Il Cardinale poi si è rivolto direttamente a monsignor Penemote, ha sottolineato che il Pakistan in cui è chiamato a rappresentare il Papa è “un Paese dalle notevoli potenzialità, ma che deve affrontare difficili sfide; un Paese a maggioranza musulmana dove, al di là delle disposizioni normative vigenti, non è sempre facile assicurare il pieno rispetto dei diritti delle minoranze religiose”.
Il nunzio è chiamato a mostrare “l’attenzione del Papa e della Santa Sede” al milione e mezzo di cattolici che sono lì, in modo che questi possano rafforzarsi nella loro fede e “cercare vie di dialogo con i fedeli dell’Islam e delle altre religioni”, un dialogo “è molto necessario se vogliamo evitare ogni rischio di manipolazione della religione e ogni inaccettabile legittimazione della violenza”.
Nella Messa del 13 agosto a Luanda, il Cardinale ha ringraziato invece i leader politici ed ecclesiali per l’accoglienza avuta, definendo la comunità ecclesiale angolana "portatrice di una ricca tradizione spirituale, che l'ha nutrita in tempi di prova".
FOCUS ISLAM
Una alleanza per la prevenzione della profanazione del Corano?
Le recenti profanazioni del Corano in Europa, che hanno visto anche una dura presa di posizione di Papa Francesco, hanno spinto il presidente dell’Università delle Religioni e delle Denominazioni di Qom (Iran) a invitare Papa Francesco a consigliare le nazioni occidentali sulla prevenzione degli atti di profanazione del Corano.
L’università di Qom ha una sua storia, ed è una storia di dialogo interreligioso. Da Qom è nato anche il progetto di tradurre il catechismo in farsi, cosa che è poi avvenuta. C’è, insomma, un rapporto ben strutturato con la Santa Sede, nonostante le difficoltà che vive la chiesa in Iran.
Il preside della Università di Qom Abolhassan Navvab ha inviato una lettera al Papa lo scorso 12 agosto, pubblicata sui media iraniani.
Nella lettera, Navvab ha espresso apprezzamento per la posizione di Papa Francesco nel condannare i recenti attacchi contro il Corano, e ha fatto presente che spogliare i rituali religiosi della loro sacralità è la tattica iniziale per minare la religione nella sua interezza.
Nayyab ha aggiunto che “ciò che si sta svolgendo oggi in alcuni paesi occidentali, con il pretesto della libertà di espressione, è un'azione profondamente offensiva che mira a eliminare la sacralità delle santità islamiche e questo sta causando frustrazione tra centinaia di milioni di musulmani amanti del Corano".
Si è trattato, ha scritto Nayyab, di attacchi “barbari”, come quelli dei roghi al Corano avvenuti in Svezia e Danimarca, fatti che “danneggiano e impediscono un dialogo maturo tra le persone”.
Nayyab ha anche messo in luce che i musulmani nutrono profondo rispetto per Gesù Cristo, Maria e i Profeti, e considerano i cristiani i credenti più vicini a loro.
FOCUS ASIA
Pakistan, attacchi contro i Cristiani per una presunta blasfemia
Il nuovo nunzio in Pakistan Germano Penemote, ordinato la scorsa settimana dal Cardinale Parolin, arriverà in un Pakistan sempre più macerato dalla lotta anti cristiana. In questa settimana, per un episodio di presunta blasfemia contro il profeta Maometto per una altrettanto presunta profanazione di pagine del Corano del cristiano Raja Masih, c’è stata una ondata di violenza e attacchi a chiese e abitazioni a Jaranwala, nel distretto di Faisalabad. Gli attacchi hanno colpito ben sei chiese e numerose abitazioni.
Il tutto è partito dal ritrovamento a terra di pagine del Corano insieme ad una lettera di commenti blasfemi e il nome di Raja Masih, che è in realtà è analfabeta. Sono state colpite tre chiese presbiteriane, una chiesa cattolica, una chiesa della Full Gospel Assembly e un’altra dell’Esercito della salvezza.
Centinaia di cristiani di Jaranwala sono stati costretti a fuggire impauriti dalle loro case prese d’assalto. Sono state anche bruciate e profanate Bibbie.
Il pastore Imran Javed, coordinatore di Voice for Justice, è stato testimone dell’attacco e ha spiegato ad Asia News che l’incidente si è aggravato quando la folla si è radunata fuori dalle moschee locali, chiedendo un intervento rapido in risposta alla presunta profanazione del Corano.
A nulla sono valsi gli interventi alla moderazione. L’arcivescovo Joseph Arsad di Islamabad-Rawalpindi, presidente della Conferenza Episcopale del Pakistan, ha fatto appello al governo del Punjab perché prenda misure immediate per contrastare i fatti di Jaranwala, perché “questi incidenti aprono la strada all’insicurezza per le minoranze che vivono in Pakistan. I nostri luoghi di culto e la nostra gente non sono al sicuro. Vi sia un’indagine trasparente su questo tragico indicente in modo che sia ristabilito il primato della legge e della giustizia e si costruisca una società migliore nell’armonia e nel rispetto per le religioni”.
Il premier ad interim Anwar ul Haq Kakar - incaricato di traghettare il Pakistan verso le elezioni - ha risposto sollecitando a sua volta un'azione rapida contro i responsabili delle violenze.
Da anni, il Pakistan vive in queste crisi. Il caso di Asia Bibi è il più noto. Lo sforzo dell’allora inviato UE per la libertà religiosa, Jan Figel, ha permesso alla donna cristiana, che era stata prima condannata a morte per blasfemia e solo dopo assolta, di lasciare il Paese in sicurezza.
Tuttavia, l’Unione Europea ha varie relazioni con il Pakistan, quasi tutte di tipo economico.
FOCUS AFRICA
Benin, i vescovi si oppongono all’opzione militare
I vescovi della Conferenza Episcopale del Benin, in un comunicato diffuso l’11 agosto, si sono detti contrari all’opzione militare per risolvere la crisi politica in Niger, iniziata con il colpo di Stato del 26 luglio.
I vescovi hanno proposto piuttosto di “risolvere l’attuale crisi con mezzi diplomatici, fatti di negoziato, ascolto, riconciliazione e consenso”. È una risposta anche alla decisione della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS) del 10 agosto di dispiegare le ECOWAS Stanby Force.
Un approccio che non è piaciuto ai vescovi del Benin. “Noi – hanno scritto - pastori della Conferenza Episcopale del Benin, ribadiamo la nostra opposizione a qualsiasi opzione militare che trascinerebbe il Niger e i Paesi della sub-regione in preda al crepitio delle armi e alle loro pesanti conseguenze”.
I vescovi del Benin hanno aggiunto che “la guerra è sempre un tunnel senza uscita, un'avventura imprevedibile”, e hanno poi sottolineato che “la via diplomatica fatta di trattative, ascolto, riconciliazione e consenso secondo lo spirito dell'albero delle chiacchiere profondamente radicato nella tradizione africana”.
In particolare, i vescovi beninesi hanno chiesto una “rapida revoca delle sanzioni”, considerate di “inaudita severità” che non possono “garantire il benessere delle popolazioni che già devono affrontare il dramma della povertà e della miseria”, e detto di condividere “le sofferenze, le apprensioni e le speranze della Chiesa cattolica e del popolo del Niger in questo momento difficile della loro storia”.
I vescovi hanno anche esortato il Benin, uno dei 15 membri dell’ECOWAS, a distaccarsi dalle posizioni dell’organizzazione diventando invece “il tedoforo del canale diplomatico, del dialogo, della tolleranza, del perdono reciproco e del consenso basato sulla sua esperienza della Conferenza delle forze vive" della nazione”, perché, “nonostante le sporadiche crisi di convivenza, il Benin è fondamentalmente riconosciuto nel concerto delle Nazioni come Paese di pace e di dialogo”.
La Chiesa beninese ha messo in campo anche alcune iniziative concrete: il 15 agosto, si è celebrato in tutto il territorio nazionale una “Messa per la pace in Niger e nella subregione”, mentre il 18 agosto si è chiesto a tutti i fedeli cattolici e le persone di buona volontà di osservare “una giornata di digiuno e preghiera per la pace”.
FOCUS MEDIO ORIENTE
Il cardinale Sako si oppone ancora al ritiro del decreto presidenziale sul patriarcato
La Santa Sede ha mantenuto una posizione prudente sulla situazione che si è create in Iraq nata a seguito del ritiro di un decreto presidenziale che dava il titolo di Patriarca al Cardinale Sako, limitandosi ad una dichiarazione della nunziatura apostolica.
Il cardinale Sako ha comunque visto nel decreto presidenziale una delegittimazione del patriarcato caldeo. In una omelia alla vigilia della festa dell’Assunta, il patriarca ha sottolineato che in Iraq “è in atto una aspra lotta” fra chi vuole uno Stato fondato “sulle istituzioni, sul diritto e la giustizia” e quanti lottano “per perpetuare il caos e lo sfollamento”.
Per questo, il patriarca – che ha ricevuto anche la solidarietà dell’ex presidente dell’Iraq Barham Salih – ritiene il decreto come “un assassinio morale”, che necessitava un segno di protesta.
Il decreto, voluto dal capo dello Stato Abdul Latif Rashid, andrebbe a toccare il controllo delle proprietà cristiane, che con l’annullamento del decreto rischiano – secondo il Cardinale Sako – di finire sotto la gestione delle Milizie Babilonia e del loro leader Rayan al Kildani, che si dice sostenuto dagli iraniani.
Il Cardinale Sako ha parlato anche di un possibile boicottaggio delle elezioni, ha lamentato la presenza di “adulatori” che hanno spinto il presidente a credere di avere il potere di “revocare o modificare decreti”, e dice che no, non è vero che ci sia nella Costituzione alcun riferimento a poteri di questa natura.
La lotta del patriarca Sako contro il tentativo di indebolire, se non svuotare l’essenza stessa della presenza cristiana in Iraq giunge a nove anni dalla grande fuga della minoranza da Mosul e dalla piana di Ninive in direzione del Kurdistan iracheno per l’avanzata dello Stato islamico. Nell’agosto 2014 i jihadisti dell’Isis hanno conquistato gran parte del nord del Paese e costretto all’esodo, o alla schiavitù, centinaia di migliaia di persone. Un giornalista iracheno ha recentemente documentato l’uso di casa e chiese cristiane come centri di detenzione.
Il Cardinale Sako ha rimarcato che lo Stato al momento “non è autorevole come dovrebbe essere, la giustizia e l’uguaglianza sono lontane dall’essere raggiunte. Questa situazione ha permesso ad alcune persone di prendere ciò che non è loro e alle ‘mafie’ di sminuire leggi e denaro pubblico”.
Una situazione che sta portando “all’eliminazione di ciò che resta dell’identità irachena, della sua sovranità e dei suoi cristiani”. Il patriarca ha inoltre definito “sospetta” la decisione del presidente della Repubblica, forse – ha insinuato – frutto di un “accordo” fra il capo dello Stato e chi “lo ha usato per ritirare il mio decreto”.
FOCUS AMERICA LATINA
Nicaragua, il governo nicaraguense confisca anche una università gesuita
Non si fermano gli attacchi del governo nicaraguense alla Chiesa cattolica. Dopo aver già chiuso le attività caritative, molte stazioni radio e tv e scuole cattoliche, anche l’Università dell’America Centrale, una prestigiosa università gestita dai gesuiti, è stata confiscata con la scusa che potesse essere “un centro di terrorismo”.
L’università, nel 2018, era stato uno degli “hub” delle proteste del 2018 contro il regime di Ortega, proteste che erano nate a seguito di una riforma sulle pensioni.
Ortega ha prima pensato di usare la Chiesa Cattolica locale, invitandola anche a partecipare al dialogo nazionale. Ma questo invito iniziale si è presto tramutato in un incubo: la Chiesa è stata accusata di essere dalla parte dei cospiratori dello Stato, e persino il nunzio è stato espulso dal Paese in maniera abrupta nel 2021, quando già il governo aveva annullato la figura del decano del Corpo diplomatico, incarico, questo, che tradizionalmente spetta ai rappresentanti della Santa Sede. Quest’anno, anche il personale diplomatico della Santa Sede è stato espulso, e si trova in El Salvador, mentre è attualmente in carcere il vescovo di Matagalpa Rolando Álvarez.
Nel caso dell’università, il governo non ha confermato la confisca, mentre i gesuiti hanno diffuso un comunicato, sottolineando di aver ricevuto un ordine giudiziario il Giorno di Ferragosto che li aveva notificati della confisca – il governo avrebbe preso tutte le proprietà dell’università, inclusi edifici e conti bancari.
Paraguay, il cardinale Martinez chiede un dialogo tra tutti i settori del Paese
Il cardinale Adalberto Martinez, arcivescovo di Asuncion, in Paraguay, ha chiesto la scorsa settimana che è “consolante il fatto che possiamo lavorare tutti uniti, in dialogo, tenendo in considerazione tutti i settori del paese”.
L’omelia viene in un momento costituzionale per il Paese, cosa che fa sperare al cardinale che inizi una epoca di “grandi realizzazioni per il Paese, specialmente per i settori più vulnerabili”, e cioè i campesinos, gli indigeni e quelli che vivono in povertà
Un tema importante è quello della giustizia, e in particolare quello della giustizia indipendente. Per il Cardinale, tutti i poteri devono essere indipendenti, sebbene ultimamente non è stato così”, ma “fortunatamente ne andremo a parlare”.
FOCUS EUROPA
Una delegazione di vescovi australiani in Ucraina
Una delegazione di vescovi australiani ha trascorso quattro giorni in Ucraina per portare solidarietà pastorale con la popolazione devastata dalla guerra. Dall’inizio del conflitto, più di 500 giorni fa, sono state diverse le delegazioni di conferenze episcopali che hanno fatto visita al Paese, in un segno di solidarietà.
La delegazione australiana era composta dall’arcivescovo Peter Comensoli di Melbourne, dall’arcivescovo Julian Porteous di Obart, dal vescovo Karol Kulczycki di Port Pierie, da padre Simon Cjuk, vicario generale della Chiesa Ucraina in Australia e da Annie Carrett, cancelliere dell’arcidiocesi di Melbourne.
Dall’inizio della invasione su larga scala della Russia in Ucraina, i vescovi australiani si sono concentrati sull’appoggio alle persone più vulnerabili in Ucraina.
Durante la visita, la delegazione ha avuto vari incontri istituzionali e non, notando in particolare l’amore dei vescovi locali per la popolazione, che – ha detto l’arcivescovo Porteous – “non solo sono stati attivi nel prestare assistenza fisica, sono stati anche presenti pastoralmente e spiritualmente per le persone”.
La delegazione ha visitato Lviv, Kyiv, Bucha e Irpin – le ultime due sono città martiri dell’Ucraina.