La questione dello IOR
E poi c’è la questione dello IOR, l’Istituto delle Opere di Religione. C’è un mutuo che grava sull’immobile, stipulato con Cheyne Capital, che costa alla Segreteria di Stato 1 milione di euro al mese.
Pena Parra decide di rinegoziare, e per rilevare il mutuo chiede allo IOR, dopo che l’AIF (ente vigilante dello IOR) approva, una anticipazione finanziaria per estinguere il mutuo e avviarne un altro. “Era la possibilità di risolvere in casa il problema”, dice Pena Parra.
È febbraio 2019. Lo IOR non risponde subito, il direttore generale Mammì continua a comunicare con Pena Parra, c’è comunque disponibilità ad erogare il prestito. Il 24 maggio, una lettera del presidente del Consiglio di Sovrintendenza IOR de Franssu dà l’ok definitivo. Il 27 maggio, incredibilmente, lo IOR decide di non procedere più all’anticipazione.
Pena Parra prende carta e penna, sottolinea che l’Autorità ha dato l’ok, chiede di erogare 250 milioni entro il primo giugno. Incontra Mammì il 29 giugno, e poi ha un secondo incontro in Segreteria di Stato, convocato dal Cardinale Parolin, il 25 luglio, cui partecipano i vertici dello IOR, i vertici dell’AIF, Pena Parra che dice ancora di non aver preso coscienza del no al finanziamento. Evidente che Parolin volesse cercare di risolvere una questione aperta.
Il 4 luglio Mammì aveva già fatto la sua segnalazione all’ufficio del Revisore Generale, ma si guarda bene dal dirlo. “Lo ho saputo solo molto tempo dopo”, spiega Pena Parra.
Che ha toni accesi – de Franssu, nella sua testimonianza, non ha mancato di mostrare il suo fastidio – ma soprattutto “perché lo IOR mi aveva sempre dato disponibilità all’anticipazione. Se mi avesse detto subito a febbraio di non potere, avrei proceduto in due mesi con un’altra soluzione, come poi ho fatto. Non ho alcun problema con lo IOR, ma avevo anche l’angoscia di sollevare la Santa Sede dal pagamento di un milione di euro mensili di interesse”.
Il controesame dello IOR del 17 marzo ha portato alla luce altri dettagli. Dopo il no al finanziamento, Pena Parra cerca altre banche, e due istituti di credito di alto livello diedero la loro disponibilità, una immediatamente e una entro pochi mesi.
Si voleva favorire una soluzione interna, ad ogni modo – la ragione per cui ci si rivolge allo IOR per un prestito è anche perché lo IOR avrebbe guadagnato dagli interessi, in una operazione a vantaggio di tutti – e si decise di rivolgersi all’APSA che aprì una linea di credito, cosa che permise di passare dalle spese di un milione il mese a 800 mila euro l’anno. È stata poi l’APSA ha estinguere il mutuo sul palazzo, quando tuttti i fondi gli sono stati trasferiti.
A causa tuttavia dei vari rimandi, da maggio 2019 a settembre 2020 la Santa Sede ha “perso” 24 milioni: 18 mensilità, più le varie spese di gestione pari a circa 4 milioni. Fino alla vendita del palazzo, avvenuta nel luglio 2022, era stato dunque acceso un nuovo mutuo, ma molto meno esoso.
La questione dei servizi
Sono tutte informazioni contenute già in un dettagliato memoriale consegnato da Pena Parra, una nota “ad uso interno”, spiega, che non va necessariamente in tutti i dettagli perché non concepita come una memoria difensiva, ma che spiega in una ventina di pagine anche la situazione che ha trovato in Segreteria di Stato, la sua sorpresa nel non aver ricevuto nessuna nota tramandata dal suo predecessore riguardo le operazioni in corso (“in nunziatura le facciamo sempre”), l’esistenza di un metodo che portava a far firmare i superiori di fronte ad una urgenza vera o presunta, di cui lui stesso sarebbe stato vittima, nonché un certo clientelismo che portava a mantenere sempre gli stessi fornitori, anche quando questi non avevano condizioni vantaggiose.
Nella testimonianza si tocca anche il presunto pedinamento che Pena Parra avrebbe chiesto di fare nei confronti di Torzi attraverso l’ex funzionario Sisde Giovanni Ferruccio Oriente, questione sulla quale Pena Parra resta vago, ma di cui hanno parlato sia Carlino che Capaldo nella testimonianza.
Nel controesame, Pena Parra ha spiegato che “molto sorpreso dell’atteggiamento dello Ior”, la sua preoccupazione più grande era che ci potessero essere dei “contatti” tra l’Istituto e Gianluigi Torzi, il broker (imputato) che manteneva il controllo totale del palazzo londinese attraverso mille azioni con diritto di voto. “Ero stato informato che Torzi aveva detto in riunione a Londra che usciva da porta ma rientrava dalla finestra. Ho avuto il dubbio che questo atteggiamento anomalo fosse dovuto a qualche unione con il gruppo contrario a noi. Per questo ho chiesto al signor Oriente e al comandante della Gendarmeria (allora Giandomenico Giani, ndr) di fare un rapporto. Non sono interessato alla vita del direttore, ma era dovere mio come sostituto vedere se lo Ior fosse stato in qualche modo dentro a questa faccenda. L’ho fatto e, se fosse il caso, lo rifarei. Mi sembrava un dovere”.
Il rapporto con Torzi
Una preoccupazione e una sfiducia che nascono anche da un dato: quando Pena Parra si rende conto a dicembre che Torzi ha messo la Segreteria di Stato in un vicolo cieco, lo convoca e Torzi per tutta risposta elimina Tirabassi dal board della GUTT, la sua società con cui gestisce l’immobile di Londra, lasciando così Pena Parra senza alcun riferimento. Quando Milanese, l’amico del Papa che su richiesta dello stesso Papa aveva intavolato una trattativa, deciderà per ragioni personali di non essere più coinvolto, Pena Parra si rivolgere ad un avvocato internazionale, Dal Fabro. Anche lui deciderà di non essere coinvolto.
Ci si trova, insomma, davanti a un Torzi determinato a far valere il contratto (mai firmato secondo il suo avvocato) che prevede che lui riceva il 3 per cento del valore dell’immobile, e una situazione confusa in cui nessuno si fida più di nessuno, con il dubbio anche che le offerte sul palazzo siano artefatte nello scopo di aumentare il valore della transazione in favore di Mincione.
Lo stesso Parolin mostrerà a Pena Parra due offerte per l’immobile, cui Pena Parra non crederà perché “fuori del valore di mercato” che ormai si conosceva.
La Segreteria di Stato, che si è costituita parte civile, punta a recuperare i soldi che le sarebbero stati sottratti, lamenta che nessun contratto specificava che il controllo dell’immobile era nelle mille azioni date a GUTT, sottolinea che Mincione prima non avesse mai fatto sapere che sull’immobile gravava un mutuo.
Ma se questi sono dettagli tecnici, resta la domanda: se il Papa era a conoscenza di tutto, e ha approvato la trattativa, come si potrà provare la presunta estorsione di Torzi o la malafede di Mincione? Se Tirabassi e l’AIF hanno agito bene, come ha detto Pena Parra, perché sono tra gli imputati? E perché invece non è finito tra gli imputati monsignor Alberto Perlasca, la cui testimonianza è stata tra l’altro resa poco credibile dalle dichiarazioni rese da Genevieve Ciferri e Francesca Immacolata Chaouqui, le quali avevano avuto entrambe, in modi diversi, in ascendente su di lui?
Sono le domande che restano aperte, e che si spera troveranno risposta.