente il terrorismo.

Nell’intervista, al Rameithi ha notato che “l’escalation della violenza degli ultimi giorni era di gran lunga attesa da tutte le parti coinvolte”, e il rischio è di trovarsi in quella che può trasformarsi in una “guerra di religione” che “comporta violenza e discorsi di odio”.

Al Rameithi non ha mancato di notare che il conflitto va a toccare gli equilibri regionali, andando ad intaccare anche le relazioni diplomatiche avviate da Israele con diverse nazioni arabe (i cosiddetti Accordi di Abramo) e che avrebbero presto coinvolto anche l’Arabia Saudita. Le manifestazioni che si sono tenute in diverse piazze del mondo arabo e mediorientale in favore dei palestinesi potrebbero avere un peso proprio sugli Accordi di Abramo, i quali – ha detto al Remeithi – “hanno permesso la normalizzazione delle relazioni fra Israele e diversi Stati arabi, fra cui gli Emirati Arabi Uniti (Eau)”.

Gli Emirati Arabi Uniti sono tra le nazioni del mondo arabo che hanno condannato la violenza e chiesto una risoluzione pacifica del conflitto. La decisione degli Emirati è parte di un percorso che lo Stato del Golfo sta facendo sul tema della fraternità, che ha visto il culmine proprio nella dichiarazione della Fraternità Umana firmata ad Abu Dhabi da Papa Francesco e dal Grande Imam di al Azhar Ahmad el Tayyb il 2 febbraio 2019. Quella dichiarazione è diventata un modello per altri Paesi islamici, e ha portato negli Emirati alla creazione della Abraham Family House, in Iraq allo stabilimento della Giornata della Convivenza, in Bahrein ad un nuovo sviluppo delle relazioni islamo-cristiane, che sono comunque ottime – basti pensare che il re del Bahrein, la scorsa settimana in visita a Papa Francesco, aveva concesso il terreno per la costruzione della Cattedrale di Nostra Signora di Arabia, che lo stesso Papa aveva poi inaugurato.

Secondo al Reimeithi, tuttavia, i capi delle diverse fedi musulmana, ebrea e cristiana non possono “giocare un ruolo positivo nel conflitto attuale”, perché “non hanno la capacità o la possibilità di ispirare e guidare le persone verso la pace e la giustizia”.

Riguardo la Palestina, alcuni “la riconoscono come Stato sovrano”, mentre altri “ritengono che sia guidata da terroristi” e ciò non favorisce una risoluzione diplomatica della questione. “In definitiva – ha detto - la decisione spetta alla comunità internazionale. I rifugiati palestinesi hanno il diritto di tornare nelle loro case e proprietà, come riconosciuto dalle Nazioni Unite. Inoltre, la possibilità dei rifugiati palestinesi di esercitare questi diritti [legittimi] non dovrebbe essere limitata dal conflitto in atto, dalle divisioni politiche e dall’opposizione di Israele”.

Al Remeithi ha anche accusato “reciproche violazioni del diritto internazionale” riflettendo sulle immagini di civili colpite, ricordando che le “voci della guerra” sono anche frutto di propaganda.

“Ogni sito – ha concluso l’intellettuale musulmano - ha le proprie storie che filtrano e si diffondono in tempi di conflitto” e le “false informazioni” si rincorrono destabilizzando il quadro.

Papa Francesco incontra il presidente del World Jewish Congress

Lo scorso 19 ottobre, Papa Francesco ha incontrato Ronald Lauder, presidente del World Jewish Congress. L’organizzazione, prima nel mondo ebraico, ha aperto un ufficio di liaison in un edificio vaticano. L’incontro era previsto da settembre, ma si è colorato di nuovo significato nell’ambito dell’escalation delle tensioni geopolitiche in Medio Oriente.

Durante l’udienza, Lauder ha chiesto al Papa di continuare a fare appelli utilizzando la sua autorità morale per chiedere il ritorno degli ostaggi tenuti a Gaza da Hamas.

L’incontro viene anche a seguito dell’incontro del Comitato Esecutivo di emergenza del World Jewish Congress a Zagabria, dove i leader di più di 40 comunità ebree si sono riunite per sviluppare un piano di sviluppo unificato per supportare Israele.

All’evento di apertura dell’ufficio, il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, ha ribadito ai giornalisti che il Vaticano condanna i recenti attacchi terroristici contro Israele.

Lauder ha dato al Papa il documento “Kishreinu”, “i nostri legami”, la cui bozza era stata firmata insieme al Cardinale Kurt Koch, prefetto del Dicastero per l’Unità dei Cristiani, il 22 novembre 2022, e che dettaglia i legami e rapporti intrecciati tra comunità cattoliche ed ebree in tutto il mondo.

                                                           FOCUS MEDIO ORIENTE

Libano, un appello da parte dei patriarchi ai libanesi e alla comunità internazionale

I patriarchi e i partecipanti libanesi al Sinodo hanno redatto e pubblicato lo scorso 15 ottobre un appello ai libanesi e alla comunità internazionale dopo aver avuto un incontro in Segreteria di Stato con il Cardinale Pietro Parolin.

L’appello è firmato dal Cardinale Bechara Boutros Rai, patriarca Maronita di Antiochia: dal Patriarca siriaco di Antiochia Mar Ignace Youssef III Younan; dal patriarca melchita di Antiochia, Mar Youssef Absi; dal patriarca armeno cattolico di Cilicia Raphaël Pedros XXI Minassian; e poi da monsignor dal vescovo Mounir Khairallah, da Padre Khalil Alwan e Padre Gaby El Hachem, e da Claire El Saïd, Sandra Chaoul, Rita Kouroumilian, Wissam Abdo.

All’incontro in Vaticano, avvenuto su invito del Segretario di Stato, hanno partecipato anche l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, Segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati; padre Michel Jalakh, segretario del Dicastero per le Chiese Orientali; suor Nathalie Becquart, sottosegretario del Sinodo dei vescovi; e monsignor Marco Formica, officiale della sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato.

L’incontro aveva lo scopo di riflettere sulla situazione del Libano. Nella dichiarazione, i Patriarchi hanno ringraziato Papa Francesco per l’attenzione al Libano, ma anche al Medio Oriente, specialmente in seguito allo scoppio della guerra contro Hamas, e hanno espresso “vicinanza alle famiglie delle vittime, pregando per loro e per tutti coloro che stanno vivendo ore di terrore e dolore, supplicando il Signore della Pace affinché faccia regnare la Pace sulla terra da Lui santificata con la realizzazione del Piano di salvezza”. 

Rivolgendosi ai libanesi, i firmatari della dichiarazione hanno notato che la loro patria si trova di fronte a sfide serie e pericolose, che rischiano di fargli perdere la sua identità, la sua vocazione, la sua missione di Paese-messaggio e il suo ruolo nel concerto delle nazioni”. 

Inoltre il Libano “soffre il collasso economico, monetario e sociale che ha causato il deterioramento della situazione dei nostri cittadini, portandoli alla povertà, e all'emigrazione, in particolare dei nostri giovani, dei nostri intellettuali e di intere famiglie verso nuovi orizzonti. soffre anche della migrazione dei rifugiati che arrivano in massa e costituiscono un peso economico, sociale e demografico che non può sostenere”.

La soluzione è, prima di tutto, quella di eleggere finalmente un presidente della Repubblica che “che riavvii il buon funzionamento delle istituzioni costituzionali e l’applicazione delle necessarie riforme richieste”, e per questo i patriarchi libanesi hanno invitato “il Presidente della Camera ad aprire le porte del Parlamento e a convocare al più presto i deputati per le successive tornate elettorali”, e di conseguenza i deputati “a compiere il loro dovere parlamentare e nazionale e ad eleggere il Presidente secondo le clausole della Costituzione”. 

Inoltre, la dichiarazione mette in luce una serie di passi che deve fare la Chiesa in Libano. Prima di tutto “promuovere il dialogo tra i cristiani da un lato e tra i libanesi dall’altro, per la purificazione della memoria, la conversione e la riconciliazione nazionale”. In questo impegno, i patriarchi chiedono ai concittadini libanesi “di unire i loro sforzi con noi e di impegnarsi insieme per costruire uno Stato civile che anteponga l'appartenenza civica all'appartenenza confessionale, nel rispetto della diversità religiosa, culturale e politica, come voleva il Regolamento del Libano nel 1920, e come stipulato nel Patto Nazionale del 1943 rinnovato negli Accordi di Taif del 1990”.

Il secondo passo è quello di ripristinare il Libano come Paese messaggio, e questo può essere fatto solo contando “su voi giovani che portate speranza per il futuro e sognate un Paese che realizzi le vostre aspirazioni a costruire uno Stato di diritto che stabilisca cittadinanza e uguaglianza davanti alla legge al di là di ogni religione , divisioni confessionali e politiche”. 

La dichiarazione denuncia che “i politici e i leader delle milizie che hanno intrapreso la guerra e che hanno preso il potere e lo mantengono per interessi personali non possono ripristinare la pace, la libertà e la democrazia”, e quini invita i giovani “ad approfondire la vostra formazione nazionale e politica e a prepararvi a prendere il comando”.

Rivolgendosi alla comunità internazionale, i partecipanti libanesi al Sinodo notano che “il problema del Libano dipende dai conflitti in corso in Medio Oriente, nella regione e a livello internazionale. L'ingerenza dei paesi stranieri regionali e internazionali negli affari del Libano, che prendono come sostenitori le fazioni libanesi a loro soggette, ha contribuito a sconvolgere l'equilibrio del mosaico libanese”.

I patriarchi chiedono dunque a “Sua Santità Papa Francesco di mettere tutto il suo peso nel negoziare con i paesi amici del Libano e con le Grandi Potenze per la salvezza del Libano, affinché riprenda la sua missione e svolga il suo ruolo di paese messaggio nel concerto delle nazioni”.

Inoltre, i patriarchi si rivolgono alle Nazioni Unite e ai Paesi amici del Libano affinché aiutino a “frenare l'ingerenza dei paesi stranieri, a riconoscere la neutralità positiva del Libano, ad applicare le risoluzioni delle Nazioni Unite 1559, 1680 e 1701 e a risolvere il conflitto israelo-palestinese”.

Infine, concludono, “di fronte a tutte queste sfide e a tanti motivi di speranza, ci impegniamo a vivere la sinodalità con i nostri fedeli e il nostro popolo, a camminare insieme nell'ascolto, nel dialogo e nel discernimento per sostenere i valori cristiani e testimoniare il Vangelo nella carità vissuto tra noi e con il prossimo, e nella speranza in Colui che non delude”.

Il significato della visita del re del Bahrein

A quasi un anno dalla visita di Papa Francesco in Bahrein, lo scorso 16 ottobre il re del Bahrein Hamad bin Isa al Khalifa si è incontrato con Papa Francesco, discutendo con il Papa le strette relazioni bilaterali tra Bahrein e Santa Sede, la loro cooperazione congiunta e gli sforzi per promuovere tolleranza, coesistenza, fraternità, dialogo e fraternità umana tra i popoli.

Il re ha ricordato anche la visita di Papa Francesco in Bahrein, e la sua partecipazione al dialogo “Est ed Ovest per la Coesistenza Umana” insieme al Grande Imam di al Azhar Ahmed al Tayyb, e al presidente del Consiglio degli Anziani.

Papa Francesco ha espresso da parte sua gratitudine al re Hamad per le sue iniziative umanitarie e per il suo impegno nell’ospitare conferenze globali che promuovono dialogo, rispetto, tollleranza e libertà religiosa, e il Re Hamad ha risposto che il Bahrein resterà un centro di coesistenza per popoli di fedi differenti, ricordando che il Bahrein ha ospitato la Conferenza per il Dialogo Islamo Cristiano nel 2002, il Forum per la Moderazione tra Teoria e Pratica nel 2005 e il Forum per il Dialogo delle Civiltà nel 2008.

Parlando della situazione in Medio Oriente, il re ha lodato il supporto di Papa Francesco per la stabilità, la pace e la protezione di civili, rifiutando la violenza e gli attacchi alle persone civili e aderendo invece a leggi e convenzioni internazionali.

                                                           FOCUS EUROPA

Il presidente polacco Duda in Vaticano

Il 16 ottobre, in occasione del 45esimo anniversario dell’elezione di Giovanni Paolo II, il presidente polacco Andrzej Duda è stato in Vaticano, partecipando alla Messa celebrata in Basilica di San Pietro dai vescovi polacchi per commemorare l’evento.

Il Cardinale Grzegorz Rys, che ha tenuto l’omelia, ha definito Giovanni Paolo II “il Papa della misericordia e della riconciliazione”, facendo riferimento al suo “amore per i nemici”, al punto che perdonò il suo attentatore Alì Agca.

Alla messa erano presenti anche i cardinali Mario Grech, Konrad Krajewski e Gerhard Ludwig Mueller. Il presidente Duda aveva visitato con sua moglie la tomba di Giovanni Paolo II prima della Messa.

Nella serata del 16 ottobre, presso l'Ambasciata di Polonia presso la Santa Sede, il presidente Duda,  ha onorato l’arcivescovo Salvatore Pennacchio, già nunzio apostolico in Polonia dal 2016 al 2023, e attualmente presidente della Pontificia Accademia Ecclesiastica, con la Croce di Commendatore con Stella dell'Ordine al Merito della Repubblica di Polonia. Il presidente ha ringraziato il nunzio per "la gestione estremamente abile degli affari del corpo diplomatico" a Varsavia. 

                                                           FOCUS NUNZIATURE

L’arcivescovo Bettencourt si congeda dall’Armenia

L’arcivescovo José Bettencourt ha incontrato lo scorso 11 ottobre il Catholicos della Chiesa Apostolica Armena Karekin II. Si trattava di una visita di congedo, dato che l’arcivescovo Bettencourt sta terminando il suo mandato come nunzio in Georgia e Armenia, cominciato nel 2018, ed è stato già destinato da Papa Francesco alle nunziature di Camerun e Guinea Equatoriale.

Nel corso di questi cinque anni, Bettencourt ha anche aperto una sede della nunziatura apostolica a Erevan. Karekin II ha accolto l’arcivescovo a Etchmiadzin, il “vaticano armeno”, e gli ha espresso apprezzamento per il suo lavoro di ponte tra Santa Sede e Chiesa Apostolica Armena auspicando nuovi traguardi nella sua missione. Il Catholicos ha anche ricordato i rapporti “cordiali e fraterni” con la Chiesa di Roma, simboleggiati dalle visite di Giovanni Paolo II e Papa Francesco in Armenia.

Il Catholicos ha anche fatto riferimento alle sfide nella regione, alla tutela dei diritti e ai problemi umanitari degli armeni dell’Artsakh che sono in questo momento sfollati, ed espresso gratitudine alla Chiesa Cattolica per i suoi sforzi.

L’arcivescovo Bettencourt ha ringraziato il Catholicos per la sua accoglienza e affermato che in futuro continuerà a contribuire al rafforzamento delle relazioni fraterne tra le due Chiese.

La conversazione tra i due ha riguardato anche la conservazione del patrimonio spirituale e culturale dell’Artsakh e il ritorno dei prigionieri armeni ancora detenuti in Azerbaijan.

                                                   FOCUS AMBASCIATE

Le credenziali dell’ambasciatore di Albania presso la Santa Sede

Non è proprio una novità perché dal 2017 faceva praticamente le funzioni dell’ambasciatore. Ma dal 21 ottobre Majlinda Frangaj ha presentato le credenziali a Papa Francesco, diventando a tutti gli effetti ambasciatore presso la Santa Sede.

Frangaj, Cultore della materia in diritto comparato delle religioni nonché in diritto islamico e africano, presso l’Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Scienze Politiche, ha una vasta carriera diplomatica che la ha portata nel 2017 a ricoprire il ruolo di Ministro Plenipotenziario e Incaricato di Affari dell’Ambasciata di Albania presso la Santa Sede.

Nota per le sue varie iniziative culturali, ha accompagnato lo scorso maggio l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, ministro vaticano per i Rapporti con gli Stati, il Albania.

                                                           FOCUS ASIA

India, una verdetto della Corte Suprema contro i matrimoni omoessuali

Il 17 ottobre, la Corte Suprema dell’India ha emesso una sentenza rifiutando di garantire validità costituzionale ai matrimoni tra persone dello stesso sesso nella nazione. La sentenza è stata accolta con favore dell’Apostolato Pro-Life della Chiesa Siro-Malabarese.

Secondo l’Apostolato, la sentenza – che ha difeso i valori familiari praticati da differenti religioni in India – aiuterà ad assicurare la santità del matrimonio e anche la sicurezza dei bambini, perché ogni bambino ha il diritto nativo alla cura e alla protezione a lui data dai genitori.

La richiesta per matrimonio dello stesso sesso in India viene da una minoranza di persone, ha detto l’Apostolato, e va contro “l’interesse generale delle persone”, ed è per questo “lodevole che la Corte Suprema abbia tenuto conto della posizione dell’Apostolato sulla questione, specialmente poiché la stabilità famigliare è stata alla base di ogni progresso nazionale e non può essere sacrificato dando enfasi non dovuta a diritti individuali”

                                               FOCUS AMERICA LATINA

Argentina, i vescovi lanciano un appello in vista delle elezioni

La Commissione Giustizia e pace dell’Episcopato argentino ha lanciato un appello in vista delle prossime elezioni presidenziali del 22 ottobre. L’appello, che comincia con una citazione dell’enciclica di Papa Francesco Fratelli Tutti, mette in luce prima di tutto la “crisi di rappresentanza nelle istituzioni insieme al processo di disintegrazione e frammentazione del corpo sociale” che ha avuto luogo nelle difficoltà economiche e politiche.

Per questo, la democrazia “smise di identificarsi con l’espressione degli interessi della maggioranza e del bene comune per diventare una forma di potere condizionata da poteri minoritari e corporativi”, e dunque “l’esistenza stessa della nazione come ambiente fertile per lo sviluppo di una vita in comunità, che si affidi ai valori della pace, dell’eguaglianza, del lavoro e dell’inclusione, della giustizia e dell’eguaglianza territoriale da realizzare insieme in un progetto comune, sembra oggi minacciata”.

I vescovi sottolineano dunque che concorrere a votare in pace alle prossime elezioni “sarà un contributo per fare affidamento ad una democrazia che significhi cittadinanza piena, esercizio di diritto, assicuri condizioni per il benestare del nostro popolo, che superi la frammentazione con la sensibilità sociale, e che garantisca l’uguaglianza di opportunità con indipendenza economica”.

Per i vescovi è “imprescindibile” generare spazi di dialogo che rendano possibile “un accordo politico, sociale ed economico di governabilità”, considerando che “il voto esprime la volontà popolare ed esige che i candidati trionfino nelle elezioni, disponendosi a risolvere i gravi problemi che affrontiamo con la cooperazione e l’aiuto di tutti”.

Nell’appello, si sottolinea che è urgente “ridare alla politica il suo carattere di essere la forma più preziosa di carità perché cerca il bene”, ricordando che “l’azione politica deve promuovere l’attenzione alla vita, la dignità umana, il lavoro degno di tutte le persone e l’eliminazione della fame e dell’esclusione”.

                                                           FOCUS MULTILATERALE

La Santa Sede a New York, il disarmo nucleare

Il 17 ottobre, si è tenuta presso le Nazioni Unite di New York una discussione tematiche sulle armi nucleari, nell’ambito del dibattito del Primo Comitato, che riguarda disarmo e questioni di sicurezza internazionale.

L’arcivescovo Gabriele Caccia, Osservatore permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite di New York, ha lamentato che la comunità internazionale stia muovendo nella direzione sbagliata riguardo le armi nucleari non tenendo in considerazione importanti trattati sul controllo delle armi, il disarmo e la trasparenza.

Per questo, l’arcivescovo Caccia ha chiesto agli Stati Parte del Trattato di Non Proliferazione Nucleare di lavorare per rovesciare l’attuale spirale verso il basso del controllo delle armi e delle politiche di disarmo.

Inoltre, l’arcivescovo Caccia ha ribadito la condanna inequivocabile della Santa Sede di ogni retorica che faccia uso della minaccia dell’uso di armi nucleari, nonché dei test esplosivi nucleari, mentre ha lodato gli sforzi per assistere le vittime dei test nucleari.

Per questo, la Santa Sede è in attesa della convocazione del Secondo incontro degli Stati Parte del Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari, e accoglie con favore le deliberazioni del Gruppo di Lavoro sul Trattato di Non Proliferazione che hanno chiesto di rafforzare il processo di revisione del Trattato.

La Santa Sede alla FAO, l’acqua diritto per tutti

Aveva come tema “Preservare e gestire l’acqua per il bene di tutti” il seminario che si è svolto il 18 ottobre presso la Pontificia Università della Santa Croce, organizzato dalla Missione permanente della Santa Sede presso le agenzie delle Nazioni Unite con sede a Roma, il Forum delle Organizzazioni Non Governative Cattoliche e la stessa università Santa Croce.

In apertura del seminario, il professor Luis Navarro, rettore della Santa Croce, ha ricordato che “il tema dell’acqua è attualissimo” perché “le risorse idriche sono sempre più scarse” e “le condizioni igieniche di utilizzo dell’acqua non sono sempre all’altezza di standard sanitari adeguati”, mentre le aziende che gestiscono queste risorse vengono quotate in borsa.

Eppure, ha detto monsignor Fernando Chica Arellano, Osservatore permanente della Santa Sede presso la FAO, l’IFAD e il World Food Program, ha scandito che “l’acqua non è una merce” e che piuttosto “il diritto all’acqua è un diritto umano essenziale e fondamentale per il pieno godimento della vita e di diritti umani”.

Monsignor Chica ha chiesto di “lavorare in infrastrutture” e “puntare sui giovani” per garantire l’accesso universale all’acqua, “indispensabile per il raggiungimento del bene comune dell’intera famiglia umana”.

Tebaldo Vinciguerra, officiale del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, ha spiegato: “Un bene comune è un bene dal quale nessuno è escluso. Nondimeno il consumo ci parla di rivalità, perché ciò che consuma uno non può consumarlo un altro. Un primo approccio, allora, dovrebbe essere quello di considerare la destinazione universale di un bene, cioè comprendere che l’acqua è destinata a tutti: e la dignità umana è il primo criterio per stabilire la gerarchia delle priorità nella gestione dei beni comuni, come le risorse idriche”.

Vinciguerra ha detto che uno degli aspetti fondamentali per garantire l’accesso universale all’acqua è “la partecipazione”, vale a dire la capacità di sviluppare “quel multilateralismo universale dal basso, di cui parla Papa Francesco nella Laudate Deum”.

La Santa Sede alle Nazioni Unite, la protezione dei diritti umani

Si è parlato di protezione dei diritti umani, durante l’incontro del Terzo Comitato dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che si è tenuto lo scorso 18 ottobre. L’arcivescovo Gabriele Caccia, osservatore permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite, ha messo in luce nel suo intervento che “le radici dei diritti umani risiedono nella dignità di ogni essere umano”, perché “la radice ultima dei diritti umani è nell’uomo stesso e in Dio suo creatore”.

I diritti umani, quindi, “non sono una concessione dello Stato o del governo”, i quali hanno invece il dovere di “promuovere e proteggere i diritti umani”.

L’arcivescovo Caccia ha ricordato che quest’anno ricorre il 75esimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, eppure “esiste ancora una dolorosa realtà di violazioni, mancanza di libertà religiosa, guerre e violenza di tutti i tipi, e nuove forme di schiavitù come la tratta. Inoltre, il nunzio ha chiesto che i diritti umani universali siano goduti da tutti, in ogni momento, in ogni stadio della vita – cosa che include il concepimento e la morte naturale.

La Santa Sede alle Nazioni Unite, le misure del disarmo nello spazio

Il 19 ottobre, l’arcivescovo Caccia è intervenuto sulle questioni delle misure del disarmo nello spazio al Primo Comitato dell’Assemblea Generale. L’osservatore della Santa Sede ha sottolineato che, oltre al Trattato dello Spazio che proibisce di porre armi di distruzione di massa nello spazio e nei corpi celesti, l’uso militare dello spazio resta relativamente non sotto controllo. C’è dunque il rischio di una corsa alle armi, ed è dunque importante preservare la natura pacifica dello spazio” di non militarizzare “il dominio celeste”.

L’arcivescovo Caccia ha dunque chiesto al comitato di sostenere gli sforzi per escludere l’ascesa diretta dei test di missili anti-satellite, e ha condannato, da parte della Santa Sede, ogni aspirazione a estendere le capacità di armi e militari nello spazio, chiedendo al comitato di tornare al suo obiettivo di disarmo completo e generale sotto un controllo internazionale stretto ed effettivo.