C'è un messaggio di Papa Francesco che è rimasto particolarmente impresso nella Chiesa del Marocco?
Ci sono varie cose che ci sono rimaste impresse. La prima è che non è un problema essere pochi, è un problema essere del sale che ha perso sapore o luce che non illumina nulla. Il secondo che la nostra Chiesa deve compiere la sua missione di evangelizzare non con proselitismo, ma attraverso la testimonianza e il dialogo interreligioso. Quindi, che la dimensione samaritana della nostra Chiesa (e di tutta la Chiesa universale) è fondamentale e fa parte della sua identità e missione.
Quando Papa Francesco ha deciso di crearla cardinale, lei ha detto che non era un riconoscimento personale, ma un riconoscimento a tutta la Chiesa del Marocco. Perché la Chiesa in Marocco ha avuto questo riconoscimento?
Certamente, la mia creazione a cardinale, quando ero arcivescovo da appena due anni, non è stato un riconoscimento personale, perché io non ho un percorso di vita che lo merita e nemmeno alcun merito particolare. È stato, credo, un riconoscimento per le Chiese del Nord Africa, non solo per la Chiesa del Marocco. Si tratta di Chiese che, a livello mondiale, sono conosciute poco o per niente, quasi invisibili. E un cardinale a Rabat può essere un mezzo in più – come lo è stato la visita del Papa, per renderle visibili, per porle nella mappa ecclesiale. Crediamo, molto umilmente, che la nostra esperienza di vita cristiana possa essere utile ad aiutare tanto le Chiese di antica cristianità, ovvero le Chiese europee, quanto le giovani chiese di Africa e Asia.
Il Marocco è un luogo di dialogo e tolleranza, ma questo non è successo in altri Stati nella regione. Penso all'Algeria e ai martiri di Tibhirine, ma anche ad altre situazioni. Cosa porta la Chiesa marocchina alla regione? Quale è l'esperienza che può dare e quale l'esperienza che può prendere?
Sentiamo sulla nostra stessa onda i diversi Paesi della Conferenza Episcopale del Nord Africa, senza considerare le peculiarità di ogni Paese. La Libia, dove si vive una terribile situazione di conflitto civile, non è la stessa cosa del Marocco. Non sono la stessa cosa Algeria e Tunisia. Però credo che, nelle cose basiche fondamentali, le nostre Chiese coincidono: siamo una Chiesa estremamente minoritaria in un contesto di Islam maggioritario; desideriamo essere in queste popolazioni “servitori della speranza”, costruendo una cultura del dialogo e dell’incontro.
I martiri di Algeria non indicano, di per sé, una situazione di persecuzione al cristianesimo in questo Paese, dove i nostri fratelli cristiani continuarono e continuano a vivere la fede, promuovendo un dialogo islamo-cristiano nel mezzo delle difficoltà sorte a causa di quella che è stata una terribile guerra civile, durante la quale anche 100 imam furono assassinati per non aver voluto avallare la violenza dal punto di vista religioso
Nella Conferenza Episcopale della Regione Nordafricana (CERNA) condividiamo esperienze, riflettiamo insieme e ci aiutiamo in tutto il possibile. La Chiesa del Marocco ha qualcosa da portare alle altre, soprattutto nella dimensione della relazione con lo Stato e in campo educativo. Però la Chiesa del Marocco ha anche tanto da ricevere e apprendere, nella dimensione dell’incarnazione del mondo e della cultura islámica, per esempio.
C'è una raccomandazione di Papa Francesco che le è più rimasta impressa?
Io dissi al Papa che in Marocco preferiamo non parlare di “migranti”, ma piuttosto di “persone in situazione di migrazione” o “persone migranti”. E lui mi disse più o meno così: “Sì, sì, deve essere così. Perché siamo installati disgraziatamente in una cultura dell’aggettivo, che etichetta e definisce le persone attraverso una caratteristica: omosessuale, migrante, politico… dobbiamo passare ad una cultura del sostantivo, nella quale vediamo, soprattutto, all’essere umano nella sua profonda identità, nella sostantività. Lo vediamo come persona, come fratello… ma al di là delle qualificazioni che possono convenire, perché non venga diminuita in nulla la sua dignità fondamentale”.
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