"Di Nagasaki – ha scritto il cardinale nella sua biografia - avevo già sentito parlare. L’avevo ripettamente incontrata nel 'Manuale di storia delle missioni cattoliche' di Giuseppe Schmidlin, tre volumi pubblicati a Milano nel 1929”.
E ancora: “A Nagasaki fin dal secolo XVI era sorta la prima consistente comunità cattolica del Giappone. A Nagasaki il 5 febbraio 1597 avevano dato la vita per Cristo trentasei martiri (sei missionari francescani, tre gesuiti giapponesi, ventisette laici), canonizzati da Pio IX nel 1862”.
Quindi, “quando riprende la persecuzione nel 1637 vengono uccisi addirittura trentacinquemila cristiani. Poi la giovane comunità vive, per così dire, nelle catacombe, separata dal resto della cattolicità e senza sacerdoti; ma non si estingue”. Proseguiva il Cardinale: “Nel 1865 il padre Petitjean scopre questa 'Chiesa clandestina', che si fa da lui riconoscere dopo essersi accertata che egli è celibe, che è devoto di Maria e obbedisce al papa di Roma; e così la vita sacramentale può riprendere regolarmente. Nel 1889 è proclamata in Giappone la piena libertà religiosa, e tutto rifiorisce. Il 15 giugno 1891 viene eretta canonicamente la diocesi di Nagasaki, che nel 1927 accoglie come pastore monsignor Hayasaka, che è il primo vescovo giapponese ed è consacrato personalmente da Pio XI. Dallo Schmidlin veniamo a sapere che nel 1929 di 94.096 cattolici nipponici ben 63.698 sono di Nagasaki".
Da qui, la domanda: “Come mai per la seconda ecatombe è stata scelta, tra tutte, proprio la città del Giappone dove il cattolicesimo, oltre ad avere la storia più gloriosa, era anche più diffuso e affermato?".
Nagasaki era un obiettivo secondario, perché il primo obiettivo era la città di Kokura. E c’è forse della sadica ironia della sorte nel fatto che alla fine la scelta ricadde su Nagasaki, la città dove erano concentrati due terzi dei cattolici in Giappone, i quali – dopo secoli di persecuzione – dovettero patire questo terribile colpo proprio alla fine della guerra.
Eppure, la bomba ha lasciato incrediilmente anche speranza. Il convento francescano che San Massimiliano Kolbe – morto ad Auschwitz nel 1941 , dando la vita al posto di un prigioniero – aveva stabilito a Nagasaki prima della guerra non ebbe danni dalla bomba. San Massimiliano, ben conosciuto per la sua devozione alla Vergine Maria, aveva deciso di costruire il convento proprio lì, alle falde del monte Hikosan, contro il consiglio di scegliere invece un’altra posizione e lo aveva chiamato Mugenzai no Sono (Giardino dell’Immacolata) Quando la bomba fu lanciata, il convento fu protetto dalla forza della bomba proprio grazie all’interposizione del monte Hikosan.
A Nagaski c’è un altro miracolo della bomba. Tra gli edifici ridotti in rovine ci fu la cattedrale di Urakami, allora una delle più grandi chiese dell’Asia. Le vetrate si sciolsero a causa dello scoppio di “Fat Boy”, i muri caddero, l’altare si bruciò, le campane si liquefecero. Ma la testa di una statua di legno della Vergine Maria sopravvisse tra le colonne collassate e i rottami della Chiesa. Fa quasi paura il modo in cui l’icona religiosa appare dopo lo scoppio: gli occhi della Madonna sono bruciati, la guancia destra è annerita e una screpolatura corre lungo il suo volto come fosse una lacrima. Tanto che Shigemi Fukahori, allora giovane sacerdote, sostiene che “la prima volta che ho visto la statua danneggiata, ho pensato che la Vergine Maria stesse piangendo. Ho pensato che fosse come se la vergine Maria ci stesse dicendo della miseria della guerra sacrificando se stessa. Questo è un significativo simbolo di pace che dovrebbe essere preservato per sempre”.
I resti della statua sono ora dentro la chiesa ricostruita sullo stesso punto, a soli 500 metri dal punto di esplosione della bomba. Sempre nella cattedrale di Urakami, c’era una statua di Sant’Agnese, che ora è nei corridoi delle Nazioni Unite a New York, come monito contro ogni distruzione nucleare.
Tre giorni prima di Nagasaki, era toccato ad Hiroshima. Il 6 agosto è il giorno della Trasfigurazione del Signore, ed è in quel giorno che, alle 8 e 15 del mattino, un B-29 americano, l’Enola Gay, lancia la sua bomba “Little Boy” su Hiroshima. La bomba scoppia a circa 600 metri sulla città. Un flash, una palla di fuoco gigante, e tutto viene praticamente vaporizzato in un raggio di poco più di un chilometro e mezzo dal punto di impatto.
Si stima che circa 80 mila persone persero la vita subito, e che il numero delle vittime è cresciuto rapidissimamente entro l’anno, a causa delle ferite e degli effetti delle radiazioni.
Eppure, non tutto è morte e devastazione. Ad Hiroshima c’era una piccola comunità di padri Gesuiti che viveva in un presbiterio vicino la parrocchia, situata a poco più di un chilometro dal punto di detonazione, proprio nel centro del raggio di totale devastazione. E tutti gli otto membri di questa comunità scamparono praticamente illesi dagli effetti della bomba. Il presbiterio rimase in piedi, quando due terzi degli edifici di Hiroshima erano crollati e a vista d’occhio intorno a loro non c’erano altro che edifici crollati.
Uno di questi sopravvissuti era padre Hubert Schiffer, un gesuita tedesco. Aveva 30 anni al momento dell’esplosione, e visse fino a 63 anni in buona salute. Negli anni seguenti ha viaggiato per raccontare la sua esperienza. E il Catholic Herald, anni fa, ha riportato uno stralcio della sua testimonianza registrata nel 1976, quando tutti e otto i gesuiti della comunità erano ancora vivi.
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Il 6 agosto, dopo aver detto Messa, Schiffer si era seduto per fare colazione. Fu lì che vide il fascio di luce. Dato che Hiroshima aveva impianti militari, Schiffer ritenne che c’era stata qualche esplosione nel porto. Ma quasi subito si rese conto che non era così. “Una terribile esplosione – raccontava – riempì l’aria con un tuono rumorosissimo. Una forza invisibile mi sollevò dalla sedia, mi scagliò per aria, mi scosse, mi sbatte e mi fece girare intorno e intorno”. Ricaduto per terra, si risollevò e si guardò intorno, ma non vide niente da nessuna parte. Tutto era stato devastato.
Schiffer ebbe qualche ferita lieve, ma niente di serio, e anche dopo gli esami eseguiti dai medici dell’esercito americano e da scienziati hanno mostrato che né lui né i suoi compagni hanno poi sofferto di malattie causate dalle radiazioni o dalla bomba. Schiffer e i suoi fratelli gesuiti ne sono convinti. “Siamo sopravvissuti perché vivevamo il messaggio di Fatima. Vivevamo e pregavano il rosario ogni giorno nella nostra casa”.
Dalla statua di Nagasaki alla Madonna di Fatima in Hiroshima, si può dire che in entrambe le città c’è stata la mano di Maria.
A differenza della cattedrale di Urakami a Nagasaki, la cattedrale di Hiroshima è stata completamente ricostruita dopo la Guerra, per volere di Hugo Lassalle, un parroco tedesco di Nobori Church, che a stento è sopravvissuto alla bomba atomica. Lassalle ha dedicato la sua vita alla ricostruzione della Chiesa, che oggi è la “Memorial Cathedral for the World Peace”, la cattedrale memoriale per la pace del mondo.
Lo stesso Lassalle volle che la costruzione fosse aderente ai canoni architettonici giapponesi e allo stesso tempo luogo di culto cattolico e memoriale. Ed è anche qui che, come ogni anno, si celebrano, dal 6 al 15 del mese, dei “Dieci giorni per la pace”. Una iniziativa ispirata all’appello lanciato da Giovanni Paolo II nel febbraio 1981 nel “Peace Memorial Park” di Hiroshima.
Il Papa disse: “Ricordare il passato è impegnarsi per il futuro. Non posso non rendere onore e plauso alla saggia decisione delle autorità di questa città secondo cui il monumento in memoria del primo bombardamento nucleare dovrebbe essere un monumento alla pace”. Così facendo, la città di Hiroshima e tutto il popolo del Giappone hanno vigorosamente espresso la loro speranza per un mondo di pace e la loro convinzione secondo cui l’uomo che fa la guerra è anche in grado di costruire con successo la pace. Da questa città , e dall’evento che il suo nome ricorda si è andata originando una nuova consapevolezza mondiale contro la guerra ed una rinnovata determinazione ad operare in favore della pace”.