Padova , venerdì, 18. marzo, 2022 18:00 (ACI Stampa).
Le trincee scavate nella terra sono come ferite che non si rimarginano mai. Forse tutt’intorno riescono a rinverdire i prati e gli alberi, però quelle ferite non si possono nascondere. La guerra sconvolge tutto, e per molto tempo. Il Moro lo sa, lo ha imparato a sue spese, lo ha visto con dolore nella sua montagna ferita, deturpata, stravolta. Quella stessa montagna, il Brenta, anzi, “la” Brenta, che lo ha affascinato sin dalla prima adolescenza. In quella montagna c’è tutto, il suo destino, il suo desiderio di felicità, il posto dove avrebbe sempre voluto essere, la risposta alla sete d’infinito, di assoluto.
Il Moro ha capito molto presto che per lui la montagna avrebbe significato il senso della vita e così sarebbe stato. E per sua fortuna non avrebbe visto lo scempio che i decenni a venire avrebbero riservato al paesaggio che è la forza di una civiltà e di un popolo.
La storia del Moro, personaggio realmente esistito – Agostino Faccin - ma fervidamente trasformato dal racconto di uno scrittore, oggi appare più che mai esemplare e paradigmatica: l’orrore e la follia di una guerra, precisamente quella del 1915-18 , che distrugge vite umane e semina devastazioni che prolungheranno le loro ombre funeste a lungo, e che tragicamente in queste settimane si replica in Ucraina; la felicità legata ad un luogo amato, vissuto e custodito: il rifiuto dell’eccesso, di un dilaniamento della natura in nome di mode effimere o di un concetto di progresso slegato all’idea di giustizia sociale e di rispetto per l’uomo stesso; il bisogno di una visione più ampia della vita e di un senso che “punti” verso l’alto. Il paradigma di tutte le guerre; la parabola pericolosa di molte ideologie vuote e della omologazione del pensiero.
Il romanzo “Il Moro della Cima” , scritto da Paolo Malaguti e appena uscito in libreria, tratteggia un personaggio indimenticabile e racconta un periodo cruciale della storia da un punto di vista inusuale, quella appunto di un uomo che diventa la guida per i sentieri che solcano la montagna trasformata in una delle prime linee del conflitto. Non un grande eroe, un protagonista della grande Storia, ma un uomo umile, di quelli che gli eventi registrati dagli storici ignorano, ma che costruiscono, con coraggio e con resistenza, la vita quotidiana.
Da quando era poco più di un bambino, il Moro ha una certezza: l'unico luogo in cui si sente al sicuro e a casa propria è tra i boschi di larici, i prati d'alta quota, e qualche alpinista che comincia ad avventurarsi lassù.. Così, quando gli danno in gestione un rifugio proprio sul Grappa, sembra che la sua vita assuma davvero la forma giusta. “Soprattutto all'alba, quando la luce è più morbida e la pianura si svela più ampia, e con lo sguardo arrivi fino alla curva del mare lontano: allora ti viene liscio credere che la vita possa davvero essere tutta così, giornate di sole e pascoli verdi”. Una vita, dunque, legata alla natura e che dalla natura trae la sua forza e la forza dei suoi valori.
Il Moro presto diventa famoso, la sua figura familiare, si diffonde la fama di quell'uomo dai baffi scuri e la pelle bruciata dal sole, con i suoi racconti fantasiosi e le sue varie eccentricità. E in tanti salgono fin lassù per averlo come guida, visto che conosce come nessun altro quel microcosmo di pietre e di boschi. Poi nel 1918, quando la guerra è già divampata, il Grappa è la linea del fronte, un campo di battaglia che non tarderà a trasformarsi in un cimitero a cielo aperto e infine in un sacrario d'alta quota. Il Moro deve lasciare la sua cima, dove tornerà a guerra finita e davanti allo sfregio degli uomini cercherà il suo personalissimo modo di onorare la sacralità della montagna. Malaguti racconta una storia, come ormai fa da molto tempo, che riporta in vita un mondo perduto che vorremmo ritrovare prima di tutto per ritrovare qualcosa di noi stessi.