Torniamo alle carte di Di San Martino ai Monti. Come scrive Rocciolo “Secondo l’autore, al parroco spettò il compito di cogliere i momenti opportuni per parlare delle cose che piacciono allo spirito e creano «impressione sul cuore e s’imprimono profondamente nella memoria», di predicare con misura e «con molta aggiustatezza», di evitare le invettive e di spiegare l’importanza delle virtù, che sole consentono di guadagnare la pace dell’anima e la ricompensa eterna. Sarebbe stato guidato dalla carità e dalla prudenza, avrebbe eliminato le occasioni di «far nascere dei sospetti svantaggiosi» e mantenendo la discrezione avrebbe ascoltato le informazioni, per il bene delle famiglie e di tutta la parrocchia. Se fosse stato sorpreso da eventi di «tempesta, di gelata, di malattia contagiosa, di morte improvvisa, di scandalo pubblico, di tumulto popolare», sarebbe stato ancora più caritatevole e se la parrocchia fosse rimasta vacante per la sua morte, l’amministratore provvisorio (economo) avrebbe evitato che si verificasse «un considerabile decadimento nei costumi»25. In sostanza, l’autore della raccolta propose un metodo pratico per ben «governare una parrocchia» al fine di stabilirvi «il buon ordine, e la pietà». Appunto, la pietà!
Le sue parole richiamarono la centralità dell’istruzione catechistica, dei dialoghi interpersonali, della visita delle famiglie, delle celebrazioni liturgiche, dell’amministrazione dei sacramenti, delle adunanze e conferenze, del decoro della chiesa, della regolata devozione, della avvedutezza contro «i torbidi di comunità» e dell’assistenza da assicurare ai poveri, ai vecchi e ai malati”.
Il libro di Monizioni più famoso Monita ad parochos pubblicato a Strasburgo nel 1779 da Ioannes Caspar Soetler fu edito a Roma nel 1826 e ristampata più volte, tanto che ancora si trova in commercio.
Scrive Rocciolo: “la cura delle anime rientrò nel complessivo progetto pastorale messo a punto dalla Chiesa locale per recuperare il ruolo di guida di fronte alla cristianità. Non sorprende che della Genga si sia adoperato fino in fondo per far risplendere il volto cristiano della città”.
Anche la riforma delle parrocchie va vista nell’ottica di una migliore pastorale, che fosse ovviamente un ravvedimento dei costumi e una lotta ai peccati che di fatto erano reati, dal furto, all’omicidio allo stupro e alla corruzione.
Leone XII “Da cardinale vicario e ancor più da pontefice, - scrive Rocciolo- capì che l’indebolimento dei rapporti tra i parroci e i fedeli era alla base dell’instabilità della struttura diocesana. Intuì che il tessuto parrocchiale doveva essere trasformato e non pensò ai parroci come a funzionari di polizia o a sorveglianti del territorio, bensì come a curatori d’anime”.
Le sofferenze della diocesi di Roma durante la rivoluzione giacobina del 1798-1799 e la dominazione napoleonica del 1808-1814, si videro soprattutto sulle parrocchie. Scrive Rocciolo: “Si è dovuto fare i conti con l'affermazione popolare di una mentalità aperta alla modernità, slegata dalla tradizione confessionale e ispirata dalla propaganda anticlericale. Durante il vicariato e il pontificato di Annibale della Genga, i parroci cercarono di rafforzare i legami con la popolazione e applicarono la pratica delle ammonizioni canoniche, non per un'attività repressiva, ma per restituire dignità alle persone nell'ambito di una rinnovata cura delle anime”. E conclude: “In definitiva sotto Leone XII, come è stato giustamente scritto, se da una parte si cancellarono le feste popolari, si limitarono le attività dei teatri, si controllarono gli spettacoli, si sorvegliarono la produzione e la circolazione dei libri e dei periodici, si disciplinò l’accesso alle osterie, si diede spazio nel contempo a buone iniziative riformatrici”.
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