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Verso il Sinodo. Un appello per ricordare gli insegnamenti della Chiesa

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Sono più di cinquanta moralisti, alcuni di fama internazionale, che hanno sentito il bisogno di fare un appello pubblico per richiamare gli insegnamenti dell’enciclica di Paolo VI “Humanae Vitae,” con un chiaro riferimento anche alla “Veritatis Splendor,” la prima enciclica di Giovanni Paolo II. Un appello che è stato presentato in lingua inglese, e che ha aperto un vasto dibattito all’interno del mondo accademico.

Primi firmatari sono David S. Crawford, del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II di Washington, e Stefan Kampowski, del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II di Roma. Il testo prende le mosse dall’Instrumentum Laboris del Sinodo dei vescovi, ma soprattutto contesta il punto 137, perché lì – sostengono i firmatari – “un documento-chiave del Magistero moderno, l’enciclica Humanae Vitae, viene trattato in un modo che pone in discussione la forza di quell’insegnamento e al tempo stesso propone un metodo di discernimento morale che è decisamente non cattolico.” Un modo che “contraddice quanto finora insegnato nel Magistero della Chiesa,” motivo per cui questi cinquanta moralisti hanno sentito l’esigenza di prendere la parola, e chiedere almeno la sostituzione del paragrafo 137, magari con un paragrafo “che parli della coscienza in modo più preciso, che celebri la saggezza e la bellezza della Humanae Vitae e che aiuti i coniugi a comprendere che le grazie sono a loro disposizione per vivere il piano di Dio riguardo al dono della sessualità.”

Ma cosa dice il paragrafo 137 dell’Instrumentum Laboris? Si rifà alla ricchezza di sapienza dell’ “Humanae Vitae,” ma sottolinea che le questioni trattate nell’ultima enciclica di Paolo VI fanno emergere due poli, “da coniugare costantemente.” Vale a dire, “da una parte, il ruolo della coscienza intesa come voce di Dio che risuona nel cuore umano educato ad ascoltarla; dall’altra, l’indicazione morale oggettiva, che impedisce di considerare la generatività una realtà su cui decidere arbitrariamente, prescindendo dal disegno divino sulla procreazione umana.” E così, continua l’instrumentum laboris, se si pende da un polo “si rischiano facilmente scelte egoistiche,” mentre dall’altro polo “la norma morale viene avvertita come un peso insopportabile, non rispondente alle esigenze e alla possibilità della persona.” Il paragrafo conclude chiedendo una “coniugazione degli aspetti.”

Una formulazione “profondamente ambigua,” che “suggerisce che la norma sia esclusivamente negativa e, per così dire, coercitiva,” ponendo “in tal modo l’accento sulla funzione proibitiva della norma equivale a ignorare il ruolo positivo svolto dalla norma nel promuovere la crescita personale del soggetto morale e la sua realizzazione nel bene,” sostengono i firmatari dell’appello. Che notano anche come si dà l’impressione che le norme morali possano essere “un peso insopportabile.”

Ma è davvero così? I firmatari guardano indietro al magistero dei Papi. Notano che nella “Veritatis Splendor” San Giovanni Paolo II notava che “Gesù mostra che i comandamenti non devono essere intesi come un limite minimo da non oltrepassare, ma piuttosto come una strada aperta per un cammino morale e spirituale di perfezione, la cui anima è l’amore (cfr. Col 3:14)”. Per questo, “interpretare la norma morale come qualcosa che stabilisce esclusivamente delle limitazioni estrinseche e potenzialmente in contrasto con il bene del soggetto morale, equivale a ignorare che Gesù Cristo insegna i comandamenti come qualcosa di pregno della pienezza di vita da Lui promessa.”

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Non solo. I firmatari mettono in luce come “la tesi secondo cui le norme morali possano anche non promuovere la felicità umana rispecchia una visione nominalistica e arbitraria della legge morale, visione secondo la quale un’azione è cattiva per l’unico motivo che è proibita.” Ma “una visione siffatta non corrisponde in alcun modo alla realtà della creazione di Dio,” tanto più che “la legge morale, essendo corrispondente alla verità dell’atto creativo di Dio, esprime verità antropologiche in merito alla persona umana che non possono esser ignorate o violate senza ledere le nostre ‘esigenze e possibilità’, vale a dire senza far male a se stessi.”

Altro punto in discussione: il fatto che le norme morali possa non corrispondere alle possibilità delle persone. Visione disperata dell’uomo, mentre era pieno di speranza quello del Magistero della Chiesa, a partire dal Concilio di Trento, perché Dio esorta a fare quello che si può, e non l’impossibile. E invece “il paragrafo 137 dell’Instrumentum laboris non consiglia di affidarsi a Dio per trovare la forza di obbedire ai Suoi comandamenti, ma suggerisce invece che un agente morale potrebbe trovare un terreno intermedio sul quale bilanciare le ‘esigenze e possibilità’ soggettive, percepite nel proprio discernimento, con il reale contenuto della legge morale.”

Altro tema: la coscienza, descritta dall’Instrumentum Laboris come “la voce di Dio che risuona nel cuore umano educato ad ascoltarla”, senza però sottolineare che “che la coscienza si riferisce alla legge iscritta nel nostro cuore: è proprio questo il senso in cui va interpretata ‘la voce di Dio’.”

Tra l’altro – mettono in luce i firmatari – “parlare di una voce di Dio che appaia scissa dalla legge morale, o che sembri mancare di ogni riferimento a questa, è grossolanamente inadeguato. È errato parlare di un polo soggettivo estrinseco alla legge e che con questa debba poi essere coniugato.”

Anche perché “una volta separata dalla legge, la coscienza stessa non è più un modo di trovarsi davanti a Dio. Invece, secondo questo modo di pensare, nella propria coscienza ci si trova soltanto davanti a se stessi.”

Manca, insomma, nel paragrafo 137 l’idea che la coscienza faccia riferimento a una verità oggettiva sul bene, notano i firmatari. E così il giudizio morale risulta solo la coniugazione di due poli, che avviene “senza alcun criterio,” perché “se coscienza e legge sono i due poli che vanno coniugati, nessuno dei due può fornire criteri sul modo di coniugarli.” Un problema che non risolve nemmeno la guida spirituale competente suggerita dal documento sinodale, perché questo “rende i coniugi dipendenti dal giudizio morale di esperti pastorali, e tale dipendenza contraddice la natura stessa della coscienza.”

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In questo modo si cade su un problema che già denunciava la Veritatis Splendor, e che porta ad una idea – fallace – che esistano “atti intrinsecamente cattivi,” dato che “il testo suggerisce che non vi siano norme morali dotate di validità assoluta, universale e immutabile che proibiscano sempre e senza eccezione gli atti intrinsecamente cattivi.”

E così, c’è il rischio – denunciano i moralisti – che “se sarà avallato dal Sinodo, il paragrafo 137 seminerà confusione fra i fedeli. Questi ultimi non saranno indotti ad apprezzare e a vivere l’insegnamento bello e affermativo sulla sessualità che la Humanae Vitae presenta, e saranno confusi riguardo al rapporto fra coscienza e verità morale oggettiva. Ma in ultima analisi la loro confusione non si limiterà all’insegnamento della Humanae Vitae. Permettere che le formulazioni contenute nel paragrafo 137 entrino a far parte dell’insegnamento del Sinodo comporterebbe infatti di poter applicare la logica di questo testo anche ad altri ambiti in cui è in gioco l’insegnamento della Chiesa circa gli atti intrinsecamente cattivi, quali, ad esempio, l’aborto o l’eutanasia.”

Un problema da non sottovalutare. Allora vale la pena rileggersi l’ “Humanae Vitae” e la “Veritatis Splendor,” andare a vedere il loro vero significato. E non farsi fuorviare, nel dibattito sinodale, dal Sinodo dei media che già affila gli artigli.