È questa la sfida del sacerdozio, di cui è sintomi “la crisi vocazionale”, che nasce anche dalla “assenza nelle comunità di un fervore apostolico contagioso, per cui esse non entusiasmano e non suscitano attrattiva”, mentre “dove c’è vita, fervore, voglia di portare Cristo agli altri, sorgono vocazioni genuine”, e questo anche in parrocchie dove “i sacerdoti non sono molto impegnati e gioiosi”, ma dove la vita “fraterna e fervorosa della comunità suscita il desiderio di consacrarsi interamente a Dio”.
Il Papa, che a Buenos Aires aveva lanciato l’iniziativa “il Battesimo come opera missionaria”, ricorda che “ogni vocazione specifica e compimento del Battesimo”, e richiama dalla tentazione di vivere “un sacerdozio senza Battesimo, senza cioè la memoria che la nostra prima chiamata è alla santità”, e che “la nostra vocazione è prima di tutto una risposta a Colui che ci ha amato per primo”.
Chiosa Papa Francesco: “Vai a dire a qualche, sacerdote, a qualche vescovo che deve essere evangelizzato. Non capiscono. È il dramma di oggi!”.
Papa Francesco, dunque, tratteggia quattro vicinanze, quattro atteggiamenti che “danno solidità alla persona del sacerdote”, che possano “aiutare in modo pratico, concreto e speranzoso a ravvivare il dono e la fecondità che un giorno ci sono stati promessi”.
La prima è la vicinanza a Dio, che il sacerdote è chiamato a coltivare, perché “la vicinanza con Gesù, il contatto con la sua Parola, ci permette di confrontare la nostra vita con la sua e imparare a non scandalizzarci di niente di quanto ci accade, a difenderci dagli ‘scandali’.”
È una vicinanza che a volte “assume le forme di una lotta”, tanto che “molte crisi sacerdotali hanno all’origine proprio una scarsa vita di preghiera, una mancata intimità con il Signore, una riduzione della vita spirituale a mera pratica religiosa”. Senza la vicinanza a Dio, l’adorazione, un sacerdote è “solo un operaio stanco che non gode dei benefici degli amici del Signore”. E questo - dice Papa Francesco – succede quando “nella vita sacerdotale si pratica la preghiera solo come un dovere, dimenticando che l’amicizia e l’amore non possono essere imposti come una regola esterna, ma sono una scelta fondamentale del nostro cuore”.
Papa Francesco chiede di coltivare l’abitudine di “avere spazi di silenzio della giornata”, denuncia che “si fa fatica a rinunciare all’attivismo, perché quando si smette di affaccendarsi non viene subito nel cuore la pace, ma la desolazione; e pur di non entrare in desolazione, si è disposti a non fermarsi mai”. Eppure “è proprio accettando la desolazione che viene dal silenzio, dal digiuno di attività e di parole, dal coraggio di esaminarci con sincerità, che tutto assume una luce e una pace che non poggiano più sulle nostre forze e sulle nostre capacità”.
Fare spazio significa anche “avere un cuore abbastanza ‘allargato’ da fare spazio al dolore del popolo che gli è affidato e, nello stesso tempo, come sentinella annunciare l’aurora della Grazia di Dio che si manifesta proprio in quel dolore”. Perché “nella vicinanza a Dio il sacerdote rafforza la vicinanza al suo popolo; e viceversa, nella vicinanza al suo popolo vive anche la vicinanza al suo Signore”.
Papa Francesco poi sottolinea che si deve essere vicini al vescovo, secondo una obbedienza che “non è un attributo disciplinare”, bensì “la caratteristica più profonda dei legami che ci uniscono in comunione”, che significa “imparare ad ascoltare e ricordarsi che nessuno può dirsi detentore della volontà di Dio, e che essa va compresa solo attraverso il discernimento”.
E dunque, il vescovo “rimane per ogni presbitero e per ogni Chiesa particolare un legame che aiuta a discernere la volontà di Dio. Ma non dobbiamo dimenticare che il vescovo stesso può essere strumento di questo discernimento solo se anch’egli si mette in ascolto della realtà dei suoi presbiteri e del popolo santo di Dio che gli è affidato”. Papa Francesco denuncia che il male “per distruggere la fecondità dell’azione della Chiesa, cerca di minare i legami che ci costituiscono”. E allora vanno difesi “i legami del sacerdote con la Chiesa particolare, con l’istituto a cui appartiene e con il vescovo rende la vita sacerdotale affidabile”.
Papa Francesco sottolinea che “l’obbedienza è la scelta fondamentale di accogliere chi è posto davanti a noi come segno concreto di quel sacramento universale di salvezza che è la Chiesa”, e va da sé che può essere anche “confronto, ascolto e, in alcuni casi, tensione”, cosa che richiede “che i sacerdoti preghino per i vescovi e sappiano esprimere il proprio parere con rispetto e sincerità”, e che i vescovi siano umili, capaci di ascolto, di autocritica, e di lasciarsi aiutare”.
Vicino al vescovo, ma anche agli altri sacerdoti. È la vicinanza della fraternità, che significa “scegliere deliberatamente di cercare di essere santi con gli altri e non in solitudine”.
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Commenta Papa Francesco: “A volte sembra che la Chiesa sia lenta – ed è vero –, ma mi piace pensare che sia la lentezza di chi ha deciso di camminare in fraternità”. E le caratteristiche della fraternità sono quelle dell’amore, e significa imparare la pazienza, il cui contrario è l’indifferenza. E questo porta in molti presbiteri “il dramma della solitudine, del sentirsi soli”, al punto di sentirsi “non degni di pazienza, di considerazione. Anzi, sembra che dall’altro venga il giudizio, non il bene, non la benignità”, secondo l’incapacità di gioire del bene che prende il nome dell’invidia, e il Papa lo sottolinea, dice che "c'è tanta invidia nelle nostre comunità", afferma che è l'atteggiamento del diavolo, e - afferma - "nei nostri presbiteri c'è l'invidia. Non tutti sono invidiosi, c'è la tentazione dell'invidia a portata di mano. E dall'invidia il chiacchiericcio".
Così, “per sentirci parte della comunità, dell’“essere noi”, non c’è bisogno di indossare maschere che offrono di noi solo un’immagine vincente. Non abbiamo cioè bisogno di vantarci, né tanto meno di gonfiarci o, peggio ancora, di assumere atteggiamenti violenti, mancando di rispetto a chi ci è accanto, perché ci sono anche forme clericali di bullismo”.
L’unico vanto del sacerdote - nota Papa Francesco - è “la misericordia del Signore”, mentre l’amore fraterno “non cerca il proprio interesse, non lascia spazio all’ira, al risentimento”, e anzi “quando incontro la miseria dell’altro, sono disposto a non ricordare per sempre il male ricevuto, a non farlo diventare l’unico criterio di giudizio, fino al punto magari di godere dell’ingiustizia quando riguarda proprio chi mi ha fatto soffrire”.
Continua Papa Francesco: “L’amore vero si compiace della verità e considera un peccato grave attentare alla verità e alla dignità dei fratelli attraverso le calunnie, la maldicenza, il chiacchiericcio”.
Ma l’amore non è una utopia, è difficile, è “la grande profezia che in questa società dello scarto siamo chiamati a vivere” , una profezia che “rimane viva e ha bisogno di annunciatori; ha bisogno di persone che, consapevoli dei propri limiti e delle difficoltà che si presentano, si lascino toccare, interpellare e smuovere dalle parole del Signore”.
Secondo Papa Francesco, “solo chi cerca di amare è al sicuro”, mentre “chi vive con la sindrome di Caino, nella convinzione di non poter amare perché sente sempre di non essere stato amato, valorizzato, tenuto nella giusta considerazione, alla fine vive sempre come un ramingo, senza mai sentirsi a casa, e proprio per questo è più esposto al male: a farsi male e a fare del male”. Ed è questa fraternità che rende “possibile vivere con più serenità anche la scelta celibataria”, perché “il celibato è un dono che la Chiesa latina custodisce, ma è un dono che per essere vissuto come santificazione necessita di relazioni sane, di rapporti di vera stima e vero bene che trovano la loro radice in Cristo”. Ma, "senza amici e senza preghiera il celibato può diventare un peso insopportabile e una contro-testimonianza alla bellezza stessa del sacerdozio".