Una mano tesa che va a scuotere anche un po’ i rapporti tra Vaticano e SSPX, da sempre protagonisti di un dialogo difficile. Già nel 1976, l’arcivescovo Lefevbre, a capo del movimento tradizionalista, era stato sospeso a divinis da Paolo VI. Ma poi la frattura divenne insanabile quando Lefevbre decise di voler ordinare nuovi vescovi. In tutti i modi, Giovanni Paolo II provò a scongiurare lo scisma, ma Lefevbre, nonostante moltissime garanzie e aperture, andò avanti per la sua strada, e il 30 giugno 1988 ordinò quattro vescovi senza il permesso del Papa.
Un atto scismatico. Secondo il Codice di Diritto Canonico, un vescovo può essere ordinato solo con il permesso del Papa, e con tre altri vescovi consacranti. Se la consacrazione ha luogo senza permesso papale, il vescovo consacrante e quelli consacrati sono scomunicati latae sententiae.
E infatti è quello che successe. Il giorno dopo, la Congregazione per la Dottrina della Fede emise un decreto di scomunica, e il 2 luglio 1988 San Giovanni Paolo II pubblicò la lettera apostolica “Ecclesia Dei,” e stabilì che la consacrazione era “un atto scismatico,” perché l’arcivescovo Lefevbre aveva ritirato la sottomissione al Pontefice e la comunione con i membri della Chiesa.
Sin da allora, il dialogo con la SSPX era stato difficile. La Commissione pontificia “Ecclesia Dei” aveva cercaato in tutti i modi di guarire questa ferita al’interno della Chiesa.
Benedetto XVI ha messo in campo uno sforzo straordinario per ricomporre la Chiesa all’unità. Nel 2007, ha diramato il motu proprio “Summorum Pontificum,” che liberalizzava l’uso del Messale del 1962 di Giovanni XXIII, ancora comunemente chiamato come “Messa in latino” (definizione sbagliata). Si trattava di una mano tesa verso il mondo tradizionalista. Sin dal 1984, Giovanni Paolo II, con la lettera “Quattuor Abhinc Annos,” aveva dato una sorta di “indulto speciale” che permetteva la celebrazione con il rito antico, e nel documento “Ecclesia Dei” chiedeva ai vescovi di concedere con generosità la possibilità di celebrare con il rito di Giovanni XXIII, piuttosto che con quello di Paolo VI. I vari istituti “Ecclesia Dei” nati in quel periodo rappresentano proprio un risultato di quello sforzo: si tratta di istituti composti da fedeli rimasti aderenti al magistero papale, ma che preferivano utilizzare il rito antico.
Il Summorum Pontificum stabilì che il rito tradizionale poteva essere celebrato senza il permesso di alcun vescovo, considerando così il rito di Giovanni XXIII un rito straordinario. Nel 2009, con l’istruzione Universae Ecclesiae, Benedetto XVI aveva reiterato questa liberalizzazione, ma allo stesso tempo aveva sottolineato che i benefici dell’istruzione non erano estesi a quei fedeli che aderivano a gruppi non in comunione con la Chiesa, e nemmeno a quelli che supportavano questi gruppi “con parole, scritti, offerte.”
Insomma, da una parte un braccio teso verso l’SSPX, da sempre critica verso il Messale di Paolo VI e che aveva fatto della celebrazione liturgica uno dei motivi di dissenso con Roma; dall’altro, la richiesta di accettare il magistero della Chiesa, inclusi documenti del Concilio Vaticano II fortemente criticati e messi sotto accusa dai lefevbriani.
Non solo. Il fatto che la Pontificia Commissione Ecclesia Dei fosse stata messa nei ranghi della Congregazione della Dottrina della Fede faceva indirettamente comprendere che il problema non era banalmente di liturgia, ma era piuttosto di dottrina.
In più, Benedetto XVI ha revocato nel 2009 la scomunica ai quattro vescovi lefevbriani illecitamente ordinati nel 1988. Da allora, il dialogo è ripreso, con laterne fortune, a partire da un primo incontro il 26 ottobre 2009.
Un momento cruciale è arrivato quando il Vaticano ha sottomesso alla SSPX un preambolo dottrinale insieme con una proposta di reinserimento all’interno della Chiesa cattolica. Il preambolo – presentato il 14 settembre 2011 – presentava “il minimo possibile” per la comunione con la Chiesa, e includeva l’accettazione dell’autorità del Papa e del Concilio Vaticano II. La formula pensata era quella della prelatura personale (solo l’Opus Dei è attualmente una prelatura personale), ovvero di una struttura canonica che è direttamente sotto le dipendenze della Congregazione dei Vescovi.
I lefevbriani presero tempo e poi diedero una risposta che Benedetto XVI non ritenne “sufficiente per superare i problemi dottrinali alla base della rottura tra la Santa Sede e l’SSPX,” come annunciò la Sala Stampa Vaticana il 16 marzo 2012.
A novembre 2012, Ecclesia Dei fece un ulteriore tentativo, chiedendo all’SSPX un passo per riconciliarsi con il Papa. Una ulteriore bozza di accordo fu presentato a gennaio 2013, e i lefevbriani dovevano rispondere entro il 22 febbraio 2013. Un termine che venne a cadere a causa della rinuncia di Benedetto.
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Ma tutto sembrava fermo, stando ad una lettera che l’arcivescovo Bernard Fellay, superiore generale della Fraternità, ha scritto in una lettera interna alla Fraternità, sottolineando che “sull’accettazione del Concilio Vaticano II e sulla Messa di Paolo VI, ovvero a livello dottrinale, siamo ancora al punto di partenza,” gli stessi problemi “che mons. Lefevbre ha posto negli anni Settanta.”
I colloqui sono comunque continuati, e l’ultimo incontro è avvenuto il 23 settembre 2014. Da parte Vaticana, c’erano il Cardinal Mueller, prefettodella Congregazione della Dottrina della Fede; il Segretario della Congregazione, l’Arcivescovo Luis Francisco Ladaria Ferrer, e il segretario aggiunto, l’Arcivescovo Augustino Di Noia, con in più il segretario di Ecclesia Dei, l’arcivescovo Guido Pozzo. Da parte lefevbriana, oltre a Fellay erano presenti i reverendi Niklaus Pfluger and Alain-Marc Nelly, assistenti della SSPX. L’incontro – recitava il Comunicato della Sala Stampa della Santa Sede – è servito ad esaminare “alcuni problemi canonici e dottrinali,” e in quell’occasione si era definita una sorta di procedura “passo dopo passo” in modo da arrivare alla “sperata riconciliazione.”
Quindi, nonostante i vari stop nei dialoghi, e anche posizioni fortissime della SSPX contro Papa Francesco (considerato un modernista) e persino Benedetto XVI, c’era grande speranza di riconciliazione.
Ora, il passo di Papa Francesco di ammettere la validità della confessione SSPX (anche se solo durante l’anno santo) punta proprio a chiudere quel colloquio. Il metodo è quello usato da Benedetto XVI, di eliminare ogni motivo di lamentela e puntare direttamente al cuore del problema. Un problema che non riguarda la Messa antica, ma piuttosto la dottrina. È in questo senso che la SSPX deve andare oltre le affabulazioni, e affrontare il cuore del problema: sono davvero disposti ad accettare l’autorità del Papa e del Magistero? Se lo sono, troveranno una porta aperta, sempre. Altrimenti, dopo quest’ultimo tentativo, anche Papa Francesco potrebbe rallentare considerevolmente il dialogo.