Come questi enti influiscano sul bilancio non viene realmente dettagliato, e non si presenta lo storico, né una separazione molto precisa del bilancio di ogni ente. Ci sono, tuttavia, alcuni dati interessanti.
Prima di tutto, le entità che danno contributi: nel consolidato si contano 15 milioni di euro forniti dal governatorato, 22,1 milioni di euro forniti dallo IOR e 1 dall'Obolo di San Pietro, Non si parla dei più di 30 milioni inviati dall’APSA, ma si comprende che il bilancio della Santa Sede non include quello del Governatorato dello Stato di Città del Vaticano, che non viene pubblicato dal 2015.
Si nota anche che lo scorso anno la Santa Sede ha speso 27,1 milioni in servizi di consulenza. La cosa interessante, però, riguarda il dettaglio di spese generale delle varie entità.
Il Dicastero per la Comunicazione è quello che spende di più, 40 milioni di euro, mentre le nunziature pesano a bilancio per 35 milioni e l’Evangelizzazione dei Popoli per 20 milioni. Il Dicastero per le Chiese Orientali costa 13 milioni l’anno, la Biblioteca Vaticana costa 9 milioni l’anno, la Carità costa 8 milioni.
Da notare che, tra le voci con maggior numero di spesa, c’è anche la Pontificia Università Lateranense, che pesa a bilancio per 6 milioni l’anno. Più dello Sviluppo Integrale (4 milioni) o degli Archivi Vaticani (4 milioni), mentre è presumibile sia destinata a salire la cifra spesa per il Tribunale vaticano, che in un tempo pre-maxi processo comunque incideva per 3 milioni l’anno.
Se poi si guarda ai concetti, allora la diffusione del messaggio costa 44 milioni di euro l’anno, mentre il supporto alle chiese in difficoltà in specifici contesti di evangelizzazione 38 milioni.
Un punto della riforma che inciderà fortemente sul bilancio sarà quello del limite di un massimo di 10 anni di servizio in Curia per gli officiali e i chierici. Questo significa che la Santa Sede non dovrà più gestire troppe pensioni di monsignori con incarichi ventennali, ma potrà semplicemente versare – nel caso i monsignori fossero italiani – i contributi dei cinque o dieci anni di servizio al Sostentamento del Clero della CEI, che poi provvederà ad integrare con il resto. La spesa è infinitamente minore, va ad alleviare le provate casse del fondo pensione e sembra abbia anche l’obiettivo di evitare si formino centri di potere. Succede, così, che monsignor Marco Visioli, sottosegretario della Congregazione della Dottrina della Fede, dopo cinque anni venga rimandato in diocesi a fare il parroco, e questo sarà il caso per molti altri incarichi che sono a scadenza.
L’APSA, che invece va ad agire sempre più come una “banca centrale” del Vaticano e come un centro di investimenti, ha preso una strada differente da quella della Segreteria per l’Economia. Il bilancio è più istituzionale, difende la storicità dell’istituzione, spiega il lavoro di investimento svolto. Già nel bilancio dello scorso anno, veniva fatto notare che la vendita di un immobile ristrutturato in Francia aveva generato utili che erano serviti in operazioni di carità.
Ovvio, il primo problema è quello di mettere a rendita gli investimenti, che tradizionalmente, sin da quando si costituì la “Speciale” per la gestione dei fondi ottenuti nell’ambito delle trattative della Conciliazione, sono investimenti immobiliari.
L’Amministrazione per il Patrimonio della Sede Apostolica ha dunque avviato due progetti, denominati “Maxilotti 1” e “Maxilotti 2”, che ha previsto la ristrutturazione di 79 unità abitative in prima istanza e di 61 altre unità immobiliari nella seconda fase. Si trattava di immobili dell’APSA, rimasti sfitti e in cattive condizioni, ristrutturati per essere rimessi sul mercato. Da notare che a giugno 2022, c’era stato un nuovo regolamento per le assegnazioni degli immobili.
Per quanto riguarda la parte mobiliare, l’APSA ha mantenuto alta la liquidità e investito in maniera conservativa, con solo il 25 per cento del pacchetto destinato ad azioni. Le società partecipate sono soprattutto in Francia (8,6 milioni di euro), Regno Unito (5,2 milioni di euro) e Svizzera (1,1 milioni di euro), a testimonianza del fatto che gli investimenti vengono diversificate.
Gli immobili si contano in 4086 unità, per una superficie di 1,5 milioni di metri quadrati, il 30 per cento dei quali destinati a libero mercato. Il restante 70 per cento è destinato a necessità istituzionali, dunque o affittati a canone avvantaggiato o a canone nullo a lavoratori ed enti della Santa Sede.
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Gli immobili all’estero sono gestiti da società storiche, costituite già negli anni Trenta, che ogni tanto escono nelle cronache mediatiche come fossero novità. Non lo sono.
La Grolux, che gestisce gli immobili nel Regno Unito, è tra l’altro partecipata al 49 per cento dal Fondo Pensioni vaticano. Ora sta ristrutturando un edificio per 16 milioni di sterline, da riaffittarlo poi ad un canone potenziale di 1,2 miliardi. Una operazione analoga a quella del palazzo di Sloane Avenue a Londra della Segreteria di Stato, in fondo.
In Svizzera c’erano 10 società, tutte ormai convogliate nella storica Profima, che ha operato acquisti di housing sociale. In Francia, tutto viene gestito da Sopridex.
Sono tutti dati che testimoniano come, al di là di una razionalizzazione necessaria, la politica di investimenti della Santa Sede continua secondo tradizione. Colpiscono invece le nuove modalità di conteggio della Segreteria per l’Economia, perché l’aumento degli enti nel perimetro del bilancio non permette di comprendere fino in fondo quale fosse la situazione precedente, dato che non viene fornita una lista né degli enti precedentemente nel perimetro, né di quelli che ora sono stati inclusi.
E non si è compreso ancora in che modo la crisi da COVID abbia effettivamente impattato sulle finanze della Santa Sede. Manca un bilancio del governatorato da troppi anni, anche se è stato finalmente pubblicato quello dell’Obolo.
Il bilancio dell’APSA, in realtà, sembra aver inaugurato una nuova fase: quella in cui la Santa Sede si impegna a spiegare le ragioni e la storia delle sue finanze. Sarà questa la linea generale?