In questo breve articolo vorrei soffermarmi su due aspetti messi in luce anche da Mons. Angelo Comini (Primavera Liturgica Pavese 1953-1963) e da S.E. Mons. Paolo Magnani (nel suo articolo pubblicato su «Rivista Liturgica» Il Cardinale Noè nel novantesimo della sua nascita 1922-2011) a cui rimando e aggiungendo, se possibile, qualche dettaglio ulteriore: gli anni di formazione e di lavoro pastorale a Pavia (che volentieri ricordava per i legami di affetto mantenuti) e lo stile con cui svolse il suo ministero nella Chiesa.
La formazione ricevuta nell’infanzia e gli anni pavesi
Dobbiamo tornare agli anni della sua infanzia per comprendere come la vita di un ragazzo dai sette ai dieci anni fosse stata segnata dalla presenza e sacralità del suo parroco di allora, don Francesco Pisati, modello sacerdotale e dall’ambiente parrocchiale di Zelata che resterà indelebile nel cuore e nella mente del cardinale. È lo stesso Noè che lo ricorda in un discorso tenuto il 25 aprile 1988 a Bereguardo, andando con la memoria all’esperienza che lo guidò in seminario: «Quel sacerdote al quale si deve rendere omaggio per la sua costanza, don Francesco Pisati, mio parroco a Zelata, ci raccoglieva nelle lunghe serate d' inverno in un cosidetto "stanzone", pieno di fumo, che doveva smorzare il freddo. Dalla viva voce di quel prete si imparava la storia sacra. Lui la rendeva interessante come un romanzo. E quante volte ci parlò di Maria, che noi veneravamo come Decor Carmeli: e ciò mi affascinò per tutta la vita». Un altro sacerdote pavese che Noè ricorda è don Camillo Vigotti: «Ma c'è un altro prete, che viveva a San Zeno di Bereguardo e che ha riempito la nostra fantasia e la nostra vita, dell'ideale sacerdotale. Si chiamava don Camillo Vigotti e lui ci raccoglieva nel pomeriggio all'oratorio per il cosiddetto doposcuola. Ricordo una frase, tra tutte, che rimase scolpita in me: "Guardate, ragazzi: quelli che istruiscono al bene nella vita brilleranno come stelle nell’eternità". Piu tardi ho saputo da dove venivano quelle parole: venivano dalla Bibbia: La mente le fissò indelebili, e furono il motivo della mia ammirazione per don Camillo, tutta la vita».
Il 17 ottobre 1932 Virgilio Noè lasciava Zelata per entrare in seminario a Pavia e lì rimanervi dodici anni: «Andavo in seminario con un corredo racchiuso in un baule. Questo, fece mezzo giro d'ltalia: da Zelata a Pavia, a Valbissera, e poi a Roma». Furono anni di studio e di avvio pratico alla vita pastorale: studio interessato all’ambito liturgico attraverso le pubblicazioni del Parsch, Schuster e Guéranger e vita pastorale attiva, nelle parrocchie e in Cattedrale. È lo stesso Noè che ricorda come la partecipazione in Duomo alle celebrazioni presiedute dal vescovo fosse modello di vita spirituale per i chierici e come le stesse melodie ascoltate rimanessero poi impresse nella memoria: «Il filo dei miei ricordi personali risale fino a Pavia, in Duomo, un giorno di s. Stefano, in cui si eseguiva la messa Christus vincit a 3 voci miste del M° Picchi che era all’organo: io, seminarista, riportavo il tempo e voltavo le pagine della partitura. Risento ancora il ricamo melodico del M° Picchi sulla melodia gregoriana del Christus vincit» (Discorso tenuto a Como, 1986). Il 1 ottobre 1944 venne ordinato sacerdote da Mons. Allorio a Zelata e iniziò il ministero sacerdotale come collaboratore nella parrocchia del SS. Salvatore, creando un movimento giovanile incentrato specialmente sulla partecipazione alla liturgia. Nel 1948 fu inviato a Roma dal vescovo Mons. Carlo Allorio e frequentò la Pontificia Università Gregoriana dove nel 1952 conseguì la laurea in storia ecclesiastica, difendendo una tesi su La politica religiosa dei re longobardi. Tornato a Pavia qui vi rimase sino al 1964 (in pratica vent’anni, dall’ordinazione) insegnando Storia Ecclesiastica, Patrologia, Liturgia, Storia dell’arte in seminario e, allo stesso tempo, fu direttore spirituale nel Collegio Sant’Agostino, nel Collegio San Giorgio, Assistente spirituale dei Laureati cattolici e presidente della Commissione liturgica diocesana. Fu proprio attraverso queste esperienze di incontro con i giovani e con il popolo che organizzò, fra il 1952 e il 1964, una profonda azione capillare in diocesi in modo che si potessero celebrare in tutte le parrocchie le Settimane liturgiche parrocchiali, in preparazione ai Congressi Eucaristici diocesani (nel 1956 e nel 1961), ai quali parteciparono personalità rilevanti nel panorama ecclesiastico italiano (l’allora arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini e l’arcivescovo di Bologna, Giacomo Lercaro): fu quella una stagione segnata da uno straordinario fervore che coinvolse preti, religiose/i e laici, anni di più viva coscienza liturgica dopo la promulgazione dell’Enciclica di Pio XII Mediator Dei (1947) e la nascita a livello italiano del Centro di Azione Liturgica (1949). La sollecitudine liturgico-pastorale degli anni 1942- 62 (partecipazione attiva alla liturgia, canto, comunione) sarebbe stata quindi canonizzata dal Concilio, dal 1963 in poi, con la riforma liturgica.
Di questi vent’anni pavesi due sono le sottolineature che emergono fortemente: la formazione agli studi ben qualificata (per quegli anni) che il seminario di Pavia riservava ai candidati al sacerdozioe il radicamento di fede nel tessuto parrocchiale-diocesano che servì a Noè per comprendere il legame della pastoralità liturgica con la Chiesa locale.
La chiamata a Roma e il servizio alla Santa Sede
Nel 1964, mons. Noè venne chiamato a Roma come Segretario del C.A.L. (Centro di Azione Liturgica), riorganizzando la segreteria e divenendo Segretario della riforma liturgica per tutta l'ltalia attraverso il foglio «Liturgia» che divenne rivista di collegamento fra quanti si interessavano all’applicazione della riforma liturgica.
Ne ha viva testimonianza anche mons. Giuseppe Liberto, Maestro emerito della Pontificia «Cappella Sistina» che ebbe più incontri con l’allora monsignore prima di ritrovarlo, anni dopo, in San Pietro: «Uno degli incontri che ebbi con mons. Noè avvenne in un contesto molto significativo: la celebrazione della settimana liturgica a Monreale dedicata al tema del tempio (28 agosto - 1 settembre 1967). A quel tempo, mons. Noè era presidente del Centro di Azione Liturgica e ricordo con quale impegno coordinava lo svolgimento della settimana di convegno e, in modo tutto speciale, quello delle varie celebrazioni che lo caratterizzavano. Facendo parte personalmente del gruppo degli operatori musicali, ho ben viva la memoria di come egli si prodigasse nel motivare e guidare tutto ciò che riguardava la musica e il canto nella liturgia: da vero pastore, illuminava i musicisti per orientare il loro ministero a specifico servizio della celebrazione».
Dal C.A.L. «la Provvidenza mi volle prima sottosegretario in una Congregazione, poi Maestro delle Cerimonie dei Papi, Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II, il quale un giorno mi chiamò per consacrarmi arcivescovo». Noè, anche da arcivescovo e poi cardinale arciprete della Basilica patriarcale di San Pietro in Vaticano, non interruppe mai la sua formazione ma da buon storico continuò lo studio della liturgia per tutta la vita, tra gli incarichi sempre più pressanti: «per conoscere sempre più, per approfondire, per essere aggiornato, per dare sempre qualcosa di fresco a coloro che, in tutte le parti d'ltalia mi cercano».
Lo stile del «Maestro»
Così era chiamato da tutti in Vaticano: ricordo ancora quando da seminarista mi capitò più volte di svolgere servizio liturgico e di canto alle Messe papali in San Pietro e in Cappella Sistina. Molti dei cerimonieri di allora erano stati cresciuti dal cardinal Noè e lo avevano conosciuto bene e apprezzato appellandolo sempre (anche se ormai cardinale) «il Maestro» e lo era davvero: sia per la dottrina e l’esperienza liturgica che possedeva dalla sua formazione, sia per la competenza che rivelava quando faceva da maestro agli altri, sia per il modo con cui tradusse nella sua vita ciò che aveva celebrato nella liturgia. Lo stile celebrativo e attuativo della riforma liturgica che mise in atto all’Ufficio Celebrazioni del Sommo Pontefice fu una «schola dominici servitii» (Regola di San Benedetto, Prologo).
Potremmo quindi dire che lo stile di tutta la sua vita sia stato quello di un «gentiluomo di Dio». Fu verso tutti coloro che lavorarono con lui e lo conobbero (trattati fondamentalmente come amici) fedele e ben disposto, ma sempre discreto e riservato, limpido e sincero nel suo modo di agire, di parlare, perfino di ridere né molto, né smodato, lasciando trasparire nell'atteggiamento ciò che aveva appreso negli anni della formazione pavese, disciplina interiore e sobrietà esteriore.
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Camminava con la Chiesa: aderiva al suo pensiero e alle sue indicazioni. Fu questo un punto importantissimo per lui perché in tutti i suoi scritti, la riflessione sulla liturgia non poteva prescindere dall’ecclesiologia in quanto percezione del mistero e della missione stessa della Chiesa, da cui deriva la comprensione del ruolo peculiare della liturgia nell’esperienza cristiana.
Fu esigente con gli altri ma soprattutto con sé stesso: le qualità che possedeva erano fondate su un piano umano molto ricco. Sapeva quindi unire il senso della tradizione (mai abbandonò le devozioni mariane!) alla contemporaneità. Lo aiutava in questo un’autentica sensibilità estetica dell’arte per la liturgia, nobilis pulchritudo, e l'acutezza penetrante dell'intelligenza, che non si accontentava mai dei modi scontati e convenzionali di vedere le cose.
Un ultimo accenno, doveroso, da liturgista: non sono mancati in questi dieci anni dalla sua morte, purtroppo, attacchi non sempre garbati e spesso ingenerosi, che venivano da amici hesterni che si ritrovavano su posizioni preconcette e non sempre hanno visto con occhio limpido quello che il nostro cardinale aveva compiuto negli anni dell’applicazione della riforma liturgica.
Il tempo e gli studi faranno chiarezza su questo servitore della liturgia, saggio ed equilibrato.