Padova , martedì, 5. gennaio, 2021 16:00 (ACI Stampa).
Un mese di maggio tanto dolce, il maggio di questo 1557, si distende sulle colline fino al mare. Freschi profumi portati dal vento inebriano api e uccelli.
Al vespero una brezza struggente si diffonde ovunque, al rintocco dell’Ave. Lorenzo Lotto, l’anziano pittore da Venezia, cammina piano lungo il porticato, davanti al santuario della Santa Casa di Loreto. Si sente stanco, affaticato, stroncato dai dolori che lo tormentano, eppure, in quest’ora tanto dolce, il suo cuore gli sembra più leggero che mai, pronto a sollevarsi in volo nel tramonto, come se fosse anch’esso una preghiera rivolta alla Vergine.
Rimane qualche momento immobile. Anche se non vuole, ripensa alla sua vita, agli anni trascorsi, a quanti inutili patimenti. Qui, a Loreto, sente di essere finalmente giunto ad un porto tranquillo, e poi l’età gli impedisce di sentirsi ancora in battaglia, contro tutti e anche, spesso, contro se stesso. Ma le domande, le tante domande che sempre gli hanno affollato la mente, ancora lo assediano, anche se con minore ferocia.
Un paio di anni prima ha dipinto un’opera davvero particolare, una Presentazione di Gesù al Tempio, per il Palazzo Apostolico di Loreto. La Madonna presenta a Simeone, il vecchio sacerdote, il figlio di Dio, e mostra la sua natura divina. La profetessa Anna indica verso il basso, in direzione dei piedi che sostengono l’altare. Sì, ha dipinto proprio dei piedi per sorreggere l’altare , per ricordare anche la natura umana e mortale di Cristo, di Colui che si è incarnato nella storia per la salvezza degli uomini. Tutta la tela è pervasa di un sentimento della fine. Sopra, nella parte alta del quadro, ha dipinto degli spazi vuoti, tra cui quelli del coro. Si vede un uomo anziano barbuto, che guarda la scena della presentazione, quasi di nascosto, dietro una colonna. E’ lui, lo stesso Lotto, ormai settantacinquenne, che sente di essere sul punto di lasciare la scena turbolenta di questo mondo? Lui che continua a contemplare il mistero di Cristo, che per tutta la sua esistenza ha cercato quel volto e che sempre Gli ha rivolto le domande fatali: Chi sei? Che cosa vuoi da me? Perché esiste tutto questo male?
Bisogna tornare a qualche anno prima. Il 1550 per Lotto è un anno di continui patimenti e sconfitte. Ha dovuto lasciare di nuovo Venezia, oppresso dagli insuccessi e dall’emarginazione. Venezia, i suoi palazzi scintillanti, le donne vestiti con abiti sontuosi, ricchi di quelle sete preziose che vengono dall’Oriente, le feste, le chiese diventate come scrigni di tesori…no, tutto questo ormai non fa più per lui. Per lui ci sono le calli strette e maleodoranti, i panni stesi tra casa e casa, sopra l’acqua melmosa die canali, le luci morbide e malinconiche dei tramonti o quelle tenere e colme di promesse delle albe. In ogni modo, tutto questo ormai è alle spalle. Ha deciso di trasferirsi, torna nelle Marche. A Roma è stato eletto al soglio pontificio Giulio II, ma anche il tempo dei fasti romani è solo un ricordo. Del resto, la città porta ancora aperte le ferite del terribile sacco del 1527 da parte dell’esercito imperiale. Infuriano gli scontri con i protestanti, buona parte d’Italia rischia di trasformarsi in un campo di battaglia. Anche l’anima di Lotto gli appare come un campo di battaglia. Gli pesano addosso i soliti sospetti, di essere in combutta con i “tedeschi”, di avere simpatie protestanti, di fare una pittura troppo nordica, piena di stranezze. Le committenze non sono numerose, i debiti avanzano.