Advertisement

Cambiamento climatico, l'appello dei vescovi di tutto il mondo

Firma dell'appello di vescovi e patriarchi al COP21 | Il Cardinal Oswald Gracias firma l'appello al COP21, Sala Stampa Vaticana, 26 ottobre 2015 | Bohumil Petrik / CNA Firma dell'appello di vescovi e patriarchi al COP21 | Il Cardinal Oswald Gracias firma l'appello al COP21, Sala Stampa Vaticana, 26 ottobre 2015 | Bohumil Petrik / CNA

È la richiesta di un accordo sul clima “giusto e vincolante” quello che viene lanciato da Cardinali, Patriarchi e vescovi di tutto il mondo attraverso le associazioni continentali delle Conferenze Episcopali continentali. L’auspicio è che a Parigi, dove si tiene la COP21, ovvero la 21esima conferenza delle parti sul cambiamento climatico, si riesca finalmente a creare un vero cambiamento.

Un problema preso sul serio da Papa Francesco, che ha voluto fare una enciclica tutta dedicata al tema ecologico, seppur declinato in maniera ampia, e non semplicemente settoriale. E che poi lo stesso Papa ha sviluppato nel suo discorso alle Nazioni Unite, quando ha declinato gli obiettivi di sviluppo sostenibile nello sviluppo umano integrale, che è poi il tema principe della Dottrina Sociale della Chiesa.

La dichiarazione è stata firmata in Sala Stampa Vaticana il 26 di ottobre. Sottolinea che “credenti o non, siamo d’accordo oggi che la terra è essenzialmente una eredità comune, i cui frutti sono destinati a beneficio di tutti,” e che “il danno al clima e all’ambiente ha enormi ripercussioni.” Viene notato “il forte impatto del rapido cambiamento climatico sui livelli del mare, sui fenomeni atmosferici estremi, sul deterioramento degli ecosistemi e sulla perdita di biodiversità.” Ma il cambiamento climatico ha soprattutto effetto sui Paesi più poveri.

Vescovi e patriarchi sottolineano che “l’accelerazione del cambiamento climatico è in gran parte dovuta all’attività umana incontrollata, che lavora su un modello particolare di progresso e sviluppo.” E in queste parole si legge anche la delusione del fallimento di molte conferenze, nonché della preconferenza di Bonn, che viene citata da quanti poi intervengono in Sala Stampa vaticana. I problemi sono sempre gli stessi: chi finanzierà il cambiamento? Chi controllerà le nazioni e le industrie (ma soprattutto le multinazionali) perché si facciano responsabili di questo cambiamento? A chi sarà attribuita una governance generale che governi il passaggio a un nuovo modello di sviluppo che sia anche sostenibile per il clima?

Il problema del carbone – che pure è delineato nella dichiarazione, quando si parla della dipendenza dai combustibili fossili – diventa parte del problema, non il centro del problema. A un certo punto si è creata anche una griglia di “pacchetti di inquinamento” che ogni nazione può utilizzare, con il risultato che le nazioni più ricche comprano un pacchetto dalle nazioni povere e non industrializzate quando queste non lo utilizzano. Si tratta di soluzioni che solo lontanamente possono creare un nuovo modello di sviluppo. Per questo, i vescovi chiedono che “l’accordo” a Parigi” deve anteporre il bene comune agli interessi nazionali,” e sottolineano che “è essenziale anche che i negoziati si concludano con un accordo vincolante che protegga la nostra casa comune e tutti i suoi abitanti.”

Advertisement

L’appello fa dieci proposte specifiche: che si tenga conto non solo delle dimensioni tecniche, ma anche di quelle etiche e morali dei cambiamenti climatici; che si considerino clima e atmosfera come beni comuni globali (in dottrina sociale, beni di destinazione universale); che l’accordo sia “equo e giuridicamente vincolante” e che garantisca “diritti umani” anche per le minoranze, come i popoli indigeni.

Dopo questi tre comandamenti, si passa alle proposte tecniche per “limitare l’aumento della temperatura,” con la necessità di “fissare un obiettivo per la completa decarbonizzazione entro la metà del secolo,” in modo da difendere le comunità come quelle del Pacifico, che soffrono più di tutti i cambiamenti climatici.

È il caso del Kiribati, una nazione di atolli il cui presidente è stato in Vaticano prima della promulgazione dell’enciclica, per sensibilizzare sul suo problema. Ne parla John Ribot, vescovo di Port Moresby, che sottolinea come i vescovi dell’Oceania hanno già fatto un appello sul tema. “L’esistenza della nostra stessa vita in Oceania – dice, citando il documento delle Conferenze Episcopali di Oceania - è a rischio. Dio ci ha dato la stessa dignità di tutte le altre popolazioni,” ma “apparteniamo a gruppi molto vulnerabili, che soffrono dell’innalzamento dei mari e di un cambiamento climatico. L’effetto serra riduce la nostra capacità di sopravvivenza. Il business as usual non è fattibile e non rispetta la dignità umana, le culture si sono evolute per migliaia di anni, queste culture si sono estese in pochi decenni. Se fallirà Parigi, non potremo cambiare nulla.”

Il quinto comandamento chiede “stili di vita compatibili con il clima,” per “affrontare la disuguaglianza e portare le persone fuori dalla povertà.” Un tema particolarmente sentito in America Latina, e infatti l’arcivescovo di Bogotà, Ruben Salazar Gomez, presidente del CELAM, afferma che “in Amazzonia ci sono 7 miliardi di ettari di foresta tropicale, dove c’è una delle principali biodiversità del mondo. Questa regione sta soffrendo per i vari sfruttamenti a vari livelli, c’è un vero sfruttamento di questa regione, e per questo stiamo lavorando intensamente, perché ci sia formazione per tutti gli abitanti della Regione.”

Le altre richieste dell’appello sono: che le decisioni includano anche gli Stati più piccoli, che l’accordo 2015 offra una gradualità che aiuti in primis le comunità vulnerabili e che riconosca che “le esigenze di adattamento sono condizionate dal successo dell’adozione delle misure di riduzione;” e infine si chiede di fornire una “roadmap su come i Paesi insieme faranno fronte agli impegni finanziari.”

Un modello è dato dal REPAM, la Rete Ecclesiale per l’Amazzonia promossa – tra gli altri – dal Pontificio Consiglio della Pace con l’obiettivo di mettere di fronte a un tavolo non solo i Paesi che subiscono le conseguenze dello sfruttamento dell’Amazzonia, ma anche quelli che invece – con la loro potenza finanziaria – creano il problema.

More in Mondo

Jean Kockerols, vescovo ausiliare di Bruxelles e vicepresidente del COMECE, sottolinea che “l’Europa ha dato un esempio pessimo di una mentalità di totale cultura dello sfruttamento, di spreco e scialo, e l’Europa in uno Spirito di responsabilità per il futuro deve mostrare la sua capacità di cambiare il suo stile di vita.”

E il Cardinal Oswald Gracias, che firma l’accordo a nome delle Conferenze Episcopali d’Asia, spiega: “Vogliamo lanciare un appello forte nei confronti dei governi. I governi prendono delle decisioni politiche, e mi rendo conto che si tratta probabilmente di un problema strategico: forse i governi pensano troppo a breve termine. Ma quello del cambiamento climatico è un problema che colpirà generazioni future, quindi bisogna tornare ai principi etici, a riportarli alla luce non nell’arco di 5-8 anni, ma anche nei 100 anni.”