Si tratta come spiega il professor Fabrizio Bisconti Magister della Pontificia Accademia di quella “multitudo ingens, come la definisce Tacito in un celebre passaggio degli Annales, che soffrì i supplizi più atroci in seguito alle disposizioni neroniane nei confronti dei cristiani accusati di avere provocato l’incendio che aveva distrutto Roma nell’estate del 64.
Eppure, fino al 62, i cristiani erano stati tollerati dal governo romano, anzi erano stati considerati favorevolmente, in quanto la predicazione degli apostoli si collocava come una forza nuova contro i messianismi rivoluzionari e antiromani che attraversavano la Giudea e i territori della diaspora giudaica.
Dopo il processo di Stefano, l’unico esempio di intolleranza nei confronti dei cristiani può essere individuato nell’uccisione di Giacomo, fratello di Giovanni, quando, tra il 41 e il 44, il potere era stato affidato al re locale Erode Agrippa I, il quale -seguendo gli Atti degli Apostoli (12, 1-3)- incoraggiato dal fatto che questa esecuzione aveva reso contenti i Giudei, fece arrestare anche Pietro che, secondo la tradizione, liberato dal carcere se ne andò per la prima volta a Roma.
Anche gli episodi occorsi, negli anni a venire, a Paolo, si rivelano come equivoci (Atti degli apostoli, 21, 38) risolti con la dichiarazione di innocenza (26, 92) oppure come conflitti più cruenti, quali l’imprigionamento e la fustigazione di Paolo e Sila a Corinto, dove si evitò, proprio da parte delle autorità romane, il giudizio finale (18, 12-18) o anche la proclamazione dell’innocenza di Paolo e dei suoi seguaci che a Efeso avevano preso parte a un tumulto contro gli argentieri locali (19, 23-40).
Ancora più significativo risulta l’episodio che vede protagonista Sergio Paolo, proconsole di Cipro tra il 46 e il 48, il quale chiese che fossero condotti presso di lui Paolo e Barnaba, per ascoltare la parola, talché credette e strinse un duraturo rapporto con l’apostolo delle genti (13, 12).
Nella vita di Claudio, Svetonio ricorda che «il principe cacciò da Roma gli ebrei, in continuo tumulto per le istigazioni di Cristo (impulsore Chresto)» (Claudius, 25). Ma non manca chi riconosce nel Cristo, che provocò tali tumulti, un omonimo del Salvatore. Anche al tempo di Nerone, non si riconoscono gravi episodi di intolleranza nei confronti dei cristiani e, anzi, proprio sotto il suo impero, si concluse felicemente il primo processo di Paolo, che fu libero di predicare addirittura nel pretorio e nella residenza imperiale.
Nello stesso tempo, alla fine degli anni 50, si conclude felicemente il processo alla nobildonna romana Pomponia Graecina, accusata di «superstizione straniera», da identificare proprio con il cristianesimo, assolta dal tribunale del marito Plauzio, ex console famoso per una vittoria in Britannia (Tacito, Annales, XIII, 32).
In questo clima di certa tranquillitas nei confronti di quella comunità cristiana a cui Paolo indirizza la sua celebre lettera si assiste, improvvisamente, tra la fine del 62 e l’avvio del 63, a una svolta della politica neroniana, che culmina con il ritiro dalla vita politica di Seneca, il ripudio della moglie Ottavia, figlia di Claudio, e le nuove nozze con Poppea, l’allontanamento dell’imperatore dal senato, la condanna nei confronti della classe dirigente romana, vicina al pensiero stoico, e la persecuzione nei confronti dei Cristiani.
Per quest’ultimo episodio dobbiamo rifarci al racconto tanto dettagliato quanto feroce di Tacito, che ricostruisce la dinamica dell’incendio che scoppiò a Roma nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 64, il più esteso e devastante della sua storia, da paragonarsi soltanto a quello provocato dai Galli nel 390, quando, però, la città aveva dimensioni meno importanti.
«L’avvio dell’incendio (Annales, XV, 38-40) si verificò laddove la valle del circo Massimo confina con il Palatino e il Celio. Il fuoco proveniva dalle botteghe colme di mercanzie infiammabili; da qui, con il favore del vento, l’incendio interessò l’intero circo, né le abitazioni, i templi o altre costruzioni funsero da barriera. Il fuoco, dalle zone pianeggianti, giunse ai colli, aiutato dalla conformazione della città costituita da strade strette e quartieri irregolari. Le donne gridavano impaurite, i vecchi erano impietriti, alcuni tentavano di aiutare gli invalidi, attendendoli, mentre erano avvolti dalle fiamme da ogni parte (...) Alla fine, stremati, riempivano le strade e si sdraiavano nei campi, avendo perduto oramai ogni bene (...) Né si poteva arrestare l’incendio, perché alcuni impedivano di spegnere il fuoco e appiccavano altri focolai con torce e fiaccole (...)
Nerone, che era ad Anzio, tornò a Roma solo quando l’incendio si avvicinò alla sua dimora, che si estendeva dal Palatino ai giardini di Mecenate. Anche la sua casa era in fiamme e allora cercò di dare sollievo alla popolazione aprendo il Campo Marzio e anche i suoi giardini; inoltre fece costruire delle baracche per ricoverare i profughi e fece portare viveri da Ostia. Tutti questi provvedimenti cadevano nel vuoto, in quanto si diffuse la voce che l’imperatore, mentre la città bruciava, era entrato nel suo teatro privato per cantare l’incendio di Troia, confrontandolo con la sciagura che si stava consumando. Dopo sei giorni l’incendio sembrò arrestarsi (...) ma poi riprese, facendo cadere templi e portici; sembrava che Nerone cercasse la gloria di fondare una nuova città e di darle il suo nome».
Delle quattordici regioni in cui si divideva Roma, quattro sole rimanevano integre, tre erano state rase al suolo, nelle altre sette pochi avanzi di edifici restarono laceri e bruciacchiati.
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La responsabilità del disastro fu addossata ai membri della nuova religione cristiana. Gli storici hanno discusso a lungo sulla causa dell’incendio. Svetonio, in effetti, parla in diversi momenti dell’incendio e delle misure contro i cristiani (Nerone, XXXVIIII), ma è ancora Tacito a parlare esplicitamente, in questo senso: «Così Nerone, per soffocare le voci che si erano diffuse, indicò come colpevoli quelli che per flagitia invisos vulgus Christianos appellabat.
Per primi vennero catturati coloro che confessavano, poi coloro che erano accusati per delazione. Ai condannati a morte si aggiunse la derisione: vennero fatti sbranare dai cani, dopo essere stati mascherati da bestie selvagge, oppure crocifissi e dati alle fiamme, al calare del giorno, come fiaccole per rischiarare la notte. Nerone aveva riservato i suoi giardini per questo spettacolo, nascondendosi nella folla vestito da auriga (...) Perciò nei confronti delle vittime (...) nasceva un sentimento di pietà, dal momento che erano evidentemente sacrificati non per il pubblico bene ma per la crudeltà di un singolo» (Annales, XV, 44, 2-5).
Come si arguisce dall’epilogo di questo dettagliato resoconto, l’accusa di incendiari rivolta ai cristiani riuscì a impressionare anche i pagani, ma non manca la versione cristiana dei fatti accaduti e, segnatamente, quella riferita, alla fine del I secolo, da Clemente Romano nella sua prima lettera ai cristiani di Corinto: «Fu a causa della gelosia e della malvagità che coloro che erano le massime e giuste colonne (i principi degli apostoli) hanno sofferto le persecuzioni e hanno combattuto sino alla morte. Ricordiamoci dei buoni apostoli: Pietro che, per ingiusta gelosia, ha sofferto diversi dolori e, dopo aver affrontato il martirio ebbe accesso alla gloria dovuta. Paolo, anch’egli accusato per gelosia, gettato in prigione sette volte, bandito, lapidato, divenuto araldo della parola in Oriente e in Occidente, ricevendo la nobile ricompensa della sua fede (...) A questi uomini si unì una grande moltitudine di eletti che, soffrendo a causa della gelosia molti supplizi e tormenti, furono per noi modelli esemplari. Alcune donne furono perseguitate e soffrirono orribili supplizi».
Molte di queste esecuzioni si svolsero, a detta delle fonti, proprio nel circo di Nerone, che si sviluppava nei giardini vaticani e di cui sono state rinvenute alcune porzioni in corrispondenza della piazza e della Basilica di San Pietro”.