La presidente di Taiwan Tsai Ing-wen ha scritto a Papa Francesco una lettera sottolineando l’importanza di mantenere la pace con la Cina e l’impegno per mantenere la democrazia sovrana di Taiwan.
La lettera è stata pubblicata dall’ufficio della presidente lo scorso 23 gennaio, ed è una risposta al Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest’anno. Il messaggio Nella lettera, la presidente sottolinea come “la guerra scoppiata tra Russia e Ucraina lo scorso febbraio ha mostrato all’umanità quanto la pace abbia valore”.
Per questo, “preservare la sicurezza regionale è diventato un obiettivo comune di tutti i leader nazionali”.
La presidente ha anche citato un suo discorso dello scorso ottobre che aveva fatto seguito a una drammatica crescita di tensioni tra Pechino e Taipei, in cui aveva sottolineato che “la pace e la stabilità sullo Stretto di Taiwan sono le basi per lo sviluppo di relazioni attraverso lo stretto, e che il confronto armato non è assolutamente una opzione”.
Tsai ha anche reso chiaro che “solo rispettando l’impegno del popolo taiwanese alla nostra sovranità, democrazia e libertà ci potranno essere i fondamenti per riproporre una interazione costruttiva sullo Stretto di Taiwan”.
La Santa Sede è l’unico Stato in Europa che riconosce Taiwan, mentre la Repubblica Popolare Cinese considera Taiwan una provincia ribelle, e ha sempre collegato l’apertura di relazioni diplomatiche con Pechino con la rottura e il disconoscimento di Taiwan.
La nunziatura a Taiwan mantiene comunque la denominazione di “Nunziatura in Cina”, e la Santa Sede mantiene relazioni diplomatiche con il Paese dal 1922. Nel mondo, ci sono solo altri 14 Stati con piene relazioni diplomatiche con Taipei, tra cui il Guatemala, Haiti e Paraguay.
C’erano preoccupazioni che anche la Santa Sede accettasse la politica di Pechino per stabilire relazioni diplomatiche con la Cina quando si firmò l’accordo per la nomina dei vescovi nel 2018. Un portavoce del ministero degli Esteri di Taiwan, tuttavia, sottolineò nel 2020, quando l’accordo fu rinnovato ad experimentum per un biennio, di aver ricevuto garanzie dalla Santa Sede che non ci sarebbero stati cambiamenti nelle relazioni diplomatiche.
Un cattolico primo ministro di Taiwan
Il 26 gennaio, la presidente Tasi Ing-Wen ha incontrato Chen Chien-jen e lo ha nominato Primo Ministro. Ha preso l’incarico il 30 gennaio, succedendo a Su Tseng-chang.
Proveniente dai ranghi del Partito Democratico Progressista, nato nell’ambito della lotta per la democratizzazione dell’isola degli Anni Ottanta, Chen Chien-jen è cattolico dichiarao, membro dell’Ordine del Santo Sepolcro dal 2010 e dell’Ordine di San Gregorio il Grande nel 2013 per i servizi resi alla Chiesa Cattolica di Taiwan.
Chien-jen è considerato avere un buon background accademico, ma anche una immagine libera da scandali, e ha anche mostrato eccellenti abilita di comunicazione nel coordinare numerose riforme, e ha anche una ampia esperienza politica, è stato anche vicepresidente ed ha una rete ben stabilita nei circoli religiosi e diplomatici.
FOCUS MULTILATERALE
L’arcivescovo Auza spiega le sfide dell’Agenda 2030
L’arcivescovo Bernardito Auza, attualmente nunzio apostolico in Spagna, era Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’ufficio delle Nazioni Unite di New York quando la Santa Sede si trovò al tavolo delle discussioni sulla cosiddetta Agenda 2030.
Il 25 gennaio, parlando all’università Abata Oliba CEU di Barcellona, l’arcivescovo Auza ha raccontato tutti i passi che hanno portato all’approvazione dell’Agenda 2030.
La Santa Sede, ha raccontato, ha partecipato intensivamente ai negoziati del 2013 e 2014, ma ha poi scelto di “non votare per l’adozione del documento” che include 16 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile”, perché aveva messo in luce diversi “caveats” del documento, a partire dal fatto che gli obiettivi sono troppo numerosi e che includono “un eccessivo idealismo”.
L’arcivescovo Auza ha detto che il Papa stesso aveva critica il “nominalismo dichiarazionista” dell’Agenda 2030, con il rischio di “placare le coscienze con dichiarazioni solenne”. Ma la Santa Sede notava che spesso l’Agenda 2030 pone “soluzioni a priori, una risposta alle sfide di ogni nazione”, ma questo implica che prevarrà la “volontà dei donatori sopra i bisogni reali delle nazioni che ricevono aiuto”.
L’attuale nunzio in Spagna ha ricordato che la Santa Sede ha messo in luce come fosse problematico avere un documento comune, chiedendo che ogni nazione facesse una interpretazione personale, anche per superare la colonizzazione ideologica, e rendendo “subito e chiaramente chiare le sue riserve riguardo alcuni aspetti dell’agenda 2030”.
Insomma, la Santa Sede non è completamente d’accordo con l’Agenda 2030, sebbene i suoi obiettivi siano “ampiamente condivisi”, anche perché “chi non sarebbe d’accordo con la questione di porre fine alla povertà o alla fame, di fornire educazione per tutti, rafforzare la pace e la giustizia, rafforzare il dialogo, salvare il pianeta”.
La Santa Sede però, in accordo con la sua missione, ha dovuto anche contestare alcune parti dell’Agenda 2030, in particolare quelle che si riferiscono “all’essere umano, alla sua natura e dignità, alla sua sessualità, il diritto alla vita, alla famiglia e l’importanza dei fondamenti di legge internazionale nell’interpretazione e implementazione dell’Agenda 2030”.
I concetti sono, ovviamente, quelli di gender, l’idea di “empowerment” (dare potere) e il cosiddetto “diritto alla salute sessuale e riproduttiva”.
L’arcivescovo Auza ha ricordato che il dibattito sull’utilizzo del termine gener risale addirittura alle Conferenze ONU sullo Sviluppo tenuta al Cairo nel 1994 e la Conferenza sulle donne che ebbe luogo a Pechino.
La Santa Sede ha quindi enfatizzato che “ogni riferimento al gender, all’eguaglianza di gender, all’empowerment delle donne e ragazze è compreso secondo l’uso comune generalmente accettato della parola gender basato su criteri biologici”.
Al posto di Empowerment, invece, la Santa Sede usa “promozione” con lo scopo di “evitare una visione disordinata dell’autorità come potere invece di servizio.
Infine, la questione del diritto alla salute sessuale e riproduttiva, che “è uno dei più controversi perché implica l’aborto”, e fu usato per la prima volta proprio alla Conferenza ONU di Pechino del 1995. In quel caso, ha raccontato l’arcivescovo Auza, “c’è stata una grande battaglia tra la Santa Sede e gli altri Stati, specialmente con gli Stati Uniti, la cui delegazione era guidata da Hillary Clinton”
E così, il termine fu introdotto nel documento finale, ma con una interpretazione voluta dalla Santa Sede che “non implica l’aborto”, e che fu inserita solo grazie al supporto delle nazioni. Così, non include il diritto all’aborto e “ancora meno l’aborto come diritto fondamentale”, così che “nessun documento delle Nazioni Unite ha mai menzionato l’aborto come diritto”, anche se poi diverse agenzie ONU, come l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’UNICEF “lo prendono in questo modo.
La Santa Sede a Ginevra, ridurre le minacce spaziali
Il 3 febbraio, si è tenuta alle Nazioni Unite di Ginevra una sessione aperta che includeva un gruppo di lavoro sul “Ridurre le minacce spaziali attraverso le norme, le regole e i principi dei comportamenti responsabili”.
Capo delegazione era l’arcivescovo Fortunatus Nwachukwu, Osservatore Permanente della Santa Sede presso le organizzazioni internazionali di Ginevra.
Dopo aver apprezzato l’approccio, il nunzio ha notato che “considerando il fatto che le attività civili facciano sempre più affidamento sulle attività spaziali, e considerando le conseguenze causate da una feroce competizione tra gli Stati per dominare quella arena, e di grandissima importanza di conservare lo spazio esclusivamente per scopi pacifici.
Per questo motivo, la Santa Sede ricorda che l’informazione che viene dallo spazio contribuisce anche alla sicurezza e alla pace internazionale, e che ora l’obiettivo è prevenire vuoti legali e promuovere il bene comune.
Dunque, “fare leva sullo spazio per attività nocive a detrimento di altri” sarebbe contrario allo spirito del trattato sullo spazio, e che “è chiaro che ci vuole una governance internazionale e cornici regolamentari”, considerando che le attività spaziali “si evolvono continuamente” e gli strumenti per affrontare le preoccupazioni della sicurezza spaziale dovrebbero, “almeno progredire in parallelo, anticipando futuri scenari”.
C’è anche il timore che lo spazio si trasformi in ulteriore spazio di conflitto, come dimostrerebbero “tendenze preoccupanti come la accresciuta ricerca e investimenti in mezzi anti-satellite e contro-spaziali e la crescita di congestioni orbitali, rifiuti spaziali e cyber-guerra”.
La Santa Sede chiede prima di tutto di “bandire il dislocamento di tutte le categorie di armi”, poi propone un impegno “multilaterale perché sia proibito lo sviluppo e il testaggio di armi anti-satellite”.
Questo permetterebbe di “migliorare la sicurezza collettiva e la responsabilità”, mentre “si deve considerare il caos che deriverebbe dal non avere regolamenti e pratiche abituali”.
Per la Santa Sede, ci vuole uno “strumento legale vincolante”, che aiuterebbe a “preservare e garantire che lo spazio sia un ambiente esclusivamente pacifico e sostenibile”, e prevenga “ogni futura corsa alle armi”, considerando che “è imperativo non ripetere nello spazio gli stessi errori fatti sulla terra, come i conflitti violenti, la contaminazione delle armi, la politica della deterrenza e lo sfruttamento indiscriminato di risorse ambientali”.
Devono piuttosto essere promesse “norme, regole e principi che incoraggino il comportamento responsabile”, anche attraverso “progetti scientifici condivisi”, che possono “trasformare le minacce in opportunità, guidati dal principio di fraternità umana”.
FOCUS PAPA IN AFRICA
Papa Francesco in Africa, le prospettive del Cardinale Parolin
Con il viaggio in Repubblica Democratica del Congo e Sud Sudan, il Papa risponde alla necessità pastorale di stare vicino alle Chiese locali e anche alla necessità socio-politica di arrivare ad una fine delle violenze e al rafforzamento dei processi di pace e riconciliazione. Lo ha detto il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, in una intervista a Vatican News concessa, come di consueto, alla vigilia della partenza del Papa.
Il Cardinale nota che le ferite in Repubblica Democratica del Congo sono “molto profonde” in un incontro che ha come primo aspetto quello della consolazione, ma anche “quello dell’incoraggiamento a non perdere la fiducia, la speranza, a non cedere alla vendetta, a non aumentare le divisioni che ci sono, ad avere come obiettivo la pace”, Quindi, comunione e fraternità sono lo scopo per cui il Papa incontra queste vittime.
In Sud Sudan, Papa Francesco ha trovato una situazione in cui le Chiese cristiane “operano a servizio dell’intera popolazione, dove molto spesso anche lo Stato e talvolta anche le agenzie internazionali non riescono ad arrivare. Pertanto, godono presso la popolazione di fiducia e di autorevolezza e questo ha permesso loro di avere un ruolo significativo all’interno del complesso dialogo internazionale”.
Ha ricordato il Cardinale Parolin: “Quando sono stato in Sud Sudan, lo stesso presidente mi ha ricordato quel gesto che il Papa ha compiuto nei suoi confronti e che l’ha profondamente toccato e profondamente commosso: potremmo dire un gesto profetico. Ed è un gesto che impegna: credo che impegni le autorità, davvero, a fare passi concreti sulla via della pace. Speriamo che questo viaggio dia continuità a quel momento così particolare e stimoli in questo senso a fare scelte concrete, ad assumere decisioni molto pratiche perché il processo di pace possa raggiungere il suo obiettivo”.
Il cardinale si è anche soffermato sul fatto che il viaggio vede la presenza dell’arcivescovo di Canterbury e il Moderatore della Chiesa di Scozia, cosa che “è un’espressione di ecumenismo molto significativa, anzi, un ecumenismo – lo chiamerei – della testimonianza”.
Lo scenario in Africa – ha poi aggiunto – può essere cambiato in maniera “lenta”, considerando che “la comunità internazionale che deve affiancarsi ai leader politici di ciascun Paese: sostenere i Paesi in questa delicata congiuntura, accompagnandoli verso il completo raggiungimento del loro sviluppo sociale, economico ed istituzionale. E in questo contesto c’è anche il ruolo delle Chiese soprattutto nell’ambito caritativo, educativo e sanitario”.
FOCUS TERRASANTA
La preoccupazione della Custodia di Terrasanta per il vandalismo contro le chiese
In un comunicato particolarmente preoccupato, la Custodia di Terra Santa ha messo in luce la complessa situazione che sta avvenendo sui Luoghi Santi, lamentando l’ultimo degli episodi, ovvero l’irruzione, da parte di un estremista ebreo, nella Chiesa della Flagellazione, prima tappa della via dolorosa. L’uomo ha abbattuto la statua di Gesù e deturpato il volto della statua, prima di essere immobilizzato dal portinaio del santuario. Era il 2 febbraio.
La Custodia di Terrasanta ha lamentato che si trattava “del quinto incidente verificatosi nelle ultime settimane”, e che appena la scorsa settimana “alcuni turisti sono stati attaccati da un gruppo di ebrei religiosi che sono entrati a Porta Nuova. Hanno compiuto atti vandalici in New Gate, vicino alla sede della Custodia di Terra Santa, scagliando sedie, tavoli e bicchieri e trasformando il quartiere cristiano in un campo di battaglia”.
E ancora, “circa due settimane fa, un cimitero cristiano a Gerusalemme è stato vandalizzato, i graffiti ‘Morte ai cristiani’ sono stati scritti sui muri di un monastero nel quartiere armeno e sono stati vandalizzati i locali usati come chiesa nel centro maronita di Ma'alot.”
I frati della Custodia affermano di “seguire con preoccupazione” e condannare “fermamente questa sequenza crescente di gravi atti di odio e di violenza nei confronti della comunità cristiana in Israele”.
“Non è un caso – denunciano - che la legittimazione della discriminazione e della violenza nell’opinione pubblica e nell’attuale scenario politico israeliano si traduca poi anche in atti di odio e di violenza contro la comunità cristiana”.
I frati chiedono che “che il governo israeliano e le forze dell'ordine agiscano con decisione per garantire la sicurezza per tutte le comunità, per garantire la tutela delle minoranze religiose e per sradicare il fanatismo religioso, questi gravi fenomeni di intolleranza, questi crimini d'odio, e gli atti di vandalismo diretti contro i Cristiani in Israele”.
Da parte israeliana, da segnalare un editoriale di Ben-Dror Yemini, giornalista noto e attivista pacifista della prima ora, nega invece che ci sia una spirale di violenza, ma sostiene piuttosto che “c'è una parte palestinese, che è filo-iraniana o jihadista, che non ha interesse alla riconciliazione e alla pace, ma piuttosto alla distruzione dello Stato ebraico”, e c’è la parte “la parte degli ebrei che sono stati perseguitati in quasi tutti i paesi del mondo, che sono fuggiti o che sono stati espulsi, dall’Europa o dai paesi arabi”.
Yemini sottolinea il diritto degli ebrei ad avere uno Stato, lamenta che i palestinesi non hanno mai risposto alle sollecitazioni di pace agli ebrei, ringrazia il Papa per aver condannato la violenza alla fine dell’Angelus del 29 gennaio, ma ha aggiunto che “tutta la violenza appartiene alla parte che sostiene il terrorismo, che educa i suoi figli all’odio, che si identifica con messaggi di antisemitismo e razzismo”.