Città del Vaticano , sabato, 14. dicembre, 2019 15:00 (ACI Stampa).
Che il tema del fine vita sia difficile e spinoso non è un novità. Ed è altrettanto certa la posizione della Chiesa cattolica sul no ad ogni forma di suicidio assistito o eutanasia.
Ma rimane aperta una questione più delicata: come fare l’accompagnamento spirituale per coloro che scelgono di “staccare la spina”? Il compito della Chiesa, madre, è di non lasciare mai nulla di intentato per la salvezza dei figli.
A volte però il rifiuto è netto, pubblico, quasi aggressivo. In Italia recentemente il caso di DJ Fabo, e 13 anni fa quello di Piergiorgio Welby hanno alimentato il dibattito politico.
Nel caso di Dj Fabo il cardinale Angelo Bagnasco, come presidente della CEI, alla domanda su come, da sacerdote, si possa accompagnare un disabile grave che chiede di morire, rispose che “solamente Dio può raggiungere il cuore di ciascuno di noi, nessun altro così in profondità. E allora la prima forma di vicinanza è proprio quella della mia e della nostra preghiera, ma anche quella della parola, del sostegno, del contatto fisico di cui tutti abbiamo tanto bisogno”.
Nel caso Welby il cardinale Camillo Ruini allora presidente della Cei, che aveva rifiutato il funerale, disse che quella di dire no al funerale religioso era stata una decisione sofferta nata “dal fatto che il defunto, fino alla fine, ha perseverato lucidamente e consapevolmente nella volontà di porre termine alla propria vita: in quelle condizioni una decisione diversa sarebbe stata infatti per la Chiesa impossibile e contraddittoria, perché avrebbe legittimato un atteggiamento contrario alla legge di Dio (…)Nel prendere una tale decisione - sottolineava il porporato - non è mancata la consapevolezza di arrecare purtroppo dolore e turbamento ai familiari e a tante altre persone, anche credenti, mosse da sentimenti di umana pietà e solidarietà verso chi soffre”.