Gianluigi Antonucci è il gendarme che ha partecipato alle perquisizioni nella diocesi di Ozieri, in Sardegna. Questi ha spiegato che i contributi della Segreteria di Stato alla cooperativa SPES, guidata da Antonino Becciu, fratello del Cardinale, sono arrivati “da un conto della Segreteria di Stato” della sezione affari generali, in cui c’erano altri 44 sottoconti e sul quale “transitano importantissime cifre destinate all’Obolo di San Pietro”. Dettaglio da non trascurare, perché si continua a dire che siano stati usati fondi dell’Obolo anche per l’immobile di Londra, e invece i fondi dell’Obolo potrebbero anche essere solo in transito nei conti coinvolti, oppure il tutto può essere nato dalla non conoscenza di un “Conto Obolo” aperto con questo nome dalla Segreteria di Stato già nel 1939.
Insomma, tra i bonifici anche i famosi 100 mila euro della Segreteria di Stato dati dalla SPES, di cui Becciu aveva chiesto anche un rendiconto annuale sulle iniziative sociali. Rendiconto che non è stato, perché la cifra non è stata spesa e neanche restituita.
I fondi erano destinati alla ristrutturazione di un panificio gestito dalla cooperativa, acquisito nel 2004 e ristrutturato dopo un incendio nel 2015, che dava lavoro a diversi giovani disoccupati. E c’erano poi altri 25 mila euro, destinati all’acquisto di una macchina panificatrice, che costava in totale 98 mila euro più IVA.
I fondi finivano al conto usato sia da Caritas che da SPES, definito dai gendarmi “conto promiscuo”. Ed è su quella promiscuità che si basa l’ipotesi che il denaro sia stato speso e che non si possa definire se i 100 mila euro rimasti in pancia siano proprio quelli della Segreteria di Stato. Eppure quei 100 mila euro ci sono, e non sono stati spesi perché destinati ad un uso specifico non ancora espletato.
Colpisce poi il fatto che non siano stati sentiti dai gendarmi né l’amministraore apostolico di Ozieri Sebastiano Sanguinetti, né il vescovo Corrado Melis, che erano in carica durante il periodo dei fatti. Non c’è stata, per i vescovi, alcuna convocazione, ma una chiamata informale fatta da un sacerdote al telefono cui il vescovo ha risposto di non avere tempo in quel momento. Eppure, la loro testimonianza sarebbe stata importante, perché entrambi si sono sempre dimostrati favorevoli al progetto e consapevoli del finanziamento, ed in fondo è il vescovo il responsabile ultimo di tutto. Ma Antonucci ha replicato che “non era sua decisione come condurre le indagini”.
E però, il gendarme fa anche le sue valutazioni. Perché Antonucci, per esempio, “non esclude” che alcune spese di 109 euro della Spes per abbigliamento, pasti, carburante siano state destinate ai profughi assistiti dalla Caritas di Ozieri, ma ha aggiunto che “è strano che certe spese riguardassero i migranti”. E lascia intendere di non comprendere la destinazione di 3000 euro prelevati dal conto, ma di non poter escludere che siano stati destinati a piccole elargizioni.
Se però il principio è che “non si può escludere”, resta da comprendere come siano state costruite le ipotesi accusatorie, che più che su deduzioni devono essere basate su fatti.
In una nota successiva all’udienza, gli avvocati del Cardinale Becciu sottolineano che è stata ricostruita la genesi dei contributi della Segreteria di Stato nei confronti di Caritas Ozieri, di 25.000€ nel 2015 e di 100.000€ nel 2018.
“È stato ulteriormente ribadito – scrivono - come il contributo del 2015 fu impiegato quale parziale sostegno per l’acquisto di un forno, da impiegare nel progetto del panificio a vocazione sociale, dal costo complessivo di 119.000€”.
Continuano gli avvocati: “Quanto, invece, al contributo erogato nel 2018, è stato confermato che il Vescovo di Ozieri, Mons. Melis, mai ascoltato durante le indagini dagli inquirenti, aveva a più riprese pubblicamente annunciato che la somma era stata accantonata per la futura costruzione della ‘Cittadella della Carità, un centro polifunzionale a vocazione sociale, in attesa del raggiungimento della somma complessiva necessaria a finanziarla, pari ad oltre 1.300.000€. È stato confermato che i lavori hanno avuto inizio nel febbraio di quest’anno”.
Come si sono svolte le indagini
Nell’udienza del 19 ottobre, Luca De Leo, tecnico informatico del Centro di Sicurezza della Gendarmeria, ha sottolineato che sono stati acquisiti, analizzati e riversati 243 dispositivi, e di questi 37 sono i dispositivi usati dal Promotore di Giustizia per l’indagine, di cui 9 cellulari e 17 computer.
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Tra i documenti analizzati, la cosiddetta “Lettera del 3 per cento”. È una lettera della Segreteria di Stato, datata 17 aprile 2019, con cui si garantiva al broker Gianluigi Torzi il 3 per cento del valore dell’immobile di Londra. Una lettera che secondo l’accusa esisteva a livello virtuale. Il teste ha detto che non è mai stata trovata una copia fisica e che il documento, preparato nel novembre 2018, era stato poi stampato nell’aprile 2019. Lo storico del documento mostra delle modifiche, ma in realtà non si può sapere quanto sostanziali siano le modifiche.
Le difese hanno di nuovo denunciato la parzialità delle prove, ma Pignatone ha fatto notare che già in un ordinanza dell’1 marzo si era stabilito che fosse diritto del Promotore di Giustizia selezionare le prove documentali.
Ed era sempre il promotore a indicare dove e cosa andare a cercare nelle chat o nei dispositivi, segnalando dei lassi di tempo precisi e delle parole chiave. Tanto che l’avvocato di monsignor Mauro Carlino, segretario prima del sostituto Becciu e poi del sostituto Pena Parra, ha fatto notare come una delle frasi incriminate – e secondo lui erroneamente interpretate – derivino dal fatto che non si siano considerati gli scambi fatti appena prima e appena dopo la frase, facendo perdere del tutto ogni sorta di contesto. Una questione, questa, sollevata anche da monsignor Carlino nel suo interrogatorio, quando, cellulare alla mano, andò e ricontestualizzare ogni frase a lui attribuitagli, mostrando come la parzialità della selezione dava anche adito a fraintendimenti.
Indagini a margine
Domenico De Salvo, vice ispettore della Gendarmeria, ha dettagliato una ventina di soggiorni in Svizzera – per le verità brevissimi, a volte di un solo pernotto – dell’ex officiale dell’Amministrazione della Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi, pagati dalla società Sogenel Capital Holding di Enrico Crasso, anche lui imputato e storico investitore dei fondi della Segreteria di Stato.
In una dichiarazione spontanea, Tirabassi ha messo in luce come tutti i viaggi avessero ragione di ufficio, tutti fossero stati autorizzati o comunicati al suo diretto superiore, monsignor Perlasca, sebbene non ci fosse un metodo ufficiale per farlo, e Perlasca si limitasse in molti casi ad autorizzare il tutto solo verbalmente. Riguardo i pagamenti, era d’uso che pagasse il partner.