L’analisi del Segretario di Stato è che la diplomazia ha fatto un passo indietro, perché in questo momento in cui si pensa a reagire con forza, ci sono due visioni che hanno il sopravvento. “Lo storico della diplomazia – dice il Segretario di Stato - direbbe che siamo di fronte ad un ritorno a quell’idea che dopo la Decretale Per Venerabilem di Innocenzo III, del 1202, sviluppò la moderna concezione della forza come risorsa di ogni Potenza per difendere la propria sovranità ed esclusiva autonomia”. Mentre il diplomatico “si accorge che deve confrontarsi con una concezione che ha assimilato la pace alla capacità di controllare territori e persone ivi residenti mediante la forza delle armi e non quella del diritto e delle istituzioni”.
Due visioni superate sia dalla Carta delle Nazioni Unite che dall’Atto Finale di Helsinki, che stabilivano piuttosto il principio che la forza non è posta a servizio delle armi, ma della sicurezza, della cooperazione e della giustizia considerate altrettanti strumenti per realizzare condizioni di pace”.
Il problema nel mondo multipolare è però quello che la forza viene attuato da soggetti diversi, soggetti anche non statali che però hanno il potere economico degli Stati. Anche il modello Helsinki risulta superato, perché “potrà portare ad una stabilità circoscritta, ad una pace a pezzi, che non basta” dato che la “pace è un bene superiore, frutto di quella unità tra le Nazioni capaci di andare oltre i singoli spazi sovrani e la forza che da questi può provenire”.
La risposta deve venire dal diritto internazionale. Ma anche questo ha nuove sfide da affrontare. Gli Stati mostrano “una frequente volontà” a “perseguire interessi particolari”, e in più il diritto internazionale è frammentato, e questo “ne compromette gli effetti”.
Sottolinea il Segretario di Stato vaticano: “È paradossale, ad esempio, assistere ad un allargamento delle attività terroristiche nonostante l’esistenza di una regolazione internazionale di contrasto, volontariamente decisa dagli Stati, ben strutturata e pensata anzitutto in funzione preventiva. Cosa non funziona, allora: le regole o la volontà di applicarle?”
Il problema, per la Santa Sede, è che si guarda “ai dettagli” più che ai principi. Per questo, mentre “si continua a ripetere che la prevalenza di interessi egoistici è tra le cause della povertà, del mancato sviluppo, dello sconvolgimento dei diversi ecosistemi, della corsa al controllo di territori e risorse, non si usa lo stesso criterio per sanzionare comportamenti che delle regole ignorano la funzione fondamentale: garantire l’ordine tra le Nazioni e quindi la coesistenza pacifica della famiglia umana”.
Il diritto internazionale tocca anche i conflitti interni, perché questi sono comunque caratterizzati non solo dall’arrivo di armi dal mercato internazionale, ma persino di combattenti dal mercato internazionale. Anche in questo caso, lo scenario è del tutto cambiato.
Allora si parla di una riforma del diritto internazionale. Una delle proposte, che la Santa Sede supporta, è quella “dell’istituzione di un meccanismo permanente per controllare se e come le parti umanizzano la guerra”, che verrà lanciata all’imminente incontro delle Parti contraenti le Convenzioni di Ginevra e i Protocolli aggiuntivi, in cui si parlerà appunto di quanto il diritto umanitario possa essere efficace durante i conflitti armati. Una proposta che fa il paio con l’idea di un “ufficio per la mediazione” da stabilire all’interno della Segreteria di Stato vaticana, lanciata dallo stesso Cardinal Parolin qualche tempo fa. E ci sono altri movimenti di riforma del Diritto Internazionale Umanitario. Se ne parlerà, per esempio, anche alla Conferenza della Rete Internazionale della Croce Rossa il prossimo 8 dicembre, impegnata a delineare un modo di rafforzare il diritto umanitario, in particolare per quanto riguarda la tutela di prigionieri in conflitti non internazionali, e un miglioramento della cooperazione tra soggetti statali e non statali.
È quest’ultimo tema che sta a cuore al Cardinal Parolin, che chiede di esplorare come far rispettare il diritto umanitario internazionale anche a quanti non sono impegnati in queste conferenze delle parti, ai soggetti non statali che ormai hanno preso il sopravvento.
“Lo fece la diplomazia in passato, perché non riproporlo? Questo significa che nessun attore di un conflitto può essere escluso dalla sua soluzione, come ha imposto in modo significativo il processo di Helsinki”, afferma il Cardinale segretario di Stato.
La cooperazione è la “sfida determinante”, perché ha come obiettivo “lo sviluppo dei Paesi più svantaggiati”, dato che il “rapporto giustizia-ingiustizia” è alla base dei conflitti. Ma oggi – afferma il Cardinal Parolin – “considerando i timori determinati dall’uso della forza – o più ampiamente di fronte a scontri di vario tipo – prevale un orientamento che destina maggiori fondi alle spese militari o per rafforzare la sicurezza, dimenticando il ruolo strategico della crescita economica in realtà nelle quali il fenomeno terroristico mette le sue radici”.
Eppure queste radici sono già incluse nella denuncia delle “periferie esistenziali” portata avanti da Papa Francesco. La diplomazia – afferma il Segretario di Stato – deve portare avanti queste sfide attraverso un negoziato permanente, cercando di non vanificare quanto si è fatto, per esempio con l’approvazione dell’Agenda ONU 2030 per gli obiettivi di sviluppo sostenibile.
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La cooperazione può essere una risposta alla guerra, ma la “guerra è purtroppo presente” e allora il Cardinal Parolin sostiene che “l’unico modo di renderla meno inumana è la sua regolamentazione”, anche se “sul versante delle regole, infatti, il ricorso alla guerra da sempre evidenzia l’oggettiva indisponibilità delle parti in conflitto a rispettare i principi della convivenza internazionale o più ampiamente ad applicare il diritto vigente”, mentre anche sul diritto in guerra ormai si è arrivati a regole che hanno avuto “un minore livello di condivisione”, e persino “disapplicazione”.
Da parte sua, la Santa Sede si propone nel ruolo di mediatore, come già fece con l’impegno di Leone XIII alla Conferenza della Pace dell’Aja del 1899, cercando di preservare “il principio di buona fede” che caratterizza l’Atto Finale di Helsinki.
Un principio generalmente disatteso perché è “sufficiente una lettura delle situazioni in aree definite “a crisi prolungata” – penso alla martoriata Regione mediorientale e alle aree destabilizzate dell’Africa – per costatare gli atteggiamenti degli attori coinvolti che contando solo sulla forza delle armi disconoscono gli obblighi assunti, privilegiano le situazioni di fatto e rendono così impossibile ogni iniziativa di pace”.
Certo, il modello Helsinki può essere ancora valido, lascia agli Stati poca autonomia per il suo interesse personale ed escludenti. E - conclude il Segretario di Stato - c'è da sviluppare "una maggiore fraternità".