Per esempio, nel treno che da Kyiv mi riportava a Przemysl, ho incontrato tre giovani donne che andavano a passare l’inverno a Praga, dove avevano da chi appoggiarsi, chiudendo dietro le spalle una casa che non si sa se avrebbero ritrovata uguale o avrebbero ritrovato del tutto; una donna che andava a trovare la figlia che si era stabilita sulla Costa Azzurra per studiare, valutando se raggiungerla definitivamente; una giovane che partiva per una vacanza in Spagna.
Sono persone che hanno mezzi economici, persino un lavoro, ma che preferiscono andare via, anche per poco tempo. Perché l’idea, per tutti, è di tornare. Cosa fare, però, nel frattempo che la città è svuotata?
Da qui, l’iniziativa della Chiesa Greco Cattolica Ucraina, che serve a dare una possibilità a tutti di cucinare, e così a trovare un motivo di meno per non andarsene. La guerra, in fondo, si vince anche così, con la presenza costante in un posto da cui si viene invitati ad andare via. Ma non è solo quello: la popolazione si è organizzata per aggiustare subito quello che viene distrutto, per non dare l’idea di piegarsi a nessuna provocazione nemica.
Per Sua Beatitudine Shevchuk “La pace vuol dire anzitutto l’assenza della guerra, che per noi vuol dire vincere, far mandare via il nemico. La pace nella nostra immaginazione vuol dire arrestare queste azioni militari. Smettete di ucciderci, questo sarà il primo passo per una pace autentica. Ma sappiamo che la pace è qualcosa di più profondo dell’assenza della guerra. Non si tratta solo di vincere nella guerra, ma vincere lo stesso spirito della guerra, la guerra nelle sue cause, la fonte della pace autentica e duratura”.
C’è bisogno, intanto, di dare sostegno al popolo. In molti casi, c’è solo la Chiesa. Il capo della Chiesa Greco Cattolica Ucraina nota che dalla città martire Izium, ma anche da Kupiansk arrivano a Kharkiv persone in cerca di alloggio. Ricevono dal governo 2-3 mila grivnie (la moneta ucraina), ma non bastano nemmeno a pagare le cose più urgenti. E Kherson, appena liberata, è “un punto molto doloroso, dove vengono portati continuamente i nostri aiuti”.
Due i modi in cui la Chiesa si rende prossima: attraverso la Caritas e attraverso le parrocchie, che creano centri, case famiglie, varie iniziative. E poi, c’è una Fondazione Patriarcale, gestita dalla Curia dell’arcivescovado maggiore, che cerca di investire i fondi comprando gli aiuti alimentari necessari, fornendo pacchi per sfamare una famiglia durante una settimana e così non dipendiamo da questo arrivo spontaneo degli aiuti umanitari e cerchiamo in modo stabile di procurare questo cibo. Diciamo che è un po’ una ‘ambulanza del patriarca’.”
Il tutto, per fronteggiare una emergenza che non ha niente di simile, mentre un terzo della popolazione ucraina si è già mosso.
“Abbiamo – racconta Shevchuk - registrato cinque ondate di sfollati interni e non tutti hanno portato gente fuori dall’Ucraina. All’inizio cercavano di rimanere in salvo quelli che avevano i mezzi economici. La seconda ondata erano quelli di classe media, persone che avevano mezzi proprio, auto e potevano pagare qualche hotel. La terza ondata era gente senza niente, che fuggiva a mani vuote dalle loro case. Quindi, la quarta ondata erano quelli che fuggivano per ultimi e non volevano andare troppo lontani dalle loro città”.
Infine, “la quinta ondata, quella dei profughi termici che fuggono non tanto della guerra ma anche dal freddo, e stanno affollando l’Ucraina centro-orientale”.
Il sindaco di Kyiv invita a lasciare la città, ma è proprio questo che si cerca di evitare. La città, d’altronde – spiega Beatitudine – ha passato “tante tappe di sopravvivenza”.
C’era la situazione disperata di quando i russi sono arrivati, quando i ponti erano chiusi, si era a 15-20 chilometri dalla linea dei combattimenti.
“Erano le prime settimane – racconta Sua Beatitudine - e anche su queste isole sul fiume Dnipro c’era no sistemi di difesa antiaerea, potevamo vedere fuochi di artificio dalla nostra finestra ed era pericoloso. Ma poi ci siamo abituati, perché non è che ad ogni allarme anti-aereo tutti fuggono nel rifugio, la gente non ci fa più caso”.
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Dopo che i russi sono andati, si sono scoperte le atrocità compiute a Bucha, che è a 25 chilometri dalla capitale.
Così, l’arma più forte resta la resilienza. Gli ucraini tornano a casa, non scappano per sempre. E, quando sono in zona, riparano tutto.
Sua Beatitudine racconta anche della nascita del videomessaggio quotidiano, che era più un modo per attestare la sua sopravvivenza nel mezzo della guerra, ma che poi è diventato una necessità per le persone. “Dopo tre settimane, mi chiedevo se valesse la pena continuare – racconta – poi sono andato a Zytomir che era anche martirizzata ogni giorni ed era un sabato che 21 missili sono caduti sulla città. Lì una vecchietta mi ha detto: ‘Beatitudine siamo terrorizzati dalla paura è bene che ci parli Non importa cosa dice, importa che ci parli, Mi ricordai di una situazione vissuta da medico, perché avevo lavorato in un reparto della terapia intensiva. Ho visto un uomo moribondo che disse alla moglie: parlami! E lei si mise a leggere anche se lui non poteva seguire. Non dobbiamo sempre portare messaggi superintellettuali ed è importante accompagnare questa gente. Non possiamo cambiare le circostanze, possiamo cambiare il nostro modo di vivere a modo cristiano”.
Sarà un Natale difficile, ma mai come l’ultima Pasqua. Racconta Sua Beatitudine che “noi abbiamo l’usanza di cantare i canti natalizi che sono parte del nostro modo di vivere Natale che si cantano visitando i vicini e quelli che sono più bisognosi per portare e condividere la gioia e fare buoni auguri. Io ricordo anche di quando questi canti natalizi erano forma di protesta contro il regime ateo: la gente cantava perché così vincevano violenze, perché i canti cantano l’evento della nascita di Gesù Cristo”.
E aggiunge: “Io so che molti si preparano per andare al fronte e cantare questi canti natalizi con i nostri soldati, facendo una rappresentazione semi teatrale dell’evento applicata alla nostra situazione esistenziale”.
La speranza è ovviamente la pace, che non può esserci senza giustizia. “Noi – racconta Shevchuk - siamo costretti di lottare per la nostra sopravvivenza, e per noi la pace significa sanare le ferite della nostra gente, perché tutti noi siamo feriti”.