Roma , venerdì, 23. settembre, 2022 18:00 (ACI Stampa).
"Il Diavolo…quello spirito orgoglioso…non può tollerare di venire canzonato". Lo afferma Tommaso Moro, tra gli altri, e non a caso troviamo questa citazione in apertura di un libro che vuole prendere in giro il Diavolo e, in seconda battuta, gli esseri umani che, come gonzi arroganti, gli si buttato in braccio e finiscono per diventare il suo banchetto preferito.
Il libro in questione è un vero e proprio “classico”: si tratta di "Le lettere di Berlicche" di Clive Staples Lewis. Ne riparliamo con grande piacere, a partire da una notizia confortante: "Le lettere", sparite da un po’ di tempo dagli scaffali delle librerie, è riapparso pochi giorni fa in una bella edizione degli Oscar Mondadori, quindi davvero alla portata di tutti. E questa, appunto, ci pare una bella notizia e, in fondo, uno smacco proprio per il Diavolo in persona. Perché non deve mai averlo amato molto, proprio per via dell’evidente intento canzonatorio nei suoi confronti, e nella lucidissima abilità nel mostrare il meccanismo di molti suoi trucchi…
Di Lewis ricorderemo appena qualche aspetto della sua multiforme personalità e della sua importante opera letteraria. Insieme a J.R.R.Tolkien (a cui, non a caso è dedicato "Le lettere di Berlicche") è indicato come uno dei "padri" della narrativa fantasy nel Ventesimo secolo insieme a George McDonald e Tolkien, autore del ciclo di romanzi compresi nel famoso ciclo delle “Cronache di Narnia”, una delle opere letterarie di maggior successo del XX secolo, con una vendita complessiva di 100 milioni di copie in tutto il mondo. Era docente di lingua e letteratura inglese all’Università di Oxford e qui conobbe e iniziò una lunga e profonda amicizia con Tolkien, con il il quale, insieme anche a Charles Willliams e altri, fondò il celeberrimo circolo degli Inklings che tanta influenza ebbe sia a livello creativo che a livello religioso e filosofico.
Lo scrittore inventa l’espediente di un colloquio epistolare tra demoni, lo zio Berlicche e il nipote Malacoda. Arguzia, umorismo, fine e consolante umorismo (che oggi ci appare come merce rara e da stimare ancora di più) in questa sorta di “catechismo infernale” ma anche solidissima teologia e dottrina, per mostrare a tutti come la vita quotidiana sia intrecciata costantemente di tentazioni e di “prove” della nostra fede e della nostra umanità. Scelte negative, malevole che si nascondono sotto l’apparenza del bene e dell’innocenza. Il male che si nasconde sotto le parvenze del bene si chiama tentazione ed è la trappola più comune tesa all’umanità. L’autore evidenzia già fin dall’inizio che "vi sono due errori, uguali e opposti, nei quali la nostra razza può cadere nei riguardi dei diavoli. Uno è il non credere alla loro esistenza. L’altro di credervi e di sentire per essi un interesse eccessivo e non sano. I diavoli sono contenti d’ambedue gli errori e salutano con la stessa gioia il materialista e il mago".
Il nipote racconta di come si sta industriando a portare alla dannazione un’anima tra il bene e il male, sullo sfondo dell’Inghilterra bombardata della Seconda guerra mondiale. L’inferno si trasforma, attraverso il carteggio tra zio e nipote, in un’azienda perfettamente efficiente; perché – scrive l’autore nella Prefazione all’edizione del 1961 – "il male supremo non è compiuto in quegli squallidi 'covi del crimine' che Dickens amava descrivere. Non è compiuto neppure nei campi di concentramento e nei campi di lavoro. Lì vediamo il suo risultato finale. Invece viene concepito e ordinato (mosso, assecondato, portato avanti e scandito) in uffici puliti, caldi, coi tappeti e ben illuminati, da uomini tranquilli coi colletti bianchi, manicure perfetta e guance ben rasate che non hanno bisogno di alzare la voce". Un’immagine che, oggi come ieri, mette i brividi più di forconi, fiamme e code biforcute.