Iskenderun , giovedì, 21. maggio, 2020 16:00 (ACI Stampa).
È successo undici anni fa: il 3 giugno 2010, il vescovo Luigi Padovese, vicario apostolico di Anatolia, veniva accoltellato dal suo autista nella sua residenza di Iskenderun, cercava di scappare, veniva raggiunto sull’uscio della porta e lì decapitato. Era un vescovo del dialogo, “ponte e non muro”, come lo definì il Cardinale Dionigi Tettamanzi, allora arcivescovo di Milano, nell’omelia per il suo funerale.
L’assassinio del vicario apostolico di Anatolia era avvenuto in un momento in cui la presenza cristiana in Turchia era vista, dai gruppi estremisti, come qualcosa in contrasto con il nazionalismo turco. Quattro anni prima, il 5 febbraio 2006, era stato il fidei donum don Andrea Santoro a cadere assassinato. Del pericolo, il vescovo Padovese era ben consapevole.
Padovese era stato nominato vicario apostolico di Anatolia nel 2004, trasportato lì direttamente dal suo impegno accademico, che lo aveva visto insegnare all’Antonianum, ma anche alla Gregoriana e all’Accademia Alfonsiana. Esperto di padri della Chiesa, aveva continuato l’impegno accademico anche da vescovo. Significativo è il titolo del corso intensivo che aveva preparato per l’anno accademico 2010 – 2011, e che non poté mai tenere: “La ricerca di Dio. Ponte di dialogo”.
Anche senza esperienza episcopale, il vescovo Padovese conosceva bene i luoghi cui era inviato, avendo partecipato all’organizzazione di molti convegni su San Giovanni ad Efeso e su San Paolo a Tarso.
Francescano, si definì sempre “cappuccino vescovo”, ma era anche profondamente legato alla Chiesa ambrosiana, cui apparteneva, e della quale sottolineava spesso legame con la Chiesa di Turchia, in particolare attraverso i santi, come Santa Tecla e San Babila.