Il modello era quello delle comunità gesuitiche con un ministro per le faccende che riguardavano la casa, e poi confessori separati per chierici e convittori, che erano sempre in maggioranza.
Diverse le età, le provenienze geografiche non solo italiane ma anche di alcuni paesi europei. Gli inservienti potevano arrotondare lo stipendio con le mance per alcuni lavoretti come rifare i letti ed altre piccole cose.
Il seminarista si alza alle cinque, cinque e mezzo a secondo della stagione, recita il Miserere, accende la luce si veste e rifà il suo letto. Aveva dormito in una camerata comune suddivisa da tende e in mezz’ora doveva aver finito la propria igiene personale. Dopo la messa e la colazione che si svolgeva anche in camerata in tavole singole nel XVII secolo si iniziavano le lezioni, al ritorno pulizie, studio e gioco tutto nella camerata. Era richiesto spesso il silenzio e anche la preghiera comune si svolgeva in camerata. Questa impostazione rimase a lungo quella di base.
Singolare era l’abbigliamento del seminarista, con quella “paonazza” che rimase in voga fino al 1969. Si trattava di una talare violacea con i bottoni rossi sulla quale si metteva la “soprana” dello stesso colore. Nel ‘600 era di fatto l’abito tipico dei preti mentre i convittori mantenevano il loro abbigliamento da laici. Completavano il tutto una cappa e una zimarra per l’inverno.
Si trattava di un abbigliamento senza frivolezze se comparato agli abiti laici dell’epoca, scarpe e calze nere, un cappello senza fiocchi e i guanti solo d’inverno.
Difficile era gestire i convittori che si addobbavano da cavalieri. Per questo la descrizione di ciò che è permesso è minuziosa, l’abito nella società dell’epoca era un segno di appartenenza sociale ed aveva anche uno scopo pedagogico.
Quando nel 1774 fu chiuso il convitto nobiliare le cose si semplificarono e il solo vestito del Seminario fu la paonazza e la soprana per uscire e per le feste e in casa la talare nera.
Le vesti erano curate da un sarto interno che si occupava anche della lavanderia. La biancheria da letto e personale ovviamente la portava da casa il seminarista.
Del periodo gesuita si conservano addirittura dei menù giornalieri dove si legge che le portate erano quattro legate alle stagioni e ai tempi liturgici. Molte carni stufate, polpette, salsicce e coratella ma anche fegato fritto e trippa nei giorni normali e formaggi, verdure e legumi nei giorni di magro. Pochissimo pesce, soprattutto alici.
Tutto era regolato e pesato in modo che fosse sufficiente ma non troppo abbondante. E durante il pasto in refettorio si leggeva vite dei santi e passi della Sacra Scrittura.
Nel periodo più moderno negli ultimo anni della vita all’ Apollinare le cose erano cambiate ma non troppo. Significativa però era la preparazione alla Festa della Madonna della Fiducia.
Quel “Mater Mea Fiducia Mea” segnava la vita di ogni seminarista del Romano.
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La fonte più interessante per i dettagli della festa viene da Notizie storiche della Cappella dei teologi, una cronaca che va dal 1860 al 1913.
La festa nasce di fatto nella camerata , tra gli ex alunni, ma già verso il 1878 diventa la festa del Seminario.
La cura della Cappella della Madonna della Fiducia, era affidata alla camerata dei teologi e all’ Apollinare per arrivare alla cappellina c’era da fare un percorso complicato tra corridoi e sotto tetti come si legge in un documento scritto per la inaugurazione.
Con il trasferimento in Laterano il legame stretto con i teologi si interrompe e per molti rimane un rimpianto.
Anche le vacanze per il seminarista avevano uno scopo pedagogico. Fin dai primi statuti nel 1564 si pensa a qualche periodo di svago. Al Seminario i Pontefici spesso danno in uso alcune zone verdi della città come le Terme di Caracalla. I seminaristi ci andavano quattro volte l’anno per passare una giornata all’aperto. Le “termate” cambiarono luogo nel 1782 quando le Terme furono date in enfiteusi e i ragazzi trovarono degli spazi vicino a Santa Prisca.
Le vacanze vere e proprie che secondo il calendario pontificio erano in autunno tra settembre ed ottobre, il Seminario si trasferiva a Tivoli. Tra alti e bassi si andò avanti sino al 1824 quando Leone XII assegnò al Seminario la villa che il Collegio germanico aveva ai Parioli, la Pariola. Boschi e verde a volontà lontano dai miasmi cittadini. La villa fu saccheggiata il 7 maggio del 1849 durante la Repubblica Romana e ne venne profanata la cappella.