Il filone “Sardegna” del processo vede il Cardinale Angelo Becciu sotto accusa per un presunto peculato che avrebbe avuto luogo quando questi era sostituto della Segreteria di Stato, con l’erogazione di denaro alla Caritas di Ozieri, diretta da don Mario Curzu, che li ha poi devoluti alla cooperativa Spes, diretta da Antonino Beccou. i due sono stati implicati anche in una indagine della Guardia di Finanza, ed è questo il motivo per cui non si sono presentati a testimoniare.
E poi c’è il filone Cecilia Marogna, la sedicente esperta di intelligence che si offrì di lavorare con la Santa Sede prestando i suoi servizi anche per la liberazione di ostaggi, come suor Cecilia Narvaez, rapita in Mali. Il pagamento di un riscatto è effettivamente avvenuto, ma non per conto di Marogna, accusata di essersi appropriata dei fondi vaticani per uso personale.
I nuovi capi di accusa
Gli altri protagonisti della vicenda sono Fabrizio Tirabassi, officiale della sezione amministrativa della Segreteria di Stato vaticana, ed Enrico Crasso, il broker che ha gestito per anni gli investimenti della Segreteria di Stato.
Loro, insieme a Mincione e Torzi, sono i destinatari dei nuovi capi di accusa svolti
alla luce di ulteriori attività istruttorie e di quanto emerso durante il processo, che hanno portato a due relazioni aggiuntive predisposte dal Corpo della Gendarmeria dello Stato della Città del Vaticano. I documenti, uno dedicato alla società Aspigam, l’altro alla questione delle monete, sono stati depositati nel corso della cinquantaquattresima udienza del processo sugli investimenti finanziari della Segreteria di Stato a Londra. Alcuni capi di accusa, inoltre, sono stati riformulati.
La testimonianza di Capaldo
A grandi linee, Capaldo nella sua testimonianza ha voluto ribadire, come già aveva fatto nel primo troncone di dichiarazioni il 23 novembre scorso, che secondo lui la Segreteria di Stato non avrebbe fatto un buon affare, che il valore dell’immobile secondo lui era inferiore e che dunque sarebbe stato un investimento con valutazioni erronee.
Vero è che Capaldo, da collaboratore di Torzi, aveva però compilato brochure e valutazioni di possibile sviluppo dell’immobile su cui la Segreteria di Stato stava investendo (gli ex magazzini Harrod’s a 60 Sloane Avenue) con valori che superavano i 300 milioni, ma ci ha tenuto a sottolineare che non erano valutazioni vincolanti ma stime, che le stime erano espressamente richieste ma che comunque non le faceva nella sua attività di valutatore e che comunque erano valutazioni che gli erano state chieste da Gianluigi Torzi.
È stato evidenziato più volte il rapporto che legava Capaldo a Torzi prima che diventasse consulente della Segreteria di Stato, e Capaldo stesso ha poi parlato di aver portato sul tavolo della Segreteria di Stato due manifestazioni di interesse per l’immobile, uno dell’allora ministro della pace dell’Afghanistan.
Altro tema è quello della sorveglianza che sarebbe stata fatta sugli studi di Torzi a Londra. Capaldo ha detto che aveva mantenuto una app collegata alle telecamere di sorveglianza dello studio di Torzi, e che l’arcivescovo Pena Parra (“Per cui sarei pronto a morire”) gli aveva chiesto aprire quella app per vedere chi sarebbe andato a fare visita a Torzi.
Capaldo ha anche confermato di aver contattato Giovanni Ferruccio Oriente, per lui solo un tecnico informatico (era l’autista del capo del SISDE) per risalire a dalle informazioni, cosa della quale però non si fece niente.
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Il presidente del Tribunale Pignatone ha specificato che l’utilizzare telecamere in casa di altri non era ancora recepito come reato in Vaticano al termine dei fatti.
Certo, resta la domanda: perché Pena Parra voleva verificare cosa succedeva da Torzi?
La testimonianza di Shantanu Sinha
Perché evidentemente temeva che uno degli attori in gioco in quell’affare finissero per staccarsi dalla Segreteria di Stato e agissero autonomamente e contro gli interessi della stessa Segreteria di Stato. Sta di fatto che le indagini sulle destinazioni del denaro erano state avviate dall’Autorità di Informazione Finanziaria, che già aveva annunciato avrebbe continuato a seguire i flussi. Ma l’AIF è stata decapitata dal processo prima che potesse agire, nonostante avesse tutto il materiale di intelligence che avrebbe potuto aiutare nel corso delle indagini.
E dal processo non è ancora chiaro chi abbia presentato Gianluigi Torzi come l’uomo giusto per risolvere la vicenda di Londra. Giuseppe Milanese, l’imprenditore amico di Papa Francesco, aveva probabilmente avuto modo di conoscerlo, ma lo stesso Milanese è venuto a processo parlando di forze contrapposte.
Quella di Milanese è stata solo una rappresentazione grafica o c’è qualcosa di vero? E se sì, perché non si riesce a risalire ancora oltre nella catena? Lo stesso Milanese aveva testimoniato che Renato Giovannini, vicerettore della Università Marconi (il quale si era trincerato dietro molti “non ricordo” nell’interrogatorio) e l’avvocato Emanuele Intendente si fossero definiti insieme a Torzi “cavalieri bianchi”, e che sono loro a dire a Milanese che Torzi potrebbe risolvere il problema.