Si tratta quindi di un’operazione che non si limita all’Ucraina, ma intende regolare i conti con l’intero Occidente, con motivazioni esplicite di tipo ideologico e perfino storico-filosofico, che comprendono la riparazione dei torti subiti dalla fine dell’Urss alla restaurazione di una missione russa nel mondo, come vessillo di una civiltà ortodossa di fronte alla degradazione morale degli occidentali. Più in generale, la Russia di Putin intende distruggere la visione del mondo detta ‘globalizzazione’, che comporta la parità dei diritti e l’omologazione culturale, per affermare il ‘sovranismo’ dell’identità popolare e della prevalenza dei diritti delle maggioranze”.
Per quale motivo questo è un conflitto anche religioso e culturale?
“La cultura è strumento dell’interpretazione storica, la religione è fondamento dell’identità nazionale. E’ dal 2007, quando intervenne a Monaco di Baviera, che Putin propone la rilettura della storia russa e internazionale come una dimensione necessaria della politica e della vita sociale, attingendo a ispirazioni letterarie, filosofiche e teologiche evidentemente fornite da diversi ideologi e personalità che lo sostengono. Molti di questi sono ben noti, come Aleksandr Dugin, Vladimir Surkov e il metropolita di Pskov Tikhon (Ševkunov), e si potrebbero aggiungere diversi altri nomi.
La Chiesa ortodossa russa è in generale la fonte d’ispirazione più importante per il presidente e tutta l’élite al potere, sia per la sua presenza originaria nella storia del popolo russo, sia per l’effetto della ‘rinascita religiosa’ del post-comunismo. In questo fenomeno ci sono aspetti spontanei di ritorno alla fede e alla ricerca religiosa nella popolazione, ma anche aspetti di programmazione dall’alto, per rendere la Chiesa nuovamente una struttura ufficiale dello Stato, nella variante locale e nuova della ‘sinfonia bizantina’ dei due poteri.
Quando Vladimir Putin divenne presidente nel 2000, la Chiesa ortodossa celebrò il Sinodo del secondo millennio cristiano, in cui canonizzò l’ultimo zar Nicola II e approvò il documento sulla ‘Dottrina sociale della Chiesa’, preparato dall’allora metropolita Kirill (Gundjaev), divenuto patriarca nel 2009. Quello è il programma politico di Putin del ‘sovranismo ortodosso’, da lui ulteriormente radicalizzato nell’ultimo decennio, anche al di là delle indicazioni della Chiesa stessa”.
In quale modo può essere risanata la ‘ferita’ tra Ortodossi?
“La ferita risale all’origine stessa della Rus’ di Kiev alla fine del primo millennio: i russi non hanno mai accettato di essere ‘figli’ di Costantinopoli, e hanno sempre cercato di governarsi da soli. Dal 1441 hanno dichiarato unilateralmente la propria autocefalia, ritenendo i greci ormai eretici per aver firmato l’Unione di Firenze. Nel 1589 costrinsero il patriarca di Costantinopoli, che si era recato in Russia a chiedere sostegno economico, a proclamare il Patriarcato di Mosca, una novità ecclesiologica imitata poi nel secolo XIX dalle altre Chiese locali e istituendo i patriarcati nazionali ortodossi. Le liti sono state molte e di vario livello, poi risanate con riconciliazioni più o meno convinte, come forse avverrà ancora tra diversi anni, ma alla base si evidenzia una fragilità ecclesiologica in tutta l’Ortodossia cristiana. Non si tratta solo della mancanza di un primato di tipo papale, ma di una diversa interpretazione dei dogmi dei secoli patristici, che richiederebbe una discussione conciliare reale. Nel 2016 il rifiuto dei russi a recarsi al Concilio panortodosso di Creta fu la dimostrazione di questo limite storico e dogmatico, che dovrebbe far molto riflettere anche i cattolici, a loro volta spesso incerti nella definizione delle autonomie nazionali”.
Recentemente lei ha scritto un libro intitolato ‘Lo zar di vetro. La Russia di Putin’, in cui analizza le proteste nelle regioni dell’Estremo Oriente russo e le rivolte nell’Occidente della ‘Russia Bianca’: per quale motivo Putin è lo ‘zar di vetro’?
“Il titolo del libro vuole suggerire l’esaurimento da parte di Putin di tutta la sua costruzione ideologico-sociale, ed era riferito agli eventi del 2020, con la solenne celebrazione dei 75 anni dalla vittoria sul nazismo rovinata dal Covid, dalle proteste in Bielorussia e dalla risonanza dell’avvelenamento dell’oppositore Aleksej Naval’nyj. Oggi il titolo mi sembra ancora più appropriato, perché l’invasione dell’Ucraina è davvero l’arma finale del putinismo: se anche vincesse militarmente, ha ormai perso moralmente, e non solo di fronte all’opinione pubblica internazionale. In patria il presidente guerriero è sostenuto dalla metà più anziana della popolazione, ma i giovani sicuramente non lo seguono, nonostante la martellante propaganda inculcata fin dalle scuole elementari.
Non si può dire quanto Putin rimarrà al suo posto, dipenderà anche dagli esiti della guerra. Potrebbe restare presidente per un altro ventennio o magari a vita, ma sarebbe ormai una figura vuota e imbalsamata come il Brežnev degli anni ’80, che continua a ripetere roboanti annunci e proclami ideologici senza più un vero contatto con la realtà, lasciando intravedere un vuoto totale dentro e dietro di sé, come uno zar di vetro”.
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