La risposta nasce, dicono i vescovi di Francia, guardando alla morte di Gesù. La nostra società, spiegano, “nasconde la morte e la guarda poco in faccia, essa è compagna della nostra vita e ce ne ricorda fraternamente l’esito”.
I vescovi definiscono lo sviluppo delle cure palliative come “una conquista importante del nostro tempo”, si tratta di una cura che “unisce la competenza medica, l'accompagnamento umano grazie a un rapporto di qualità tra equipe assistenziale, paziente e familiari, e il rispetto della persona nel suo insieme con la sua storia e i suoi desideri, anche spirituali”.
I vescovi incoraggiano “la ricerca e lo sviluppo delle cure palliative”, in modo che “ogni persona alla fine della vita possa trarne beneficio. Anche perché – scrivono - è vero che “l’assistenza attiva al morire” permetterebbe di “eliminare ogni sofferenza”, ma andrebbe anche contro il comandamento di non uccidere.
E – denunciano con– “uccidere per eliminare la sofferenza non è né una cura né un accompagnamento”, ma è piuttosto “eliminare la persona sofferente e interrompere ogni relazione”.
La lettera prevede anche proposte pratiche. Accetta la sedazione, che deve essere “proporzionata” in uno scambio con i parenti “delicato” e svolto in particolare “per concedere il più possibile il tempo per veri addii”.
Per questo, i vescovi sottolineano l’importanza della presenza di un cappellano, che possa accompagnare anche negli ultimi sacramenti, qualcosa che “non ha prezzo per noi che crediamo nella comunione dei santi”.
I vescovi francesi si impegnano anche a riflettere sulle “direttive anticipate e personali,” in modo che “la nostra more non sia né rubata né imposta a Dio”, e cercano di capire quale è il posto essenziale dell'“intenzione” nelle decisioni mediche di fine vita .
Le domande sono diverse. “L'intenzione – si chiedono i vescovi - è di alleviare le sofferenze troppo gravi risparmiando i momenti ancora da vivere, anche se ciò può accorciare i giorni del paziente? O è l'intenzione di anticipare la morte per porre fine alla sofferenza?”
L’invito è ad aiutarsi a discernere “tra cosa sono le cure, l'idratazione e l'alimentazione spettanti al paziente, anche se la morte diventa certa, e cosa potrebbe essere un'inutile accanimento terapeutico e fonte di inutili sofferenze”.
Fare scelte di vita, dunque. Ma anche, non obbligare a fare scelte di morte. In effetti, notano i vescovi, la scelta individuale del suicidio assistito o dell’eutanasia “impegna la libertà degli altri chiamati a svolgere questa assistenza attiva a morire”, rompendo in maniera radicale “l’accompagnamento fraterno offerto”, trasforma la missione di quelli che danno cure e “rovina la fecondità del simbolo del buon samaritano che ispira amore, base di una società degna di questo nome”.
I vescovi mettono in luce come in questo caso “il desiderio di pochi dovrebbe portare la nostra società a proporre la morte a tutti gli incurabili”, mettendo a rischio l’intera dinamica della cura.
Sottolineano i vescovi: “Tutti dovrebbero essere preparati alla malattia e alla morte . Non lo facciamo preoccupandoci, immaginando il peggio, ma imparando a sfruttare ogni momento per avvicinarci a Dio e agli altri. Chiediamo la grazia di capire che essere dipendenti non è una caduta”.
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