Città del Vaticano , domenica, 4. ottobre, 2015 15:51 (ACI Stampa).
Sono più di cinquanta moralisti, alcuni di fama internazionale, che hanno sentito il bisogno di fare un appello pubblico per richiamare gli insegnamenti dell’enciclica di Paolo VI “Humanae Vitae,” con un chiaro riferimento anche alla “Veritatis Splendor,” la prima enciclica di Giovanni Paolo II. Un appello che è stato presentato in lingua inglese, e che ha aperto un vasto dibattito all’interno del mondo accademico.
Primi firmatari sono David S. Crawford, del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II di Washington, e Stefan Kampowski, del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II di Roma. Il testo prende le mosse dall’Instrumentum Laboris del Sinodo dei vescovi, ma soprattutto contesta il punto 137, perché lì – sostengono i firmatari – “un documento-chiave del Magistero moderno, l’enciclica Humanae Vitae, viene trattato in un modo che pone in discussione la forza di quell’insegnamento e al tempo stesso propone un metodo di discernimento morale che è decisamente non cattolico.” Un modo che “contraddice quanto finora insegnato nel Magistero della Chiesa,” motivo per cui questi cinquanta moralisti hanno sentito l’esigenza di prendere la parola, e chiedere almeno la sostituzione del paragrafo 137, magari con un paragrafo “che parli della coscienza in modo più preciso, che celebri la saggezza e la bellezza della Humanae Vitae e che aiuti i coniugi a comprendere che le grazie sono a loro disposizione per vivere il piano di Dio riguardo al dono della sessualità.”
Ma cosa dice il paragrafo 137 dell’Instrumentum Laboris? Si rifà alla ricchezza di sapienza dell’ “Humanae Vitae,” ma sottolinea che le questioni trattate nell’ultima enciclica di Paolo VI fanno emergere due poli, “da coniugare costantemente.” Vale a dire, “da una parte, il ruolo della coscienza intesa come voce di Dio che risuona nel cuore umano educato ad ascoltarla; dall’altra, l’indicazione morale oggettiva, che impedisce di considerare la generatività una realtà su cui decidere arbitrariamente, prescindendo dal disegno divino sulla procreazione umana.” E così, continua l’instrumentum laboris, se si pende da un polo “si rischiano facilmente scelte egoistiche,” mentre dall’altro polo “la norma morale viene avvertita come un peso insopportabile, non rispondente alle esigenze e alla possibilità della persona.” Il paragrafo conclude chiedendo una “coniugazione degli aspetti.”
Una formulazione “profondamente ambigua,” che “suggerisce che la norma sia esclusivamente negativa e, per così dire, coercitiva,” ponendo “in tal modo l’accento sulla funzione proibitiva della norma equivale a ignorare il ruolo positivo svolto dalla norma nel promuovere la crescita personale del soggetto morale e la sua realizzazione nel bene,” sostengono i firmatari dell’appello. Che notano anche come si dà l’impressione che le norme morali possano essere “un peso insopportabile.”
Ma è davvero così? I firmatari guardano indietro al magistero dei Papi. Notano che nella “Veritatis Splendor” San Giovanni Paolo II notava che “Gesù mostra che i comandamenti non devono essere intesi come un limite minimo da non oltrepassare, ma piuttosto come una strada aperta per un cammino morale e spirituale di perfezione, la cui anima è l’amore (cfr. Col 3:14)”. Per questo, “interpretare la norma morale come qualcosa che stabilisce esclusivamente delle limitazioni estrinseche e potenzialmente in contrasto con il bene del soggetto morale, equivale a ignorare che Gesù Cristo insegna i comandamenti come qualcosa di pregno della pienezza di vita da Lui promessa.”