L’analisi della situazione è precisa: il paesaggio religioso dell’Occidente è mutato, a causa di quattro fattori: la proliferazione delle sette; il sorgere di nuove comunità nate dal movimento carismatico cattolico; il successo delle religioni dell’Oriente, e la presenza duratura dei musulmani in Europa.
Il problema è che – spiega il Cardinal Tauran – “le religioni sono spesso percepite come un pericolo… derive settarie, fanatismo, sono associati alla religione, specialmente a causa di atti terroristici ispirati ad una forma estremista della religione.” Eppure “non sono le religioni ad essere violente, ma i loro seguaci, onde la necessità di insegnare il contenuto delle loro religioni, coniugando fede e ragione. Non esistono oggi conflitti religiosi.”
Spiega il cardinal Tauran che le religioni sono usate come strumento in conflitti che definiamo identitari, si creano riferimenti etnici utilizzando anche il fattore religioso, dall’ “ethos si passa all’ethnos,” fa gli esempi della Grande Serbia, o della Nigeria, ma – aggiunge – in questi casi “non è in discussione la fede, non si presentano come guerre di religione, ma la religione serve piuttosto per definire delle posizioni.”
Afferma il Cardinal Tauran: “La religione non può essere leva di potere non si può sostituire ai governi. Considerando ciò che ho appena esposto si impone un dialogo tra le autorità politiche/religiose per il bene comune. Una religione si pratica sempre in una comunità. Per il loro numero, la visibilità dei loro riti e istituzioni, i credenti sono visibili e reperibili. Le autorità civili sono indotte a collaborare con i rappresentanti religiosi senza contrapporsi con loro. Lo Stato laico non riconosce alcuna confessione per conoscerle tutte. Quando le istituzioni hanno relazioni di fiducia con le religioni, possono attingere dal patrimonio delle religioni.”
Anche perché “tutte le religioni difendono la vita e la dignità umana, sono consapevoli dell’importanza della famiglia, promuovono fraternità, aiuto reciproco. Già svolgono un grande ruolo in termini di carità e cultura, già esiste una cooperazione possibile.”
E allora i credenti devono avere la possibilità di “vivere con libertà, con dignità e nella sicurezza. I credenti esistono, appartengono a questo mondo, sono cittadini a pieno titolo, offrono a tutti quel supplemento di anima di cui ogni società ha bisogno.”
Il Cardinal Tauran rivendica il ruolo delle religioni. “Noi credenti siamo cittadini di questo mondo, non siamo richiedenti asilo. Le religioni e i loro seguaci devono essere sul terreno, benevoli e solidali con tutti.”
E di certo la Santa Sede è sul terreno, lavora anche ad alti livelli diplomatici. L’Osservatore Permanente a Ginevra ha fatto firmare una dichiarazione al Consiglio dei Diritti Umani per “Sostenere i diritti umani dei cristiani e di altre comunità, in particolar modo nel Medio Oriente.” Era la prima volta che la persecuzione dei cristiani era riconosciuta formalmente, e da così tanti Stati, in una sessione ONU.
Al Meeting, l’Osservatore Silvano Maria Tomasi ha parlato appunto di come le organizzazioni internazionali possono rispondere alle crisi. D’altronde, anche il Cardinal Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha messo le Nazioni Unite sul Banco d’accusa per la situazione dei migranti.
Per quanto riguarda la situazione dei migranti, l’arcivescovo Tomasi sottolinea che “siamo di fronte ad una crisi umanitaria che ogni anno coinvolge nel mondo quasi 60 milioni di sfollati e 240 milioni di migranti internazionali. Parliamo di una persona su sette al mondo che è costretta ad abbandonare tutto spinta dalla disperazione e con la consapevolezza che suo può essere l'ultimo viaggio. Di fronte ad uno scenario che si sta profilando di perenne emergenza gli organismi internazionali si dimostrano di fatto incapaci a dare un nuovo indirizzo politico nella gestione del fenomeno.” E questo succeed perché “le Nazioni Unite e le organizzazioni attraverso cui operano sono condizionate dagli Stati membri e quindi limitate nella loro azione. Le strutture internazionali, così come le normative a livello internazionale, esistono ormai da lungo tempo, quello che manca è la volontà politica, una mancanza di quella globalizzazione della solidarietà di cui parla Papa Francesco.”
Per gli immigrati in Italia si parla molto del caso Libia, ma l’arcivescovo Tomasi allarga lo sguardo, sottolinea che “il problema degli Stati disintegrati, ‘failed States’, non riguarda solo la Libia, ma anche la Somalia, la dittatura Eritrea, la Siria ed altri Paesi. Nel caos e nella violenza che ne segue la popolazione cerca scampo in tutti i modi possibili. È il diritto alla sopravvivenza. L'intervento armato in questi casi rischia di complicare ulteriormente e la via del dialogo rimane il metodo preferibile. In casi estremi, quando tutte le altre opzioni sono esaurite, scatta il dovere di proteggere che la Comunità internazionale si deve assumere secondo le regole e gli organismi che si è data. Prevenire la disintegrazione di Stati potrebbe essere un servizio efficace delle Nazioni Unite.”
E ritorna comunque il problema della riforma delle Nazioni Unite. Una riforma per cui la Santa Sede si batte da sempre, e che è stata affrontata anche da Benedetto XVI nella sua enciclica “Caritas in Veritate.” Chissà se Papa Francesco ne parlerà il prossimo 25 settembre alle Nazioni Unite.
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